Studi sul Cristianesimo Primitivo

Bioetica:vari orientamenti

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pcerini
view post Posted on 18/2/2009, 17:32     +1   -1




http://www.swif.uniba.it/lei/scuola/carell...a/bioetica2.htm

Gaia Barazzetti

Corso di Bioetica

Liceo Scientifico “L. Da Vinci”

12/10/2001, Crema



I fondamenti dell’etica: esistono doveri e divieti assoluti o le scelte morali

hanno a che fare solo con la coscienza e la responsabilità delle singole persone?



I progressi della tecnologia medica e della ricerca applicata in biologia hanno esteso enormemente la capacità di intervento dell’uomo sulla vita biologica.

Contemporaneamente, tali progressi hanno profondamente mutato la dimensione dell’esperienza umana del morire, del procreare, del rapporto con l’intera biosfera.

La realtà delle nuove discipline tecno-scientifiche ci sollecita ad una interrogazione che concerne non solo il loro oggetto, i loro mezzi e le loro applicazioni ma, soprattutto, i loro contraccolpi sulla vita morale dell’uomo.

Si tratta di una considerazione critica dei progressi delle scienze mediche e biologiche per riferirsi alla quale è entrato nell’uso comune il termine “bioetica”.

Il dibattito sullo statuto epistemologico della bioetica è ancora aperto e gli studiosi sono ancora lontani dal trovare un accordo su quali siano le origini, il metodo e lo specifico oggetto d’interesse di questo campo di studi. Al di là delle diverse interpretazioni che della bioetica sono state date finora, ritengo sia importante sottolineare che essa rappresenta in primo luogo un terreno in cui si esercita il pensiero morale.

In primo luogo è opportuno chiarire come si debba interpretare il rapporto fra la riflessione etica e il progresso delle tecnologie applicate alla vita biologica.

Il confine fra il tecnicamente possibile e il moralmente lecito spesso sembra assottigliarsi fino a scomparire quando in gioco sono i progressi delle nuove tecnoscienze.

Per “tecnoscienze” si intendono quelle scienze applicate nelle quali si realizza una sorta di circolarità fra il momento conoscitivo e quello tecnico-sperimentale[1]. Sono esempi di tecnoscienze l’ingegneria genetica e la tecnologia dei trapianti, per le quali è evidente che l’applicazione risulta premessa necessaria per il progresso conoscitivo, con la conseguenza che la realizzazione di ciò che è possibile fare diventa necessaria, se non funzionale, allo sviluppo della scienza.

Ora, il tecnicamente possibile rischia di essere considerato, oltre che necessario, moralmente lecito anche quando non sia stata operata alcuna riflessione critica sulle implicazioni etiche delle nuove tecnologie biomediche. Infatti, il “nuovo” realizzato dal progresso tecnologico è spesso automaticamente giudicato come “buono” perché promette il miglioramento delle condizioni di vita o l’ampliamento della possibilità di controllo dei processi biologici e naturali. Ne consegue che il progresso delle tecnoscienze è moralmente lecito perché indispensabile alla realizzazione di vantaggi per la salute e il benessere del genere umano. Tuttavia, si tratta di una indebita sovrapposizione del piano dei “fatti” a quello dei “valori”.

In bioetica ci si propone di articolare questo passaggio troppo scontato fra i progressi delle tecnoscienze e il giudizio etico che su di essi è possibile esprimere attraverso una considerazione morale dell’impresa scientifica.



La bioetica consiste in una considerazione morale dei progressi delle tecnoscienze per almeno due ragioni:

• la prima, più banale, è che la bioetica riguarda le scelte di valore degli individui.Tali scelte possono riguardare vertiginose alternative fra la vita e la morte (pensiamo al caso della sospensione dei trattamenti per i pazienti in stato vegetativo persistente), oppure possono essere poco incisive quanto alle loro conseguenze più immediate ma molto problematiche quanto alla loro ripercussione su un futuro più lontano (è il caso della introduzione di organismi geneticamente modificati nell’ambiente);



• la seconda, più rilevante, è che la bioetica prende in considerazione l’agire tecnologico il quale, in quanto agire umano, è sempre connotato moralmente. Hans Jonas ha espresso molto chiaramente questo concetto:

“che in generale l’etica abbia qualcosa da dire nelle questioni della tecnica, oppure che la tecnica sia soggetta a considerazioni etiche, consegue dal semplice fatto che la tecnica è esercizio di potere umano, vale a dire è una forma dell’agire, e ogni agire umano è esposto a un esame morale”[2]



Il carattere interdisciplinare che sembra caratterizzare la ricerca bioetica pone il problema di quale sia il ruolo dell’etica rispetto a quello della medicina, della psicologia, della giurisprudenza e delle altre discipline che concorrono a descrivere le diverse sfaccettature di un medesimo problema considerato. Ad esempio, la procreazione medicalmente assistita può essere sottoposta ad una considerazione medica (che ci dirà quali rischi e quali vantaggi medici essa comporta per la donna che vi si sottopone), una psicologica (che segnalerà le conseguenze di carattere psicologico che tale pratica comporta), una giuridica (che chiarirà le implicazioni di tipo giuridico sollevate), per citare solo alcune fra le competenze che possono entrare in gioco ai fini di una valutazione.

Il risultato di una analisi che tiene conto dei contributi di diverse discipline è ancora una considerazione di carattere “descrittivo” ma non “valutativo”. La somma delle competenze può fornire un quadro esaustivo della situazione problematica considerata, ma non autorizza di per sé indicazioni sulla condotta da seguire, non conduce da sola a giudizi di valore, non apre automaticamente ad una riflessione morale sul senso di certe pratiche. Esiste anzi il rischio concreto che in mezzo a tante e diverse informazioni il problema morale non venga nemmeno sollevato[3]. Rispetto alle competenze di carattere medico, giuridico, psicologico o teologico il ruolo della morale in bioetica è quello di porre l’interrogativo sul senso dell’agire tecnologico, di indicare i confini del moralmente buono, di fornire le indicazioni per una condotta giusta.

La bioetica dunque è impegnata in una considerazione eminentemente “morale” di quelli che sono problemi “morali”, poiché possono riguardare le scelte di coloro che si trovano di fronte a vertiginose alternative per la vita o per la morte (pensiamo al caso della sospensione dei trattamenti ai pazienti in stato vegetativo persistente), oppure perché concernono l’agire tecnologico che, in quanto agire umano, è sempre connotato eticamente (è il caso della ricerca sulla manipolazione del patrimonio genetico).

Resta da domandarsi quale sia la declinazione privilegiata di questa interrogazione morale in bioetica.

Evandro Agazzi[4] distingue fra due fondamentali versioni della dimensione etica della bioetica, ovvero fra due distinti ruoli che la morale può giocare nella considerazione dei problemi bioetici:

1) quello limitativo, in base al quale la bioetica dovrebbe semplicemente stabilire i limiti morali del progresso tecnologico, specificando cosa non è lecito fare. Questa visione del compito della riflessione morale in bioetica è fondato sul principio per cui “non è lecito realizzare tutti i possibili”[5], in aperto contrasto con la logica scientifico-tecnologica che preme per la realizzazione di tutte le possibilità aperte dall’evoluzione della ricerca applicata;

2) quello normativo” per cui la bioetica ha il compito di stabilire una serie di valori fondamentali e validi in assoluto a partire dai quali sia possibile orientare il giudizio morale, descrivere le caratteristiche di una condotta giusta.

Rispetto al ruolo limitativo della bioetica, che è di carattere negativo poiché stabilisce cosa non deve essere fatto, il ruolo normativo della bioetica è positivo giacché indica chiaramente quali sono i valori da promuovere nella condotta morale.

Agazzi sostiene che la bioetica non possa accontentarsi di svolgere un ruolo limitativo nei confronti del progresso delle tecnoscienze. Il rischio sarebbe quello di alimentare ingiustificati timori nei confronti dell’impresa scientifica, di rallentarne i progressi e di pregiudicarne i positivi risultati. La bioetica deve invece ispirarsi ad una riflessione morale di carattere più positivo e propositivo, che indichi i valori di riferimento in base ai quali potere esprimere, qualora fosse necessario, un giudizio critico e limitativo nei confronti della scienza. Si tratta di stabilire quali siano i valori e le norme fondamentali cui si debba fare riferimento i bioetica.

Lasciamo per ora aperto questo grande problema e concentriamoci sul dato finora acquisito:

la riflessione morale in bioetica ha un carattere eminentemente normativo, ovvero consiste nella individuazione di una serie di norme che si ispirano a ben precisi valori morali e che indicano con altrettanta precisione come ci si debba orientare nel giudizio morale.

Il fatto che la bioetica abbia questo carattere normativo ha delle ragioni storiche ed epistemologiche che vanno rintracciate nel modo in cui il dibattito bioetico è stato impostato a partire dagli anni sessanta.

Roberto Mordacci[6] ha parlato della bioetica come di una “disciplina d’importazione”. Non solo il termine “bioetica” ma anche il carattere normativo della bioetica sarebbero stati importati dal dibattito filosofico e teologico nato negli Stati Uniti intorno agli anni ’50 e ’60 a seguito dei dilemmi morali aperti dai progressi della tecnologia medica e biologica. Mordacci fa riferimento allo studio di Illhardt, il quale dimostra come la bioetica statunitense, a partire dalla quale ha avuto origine tutto l’odierno dibattito bioetico, avesse un “orientamento eminentemente pragmatico, mirante alla soluzione dei problemi o dilemmi etici riscontrati nella prassi clinica”[7]. Agli interrogativi morali che per la prima volta si ponevano con tanta urgenza nell’assistenza ospedaliera e nei laboratori di ricerca occorreva dare delle risposte; tali risposte non potevano essere che delle norme morali cui fare riferimento per giustificare il proprio comportamento, dei principi etici da applicare nelle situazioni concrete in cui era necessario stabilire quale fosse la condotta da seguire, la decisione giusta da prendere. Anche nel contesto culturale europeo, dunque, la bioetica si è imposta con il carattere di un’etica normativa, che rispondere ad esigenze pragmatiche e che si presta ad essere applicata ai diversi casi problematici ai quali è necessario dare una soluzione.

Facciamo un passo ulteriore ed avviciniamo al tema centrale della lezione di oggi:

esistono doveri e divieti assoluti o le scelte morali

hanno a che fare solo con la coscienza e la responsabilità delle singole persone?

La domanda ricalca quella che è stata riconosciuta da Adriano Pessina come una distinzione fondamentale fra le “due grandi famiglie dell’etica” individuabili nel dibattito bioetico[8]:

a) quella che sostiene che si possa fare riferimento a valori oggettivi (nel senso che sono validi e riconoscibili per chiunque),

b) quella che riconosce nel soggetto la fonte originaria della moralità (nel senso che sarà il singolo individuo o il gruppo di individui a determinare il valore cui, di volta in volta, fare riferimento). Stando a quest’ultima impostazione del discorso morale in bioetica, i valori non hanno validità oggettiva ma relativa o soggettiva, poiché dipendono dai soggetti che se ne fanno promotori.

Si tratta delle due differenti declinazioni che può assumere l’etica in bioetica, le quali, tuttavia, rimangono sempre entro la cornice generale dell’etica normativa. Infatti, sia che si richiami a valori oggettivi, sia che faccia appello alla libertà di scelta del singolo e alla sua personale costellazione di valori, la teoria etica alla quale possiamo scegliere di riferirci in bioetica mira ad indicare le norme in base alle quali orientare la propria condotta, è sempre finalizzata a stabilire come ci si debba comportare in una situazione concreta (quale può essere quella di un malato in stato vegetativo persistente, per il quale i parenti richiedano la sospensione dei trattamenti che lo mantengono in vita).

Prima di proseguire lasciatemi riassumere i punti principali del percorso di pensiero compiuto finora:

• la bioetica consiste in un pronunciamento di carattere morale sulle questioni problematiche aperte dall’impatto delle tecnologie bio-mediche sulla vita biologica

• il carattere specifico di tale pronunciamento morale è quello di indicare le linee guida per la condotta umana, di stabilire come ci si debba comportare, di chiarire quale sia la decisione giusta da prendere. In questo senso la bioetica si rivela essere un’etica normativa ed un’etica applicata che risponde ad esigenze pragmatiche

• le teorie etiche sostenute in bioetica sono tutte di carattere normativo ma si distinguono a seconda che riconoscano valori oggettivi oppure che affidino al soggetto il ruolo di fonte della morale

Ho parlato di “teorie etiche sostenute in bioetica”: è necessario chiarire cosa si intenda con questa espressione.

A tal fine farò riferimento all’esempio di caso problematico che vi ho citato poco fa.

Supponiamo che i parenti di un paziente in s.v.p. da diversi anni chiedano la sospensione dei trattamenti medici che lo tengono in vita.

Come medico, potrei decidere di assecondare la richiesta dei parenti, giustificando la mia decisione di accelerare la morte del paziente sulla base di una teoria etica che considera la vita di quest’ultimo non più degna di essere vissuta, poiché egli avrebbe perso quelle capacità di razionalità e coscienza che rendono la vita degna di essere vissuta.

Oppure, potrei negare ai parenti la sospensione dei trattamenti che tengono in vita il loro congiunto, facendo appello ad una teoria etica che considera la vita, anche quella biologica, sacra e indisponibile all’uomo, che vieta in assoluto di uccidere o lasciare morire un essere umano.

Robert Veatch definisce in questo modo una “teoria etica” in bioetica:

“Assumo che una teoria di etica biomedica sia un resoconto comprensivo e sistematico di un approccio generale per affrontare i problemi etici nel campo medico o biologico”[9]

Veatch intende per “teoria etica” la formulazione strutturata di una particolare visione morale. La teoria può prevedere uno o più principi morali fondamentali, regole di condotta, uno o più valori di riferimento, grazie ai quali sia possibile ad un individuo orientarsi nel giudizio morale.

Allo scopo di illustrare meglio in cosa consista una “teoria etica” e come possa essere di guida per le scelte morali, vi descriverò di seguito alcuni esempi di teorie etiche sostenute nel dibattito bioetico contemporaneo.

Non sarà possibile in questa sede offrire un’esposizione completa e dettagliata di tali teorie etiche. Tuttavia, sarà sufficiente una loro sintetica esposizione per potere comprendere come ognuna di esse possa fondare i giudizi morali e giustificare decisioni.



Personalismo

Faccio uso del termine “personalismo” per indicare la teoria etica che, nel contesto del dibattito bioetico contemporaneo, individua il criterio morale fondamentale nell’essere umano in quanto persona. Molte delle tesi sostenute dal Magistero della Chiesa in merito ai problemi morali originati dai progressi della scienza bio-medica, soprattutto a partire dal pontificato di Giovanni Paolo II, sono riconducibili a questa teoria.

Le diverse versioni che del personalismo sono state formulate, sempre entro i confini del dibattito bioetico, concordano nel concepire la persona umana come l’insieme inscindibile dei suoi elementi biologico-corporeo, psichico e spirituale.

La conseguenza principale dell’antropologia (ovvero della visione dell’uomo) sottesa al personalismo è che la vita biologica dell’essere umano non è intesa soltanto nei termini delle sue funzioni fisiologiche o delle sue parti anatomiche, ma è interpretata come elemento fondante dell’intera persona umana, come punto di partenza per lo sviluppo degli elementi psichico e spirituale. Il personalismo attribuisce alla vita umana una valore sacrale, dunque oggettivo e assoluto, non in quanto vita biologica umana ma in quanto vita della persona umana[10]. La vita biologica dell’essere umano è sacra, inviolabile ed indisponibile non perché “vita”, ma perché “umana”, promessa, sostrato e condizione della realizzazione della vita della persona nella sua totalità di corpo, psiche e spirito.

La sacralità della vita della persona umana rappresenta quel valore oggettivo che serve ad orientare in modo certo la condotta umana in campo biomedico. Gli interventi di manipolazione del genoma umano, la soppressione degli embrioni umani, la sospensione dei trattamenti o l’uccisione diretta di un paziente gravemente malato che chieda di essere aiutato a morire sono tutte pratiche moralmente condannabili. Il patrimonio genetico, l’embrione, il malato terminale sono tutti esempi di vita umana biologica che è sacra e indisponibile proprio in quanto condizione dell’esistenza “terrena” della persona.



Utilitarismo

Esistono diverse versioni dell’utilitarismo (teoria morale che ha le sue origini nell’opera del filosofo inglese Jeremy Bentham), ma tutte si richiamano ad un unico criterio di scelta e valutazione morale, ad un unico principio fondamentale.

Tale principio stabilisce che la moralità di un’azione consiste nella sua utilità, ovvero nella quantità di bene che essa può ottenere per il maggior numero di persone possibile. I molti modi in cui si caratterizza l’utilitarismo dipendono dai diversi significati attribuiti al bene che si vuole ottenere. Per fare solo alcuni esempi, il bene può essere identificato nella salute, nella felicità oppure, ancora, nel soddisfacimento delle preferenze personali dei singoli individui.

Si può meglio comprendere in cosa consista l’utilitarismo facendo riferimento ad un esempio della sua applicazione in bioetica.

Peter Singer è fra i maggiori sostenitori di una teoria etica utilitarista in bioetica. La sua versione dell’utilitarismo identifica il principio di utilità con la soddisfazione degli interessi per il maggior numero di individui.

È importante chiarire cosa Singer intenda con il termine “interesse”: la condizione necessaria per potere avere degli interessi è la capacità di provare piacere e dolore. Soltanto i soggetti che sono in grado di sviluppare e coltivare interessi sono “persone” e possono essere presi in considerazione nel calcolo utilitaristico che mira a valutare la bontà morale di un’azione. Ne consegue che, per Singer, i feti, i comatosi, gli handicappati gravi, non essendo in grado di sviluppare e coltivare interessi, non sono “persone” e restano esclusi dal “maggior numero” di individui a favore del quale è orientato il calcolo utilitaristico della moralità di un’azione.

La teoria etica utilitarista consente a Singer di giustificare l’espianto degli organi da neonati anencefali[11], anche qualora questi non fossero ancora morti. Questi bambini anencefali, infatti, non possono sviluppare interessi, mentre i neonati cerebralmente sani, ai quali gli organi degli anencefalici potrebbero salvare la vita, sarebbero in grado di sviluppare e coltivare interessi. Il calcolo utilitaristico degli interessi imporrebbe che gli anencefalici fossero utilizzati per l’espianto di organi fin dalla nascita[12].



• Liberalismo

Una delle teorie etiche alle quali si fa più spesso riferimento in bioetica è l’etica liberale[13]. Le caratteristiche di un approccio liberale ai problemi bioetici sono:

a) la negazione della possibilità di far valere una particolare concezione di vita buona sulle altre (ovvero la constatazione del pluralismo dei valori morali),

b) la considerazione dei problemi morali aperti dalle nuove tecnologie applicate alla vita come dilemmi in cui si oppongono diverse ed inconciliabili visioni del bene,

c) il tentativo di risolvere questi dilemmi al livello dell’etica pubblica (attraverso una decisione politica o una soluzione legislativa che fungano da compromesso fra le differenti posizioni) ,

d) il riferimento ad un concetto di libertà negativa (ossia di una libertà individuale che trova il suo limite in quella dell’altro),

e) l’affermazione del rispetto assoluto dell’autonomia individuale (intesa in senso ampio come la capacità dei singoli di decidere del proprio destino) quale unico ed irrinunciabile contenuto normativo.



Ad una teoria etica liberale in bioetica si ispira Hugo Tristam von Engelhardt Jr. Egli parte dalla constatazione della crisi dei valori etici comuni nel contesto della società occidentale contemporanea e dalla conseguente impossibilità di elaborare un etica laica generale e valida per chiunque. La medesima crisi dei fondamenti riguarda la bioetica, la quale deve collocarsi nell’orizzonte di una società laica pluralistica. Per Engelhardt, la sola ancora di salvezza per fondare un’etica laica che possa valere con autorità ma senza l’uso della forza è la ricerca di un “accordo libero”[14] ovvero di una forma di negoziazione pacifica fra le parti coinvolte. Si tratta di un accordo su una morale laica di tipo procedurale il cui unico principio è il rispetto reciproco della libertà dei singolo individui. Tale teoria etica è procedurale poiché prescinde dai contenuti morali e si limita a stabilire una regola fondamentale che garantisca la convivenza pacifica di diverse e contrastanti visioni del bene, la “procedura” grazie alla quale si possano superare o evitare i conflitti morali a livello sociale. Si configurano in questo modo due livelli della vita morale:

• quello di un’etica pubblica laica, che ha carattere procedurale e vale per differenti comunità morali,



• quello delle singole comunità morali, che è di tipo contenutistico poiché ogni singola comunità morale attinge al proprio orizzonte di valori.

Tale etica procedurale del rispetto reciproco si fonda sul principio di autonomia, inteso semplicemente come la capacità di decidere per sé stesso da parte di un soggetto morale, senza alcuna specificazione ulteriore relativa ai valori individuali a cui il soggetto si ispira.

Engelhardt offre un esempio di applicazione di tale etica procedurale alla pratica dell’assistenza sanitaria quando considera il problema morale dell’eutanasia. Un paziente per il quale non siano ulteriormente sostenibili le sofferenze fisiche e psicologiche cui lo condanna un male inguaribile, per Engelhardt può esercitare legittimamente il diritto al rispetto della propria autonomia e chiedere di essere aiutato a morire. L’eutanasia è giustificata moralmente dal rispetto del principio di autonomia.

Le teorie etiche delle quali vi ho proposto una sintesi hanno tutte dimostrato di avere una aspirazione normativa. Tutte, infatti, si propongono di rispondere all’urgenza delle scelte imposte dal progresso delle scienze bio-mediche attraverso l’indicazione di schemi morali di riferimento che indichino quale sia la condotta da seguire. Ognuna delle teorie etiche considerate ha avanzato una possibile risposta alla domanda fondamentale che ci siamo posti in questa lezione:

esistono doveri e divieti assoluti o le scelte morali

hanno a che fare solo con la coscienza e la responsabilità delle singole persone?

Dunque, quale genere di teoria etica prendere a riferimento in bioetica? Quella che si richiama a valori oggettivi e principi morali assoluti (come il personalismo) oppure quella che presuppone il pluralismo delle visioni del bene e rimette la moralità delle azioni all’autonomia delle scelte individuali (come il liberalismo nella versione di Engelhardt)?

Qual è la risposta alla nostra domanda? Questa domanda può avere una risposta definitiva? E se così non fosse, quale è il suo senso?

La domanda iniziale ha acquisito un senso più complesso che forse potrà essere compreso spingendoci più in profondità nell’analisi delle due alternative che essa fondamentale propone.

Coloro che affermano l’esistenza di valori oggettivi e doveri morali assoluti in bioetica criticano la prospettiva del pluralismo etico[15].

Adriano Pessina tiene a specificare che il “pluralismo etico” non coincide con il “pluralismo dei valori”. Quest’ultimo può infatti volere significare che esistono molti valori, i quali possono stare fra loro in un rapporto di gerarchia. Il “pluralismo etico”, invece, afferma la conpresenza di teorie morali che possono differire fra loro tanto per la gerarchia dei valori cui si appellano, quanto per la diversa impostazione del discorso morale che ognuna di esse fa propria (possiamo distinguere fra impostazione consequenzialista, deontologica, metafisica, ecc.).

Pessina critica al pluralismo etico di volere difendere un’istanza di matrice politica: quella della preservazione della libertà dei singoli nei confronti di qualsiasi condizionamento paternalistico o autoritario. Il pluralismo etico, lungi dal garantire soluzioni ai problemi bioetici che siano neutrali o comunque rispettose delle visioni etiche di ognuno, fa valere il “valore assoluto della libertà del soggetto”[16].

Ancora, Pessina afferma che il pluralismo etico è un dato di fatto constatabile che acquisisce un valore normativo solo perché presuppone una teoria etica che attribuisce valore universale ed oggettivo alla “scelta in quanto tale” del singolo.

Una ulteriore critica mossa al pluralismo etico è quella di fare valere un relativismo morale che rischia di sfociare nel nichilismo. Secondo tale critica, se le teorie morali che valgono sono molte, allora nessuna vale davvero e non esiste nessun principio morale che sia vincolante moralmente. Le teorie morali, per così dire, si depotenzierebbero reciprocamente, promuovendo una pericolosa deriva nell’assenza di un senso autentico.

Infine, Pessina ravvisa nel pluralismo etico e nella celebrazione della libertà di scelta degli individui come fonte della moralità il rischio di una ratificazione acritica del progresso tecno-scientifico. Lasciare la legittimazione morale di pratiche come la fecondazione in vitro alla libertà di autodeterminazione nelle scelte riproduttive significherebbe approvare una tecnologia biomedica senza averla sottoposta a dura critica.

Ora, Pessina crede che la bioetica dovrebbe rifiutare la promozione delle morali private modellate sulle preferenze dei singoli, per perseguire la ricerca del vero bene. In gioco sono questioni antropologiche fondamentali quali il significato della vita umana, il senso della nascita e della morte che non possono ricevere soluzione facendo ricorso a regole di comportamento procedurali quali quella del rispetto reciproco della libertà dei singoli.

La critica al pluralismo etico e l’aspirazione ad individuare valori assoluti ed universali ha il merito di richiamare la necessità di una riflessione sui contenuti della morale e di denunciare le contraddizioni implicite nell’esaltazione della libertà e autonomia dei singoli. Tuttavia, resta da chiedersi se tale riflessione sulle questioni di senso (quali il nascere e il morire nell’età della tecnologia biomedica) debba necessariamente sfociare nella individuazione di verità assolute. La ricerca del senso delle dimensioni esistenziali della vita umana che divengono oggetto delle nuove pratiche biomediche consiste, per Pessina, nell’elaborazione di un’antropologia che mira a fornire gli strumenti per il giudizio morale. Ma tale antropologia incorpora valori di riferimento ben precisi e veicola una determinata concezione di cosa sia il bene per l’essere umano.

Abbiamo considerato le istanze che stanno alla base delle teorie etiche che, in bioetica, si riferiscono a valori oggettivi universalmente riconoscibili.

Ora vi propongo di prendere in esame l’altra linea di tendenza del dibattito bioetico, quella che si appella all’autonomia e alla responsabilità dei singoli.

A questo diverso paradigma fa riferimento Maurizio Mori quando afferma che in bioetica debba valere un’etica della qualità della vita[17]. Egli sostiene che la bioetica sia nata perché l’estensione del potere tecnologico sulla vita biologica ha affrancato l’uomo dalla falsa opinione che esistessero limiti morali invalicabili al suo agire. I progressi delle tecnologie biomediche hanno reso evidente che esistono altre teorie etiche alle quali fare riferimento, hanno aperto l’orizzonte del pluralismo etico. Dunque, in bioetica “non si tratta affatto di illuminare il nuovo terreno con il vecchio faro (quello dell’etica tradizionale) ma di sapere se -ora che si è ampliato il terreno da illuminare- si debba continuare ad usare il faro «tradizionale» o si debba invece usarne uno «nuovo» e questo sia per illuminare i problemi classici sia quelli nuovi”[18]. Per etica tradizionale Mori intende l’etica della sacralità della vita, quella che prevede un principio assoluto (il principio della sacralità della vita) al quale tutti gli altri valori siano gerarchicamente ordinati. Il progresso delle tecnoscienze apre dunque ad un pluralismo etico col quale è meglio compatibile un’etica della qualità della vita, ovvero un’etica che non prevede alcun principio assoluto ma favorisce “il benessere e/o l’autonomia”[19]. Al dato di fatto dell’assenza di assoluti e del pluralismo etico consegue l’affermazione del principio di autolegislazione degli individui e la riconsegna dell’etica nella sfera di potere esercitata dagli esseri umani. Si tratta di stabilire i nuovi principi e le nuove regole. La bioetica sarebbe dunque, per Mori, una “nuova etica”[20] poiché si propone di stabilire principi e regole “nuovi” per problemi vecchi e nuovi.

La proposta teorica di Maurizio Mori non soltanto presuppone il pluralismo etico ma, pure, assegna un preciso significato alla riflessione morale in bioetica, definendo l’«etica» come:

“quella speciale istituzione sociale il cui fine è quello di garantire un’ordinata convivenza sociale”[21]

Si tratta di una concezione dell’etica come etica pubblica che accomuna diverse teorie etiche sostenute in bioetica.

Per queste prospettive morali la bioetica dovrebbe unire alla finalità normativa la caratteristica di un’etica pubblica che possa garantire la convivenza pacifica e il rispetto reciproco fra le istanze etiche dei singoli. Pensiamo alla bioetica ispirata all’etica liberale nella formulazione che ne dà Engelhardt: essa mira a risolvere nell’ambito dell’arena pubblica i problemi morali aperti dalle nuove tecnoscienze. L’obiettivo è quello di fornire una giustificazione morale a pratiche controverse nel rispetto delle opinioni dei singoli.

Tuttavia, questa preoccupazione per la compatibilità delle scelte individuali con la sussistenza di una comunità laica pluralistica presuppone:

a) una precisa concezione dell’autonomia del soggetto morale (ovvero del singolo individuo che quelle scelte si trova a meditarle e a compierle).

b) una certa visione del rapporto fra la sfera pubblica, rappresentata dalla comunità laica pluralistica, e la sfera privata del singolo.

a) abbiamo potuto notare come nel contesto della bioetica di ispirazione liberale il singolo soggetto agente si caratterizzi per la sua capacità di esercitare scelte autonome. Il principio di autonomia è posto al tempo stesso come condizione dell’agire morale e come contenuto minimo fondamentale della morale. Si tratta di un’autonomia intesa semplicemente come l’essere in gradi di decidere per sé stessi, senza alcuna ulteriore specificazione in merito ai valori individuali cui la decisione si ispira. L’autonomia è pensata solo come garanzia per la convivenza pacifica di visioni morali differenti e come argomento fondamentale per la giustificazione pubblica della liceità morale delle scelte dei singoli.

b) Engelhardt avverte nel pluralismo etico il rischio di una deriva nel nichilismo e nel fallimento di qualsiasi tentativo di formulare un’etica normativa. La soluzione che egli propone è quella del riferimento ad un’etica pubblica laica di tipo procedurale che, attraverso il rispetto reciproco delle scelte individuali in quanto scelte autonome, garantisca la convivenza pacifica fra le diverse visioni del bene. Tuttavia, al livello della sfera pubblica le decisioni individuali devono essere svuotate del loro riferimento ai valori personali se vogliono garantirsi la liceità morale nel contesto di una società laica pluralistica. Il risultato di questo passaggio, per Engelhardt obbligato, da un pluralismo sull’orlo del nichilismo ad un’etica pubblica procedurale è:

• lo svuotamento di contenuto della sfera pubblica,

• il progressivo isolamento della sfera privata (quella della singola comunità morale o quella del singolo soggetto agente)

Questa etica pubblica di carattere procedurale spezza in due il soggetto (diviso fra sfera pubblica e sfera privata), confinando i suoi valori, i suoi dubbi, il suo vissuto emozionale in un’intimità che, per potere essere protetta e rispettata, deve rimanere silenziosa, in una vita privata che deve restare in ombra poiché le sue istanze vengano accolte al livello della vita pubblica.



Esempio di questo meccanismo di svuotamento di contenuto della sfera pubblica e del corrispondente isolamento della sfera privata è la vicissitudine della recente legge italiana sull’espianto degli organi ( e sulla “donazione”). La legge risale al 1993 e funziona sulla base del principio del “silenzio-assenso”, il quale prevede che chiunque non abbia espresso esplicitamente la volontà di non donare i propri organi dopo l’accertamento clinico della morte sia automaticamente donatore. Nella primavera del 2000 a molti di noi è stato recapitato a casa un cartellino per concedere o negare l’autorizzazione all’espianto dei propri organi. Sul cartellino era prevista una scelta opzionale fra “sì” e “no” (specifico che si trattava di un provvedimento temporaneo che andava a colmare il vuoto normativo lasciato dalla vecchia procedura per l’espianto, in attesa che la nuova legge diventasse operativa). Che cosa è accaduto allora?

è mancato un dibattito pubblico sul problema dei trapianti e sulla definizione di morte che in Italia legittima l’espianto. Le scelte morali, sia al livello della sfera pubblica che al livello della sfera privata, dovrebbero essere il risultato di un percorso di riflessione che consideri tutti i problemi in gioco. La scelta è un momento certo importante della vita morale ma non la può sostituire. Di più, la decisione fondamentale (quella che autorizza l’espianto) con il meccanismo del silenzio-assenso era già stata presa, al di sopra delle scelte dei singoli, dal legislatore che ha dichiarato tutti potenziali donatori (a meno di un dichiarato rifiuto).

Al livello della sfera pubblica è stata richiesta una mera scelta opzionale per il “sì” o per il “no”, mentre le motivazioni individuali della scelta (valori, paure, dubbi) sono state confinate al livello della sfera privata.

Ancora, la scelta di fronte alla quale ognuno è stato posto è stata pensata come scelta stringente fra “sì” e “no”, revocabile certo ma pur sempre ultimativa. Non è stato lasciato spazio per il dubbio, l’indecisione (poiché il silenzio avrebbe significato un assenso).



Si può rintracciare una forma di occultamento strategico della ricchezza di contenuto delle scelte individuali anche nell’ambito della bioetica utilitarista.

L’individuo che, per esempio, si trovi a dovere decidere come morire (oppure, dall’altro lato della relazione terapeutica, il medico che debba scegliere se debba lasciare sopravvenire la morte di un paziente) si limita ad operare un calcolo razionale dei costi e dei benefici che la sua azione comporta per l’utilità sociale. Per il soggetto agente la scelta morale consiste in un computo delle conseguenze che la sua azione produrrà. La considerazione morale è subordinata al principio fondamentale dell’utilità, principio che preesiste ai singoli individui ed è condizione imprescindibile per la moralità di un’azione. Dunque, la moralità di un’azione coincide con la sua utilità per il consorzio sociale, perché il punto di vista privilegiato non è quello del singolo individuo ma quello sovraindividuale del maggior numero di individui.

L’errore della bioetica utilitarista consiste, per Anne Maclean, nell’avere ridotto l’identità del soggetto agente, il suo essere radicato in un determinato contesto sociale, il suo essere un singolo ed irripetibile essere umano in carne ed ossa, ad un mero soggetto di preferenze e desideri, i quali, nell’arena pubblica, dovrebbero valere per lui quanto quelli di chiunque altro[22].

In riferimento alle teorie etiche che in bioetica si preoccupano di garantire la sussistenza di un’etica pubblica laica Roberto Mordacci[23] ha parlato del pericolo di concepire il soggetto morale come “dissolto” e “dissoluto”:

• esso è dissolto in quanto “conserva soltanto la funzione rappresentativa di un individuo portatore di interessi, preferenze e scelte autonome”, dunque si dissolve nella somma delle sue funzioni,

• inoltre, è dissoluto poiché incontra l’altro soltanto nello spazio del confronto pubblico, come un avversario con il quale i propri interessi entrano in conflitto.







Conclusioni



Facciamo riecheggiare ancora una volta la domanda fondamentale che ci siamo posti in questa lezione:

esistono doveri e divieti assoluti o le scelte morali

hanno a che fare soltanto con la coscienza e la responsabilità delle singole persone?



Ognuna delle teorie etiche che ho brevemente descritto ha dimostrato di rappresentare una possibile risposta a questa domanda, ma anche di non potere dire una parola utlimativa sul quesito posto.

Da un approfondimento dei presupposti delle teorie bioetiche considerate sono emersi diversi punti critici relativi al modo in cui esse concepiscono il necessario riferimento a valori oggettivi, piuttosto che all’autonomia dei singoli. Si tratta di elementi problematici che restano legati al concetto di bioetica come etica normativa, applicata ai problemi morali sollevati dal progresso delle tecnoscienze. Infatti, ambedue i generi di teorie etiche considerate (quelle che affermano l’esistenza di valori oggettivi e quelle che rimettono tutto all’autonomia degli individui) pretendono di dare per risolti problemi morali che invece restano aperti. Il pluralismo etico come dato di fatto non smette di insinuare il dubbio che esistano valori morali assoluti; così come non sono privi di contraddizioni il concetto di autonomia delle singole persone e l’idea di un’etica pubblica procedurale.



La domanda che costituisce il tema della lezione è destinata a restare aperta non solo perché è suscettibile di ricevere risposte diverse e mai risolutive, ma anche perché, in un certo senso, non si lascia risolvere. Essa rende conto della realtà del pensiero morale nell’età contemporanea.

Per capire in che senso questo riguardi anche la bioetica è utile richiamare una suggestiva immagine che ci propone Hans Jonas: l’immagine dell’abisso.

Jonas nota come per noi contemporanei il potere tecnologico assuma dimensioni smisurate rispetto al passato. L’agire tecnologico si estende indefinitamente nello spazio (pensiamo alla possibilità di manipolare la realtà microscopica del patrimonio genetico e quella macroscopica dell’intera biosfera) e nel tempo (poiché non conosciamo le conseguenze delle conquiste delle tecnoscienze sull’umanità futura). Paradossalmente, questa estensione del potere umano sulla vita biologica si realizza in un era in cui sono venuti meno i valori oggettivi e punti di riferimento assoluti che possano orientare moralmente l’agire umano.

Per Jonas ci troviamo oggi sull’orlo di un duplice abisso:

•l’abisso dello smisurato potere che la tecnica conferisce al nostro agire,

•e l’abisso della fine delle certezze della morale, spalancatosi con l’epoca moderna che ha negato l’assolutezza delle verità religiose e metafisiche.



In bioetica si tratta di pensare sull’orlo di questo abisso doppiamente profondo.

Ora, se la tendenza normativa in bioetica è il tentativo di dare risposte ai problemi etici aperti dal progresso tecnologico e all’assenza di punti di riferimento certi in morale, il pericolo è che tale tentativo chiuda gli occhi di fronte all’abisso.

Il richiamo a valori oggettivi o ad etiche procedurali che rinunciano al riferimento a contenuti morali per potere mantenere un pluralismo delle visioni morali, sono due modi diversi in cui si caratterizza la medesima reazione al bisogno di ricette per l’agire. Tuttavia, ognuna delle due declinazioni che assume tale reazione al bisogno di etica non può rappresentare una soluzione definitiva, proprio perché la via che sceglie di percorrere, quella normativa, non può pretendere di colmare l’abisso.

Certamente, di fronte alla deriva del progresso delle tecnoscienze è necessario dire una parola morale, ma questa morale sarà impossibile nella forma di una teoria etica normativa di carattere esaustivo. In questo senso si può intendere la morale come impossibile/necessaria: essa è impossibile perché, dopo la crisi delle certezze e dei valori assoluti, non può più svolgere il ruolo di una teoria compiuta che giustifichi moralmente le azioni e le classifichi come buone o cattive; ma è necessaria, perché non possiamo fare ameno di attribuire una connotazione morale al nostro agire, di chiederci se ciò che facciamo sia giusto o sbagliato.



Dunque, anche in bioetica, la domanda fondamentale:



esistono doveri e divieti assoluti o le scelte morali

hanno a che fare solo con la coscienza e la responsabilità delle singole persone?



non si lascia rispondere. Il senso della domanda non è risolto nella possibile risposta che ad essa si può dare, ma sta nel fatto che essa traccia l’orizzonte entro il quale siamo chiamati a riflettere sui problemi morali che il progresso delle tecnoscienze ha aperto.

Pensare sull’orlo dell’abisso non significa rassegnarsi all’assenza di qualunque senso morale oppure promuovere un pensiero morale che, di fronte alla crisi dei valori, rinunci a pronunciarsi sul bene e sul male dell’impresa tecno-scientifica.

Al contrario, pensare sull’orlo dell’abisso spalancato dalla crisi dei valori assoluti e dal progresso delle tecnoscienze significa misurarsi con i problemi morali nella certezza che non si tratta di risolverli ma di comprenderli.

Comprendere come lo sviluppo delle tecnologie applicate al mondo della vita abbia mutato la modalità in cui facciamo esperienza della vita significa pensare il senso stesso dell’agire tecnologico e delle sue conseguenze sull’esperienza umana del nascere, del procreare, del morire, della malattia, del rapporto con la natura. Si tratta di una comprendere che non mira a dare soluzione ai grandi dilemmi dell’etica nell’era della tecnica, ma che vuole poter interpretare e giudicare moralmente ciò che accade forzando certi automatismi della coscienza morale. Primo fra tutti quello che interpreta l’agire umano come una mera produzione d’effetto, perfettamente orientabile e controllabile grazie ad uno schema morale di riferimento (quale quello proposto dalle teorie etiche normative in bioetica). L’agire umano, anche quello che si intreccia al potere tecnologico sulla realtà naturale, può essere altrimenti interpretato come una produzione di senso che dà forma al mondo umano e traccia i contorni dell’immagine dell’uomo.

In questo senso ci si potrà interrogare su cosa si intende con i concetti di persona, di responsabilità, di autonomia, di valore, di dilemma morale, di relazione, ecc. nel contesto, mutato dal progresso tecnologico, dell’esperienza umana della vita.



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[1]È Adriano Pessina a dare una chiara definizione di “tecnoscienza”. Cfr. Pessina, A., Bioetica. L’uomo sperimentale, Bruno Mondadori, Milano 1999, pp.19-20.

[2]Jonas, H., Tecnica, medicina ed etica, Einaudi, Torino 1998, p.28.

[3]Cfr. E., Agazzi, “Introduzione. Il luogo dell’etica nella bioetica”, in Agazzi, E. (a cura di), Quale etica per la bioetica, Franco Angeli, Milano 1990, p.11.

[4]Cfr. ivi, pp.14-16.

[5]Ivi, p. 15.

[6] Cfr. Mordacci, R., “Il dibattito sul metodo anglosassone: linee per un’analisi critica”, in Cattorini, P., Mordacci, R., Reichlin, M. (a cura di), Introduzione allo studio della bioetica, Europa Scienze Umane Editrice, Milano 1996, pp.51-52.

[7] Ivi, pp. 52-53.

[8] Cfr. Pessina, A., “Fondazione ed applicazione dei principi etici. Aspetti del dibattito sulla bioetica”, Rivista di Filosofia Neoscolastica, n.4, 1991, p. 591.

[9] Veatch, R., “Teorie della bioetica”, Bioetica. Rivista Interdisciplinare, n.2, 2000, p.214.

[10]La sacralità della vita della persona umana è fondata in modo diverso, a seconda delle versioni del personalismo cui si fa riferimento in bioetica. Dionigi Tettamanzi, per esempio, afferma che la vita della persona è sacra poiché donata da Dio all’uomo, mentre Paolo Cattorini preferisce far risalire il valore della vita della persona umana alle capacità umane di elevarsi a cogliere il senso dell’essere. Cfr. Tettamanzi, D., Bioetica. Nuove frontiere per l’uomo, Piemme, casale Monferrato 1990, pp.58-61; Cattorini, P.,“I principi della bioetica e il personalismo”, in Cattorini, P., Mordacci, R., Reichlin, M. (a cura di), Introduzione allo studio della bioetica, cit., pp.135-136.

[11]L’anencefalia è un difetto congenito caratterizzato da assenza parziale o totale delle ossa della volta cranica, della cute soprastante e del tessuto cerebrale. Ad esclusione di alcuni rarissimi casi, questi bambini sono destinati a morire entro pochi giorni dalla nascita per cause collegate alla loro malformazione.

[12] Cfr. Singer,P., Ripensare la vita. La vecchia morale non serve più, Il Saggiatore, Milano 1996, pp.54-70.

[13]Per la descrizione e l’esame critico di tale teoria faccio riferimento al saggio di Roberto Mordacci “Eutanasia ed etiche liberali: le aporie della libertà”, Rivista di filosofia neo-scolastica, n. 1, 1999, pp. 97-129.

[14] Engelhardt, H.T., Manuale di bioetica, Il Saggiatore, Milano 1991, p.52.

[15] Cfr. Pessina, A., Bioetica. L’uomo sperimentale, cit., pp.62-75.

[16] Ivi, p.68.

[17] Cfr. Mori, M., “La bioetica: cos’é, quand’é nata e perché. Osservazioni per un chiarimento della «natura» della bioetica e del dibattito italiano in materia”, Bioetica. Rivista interdisciplinare, n. 1, 1993, pp. 115-143; “Per un chiarimento delle diverse prospettive etiche sottese alla bioetica”, in Agazzi, E. (a cura di), Quale etica per la bioetica?, cit., pp.37-66.

[18] Cfr. Mori, M., “Per un chiarimento delle diverse prospettive etiche in bioetica”, in Agazzi, E. (a cura di) Quale etica per la bioetica?, cit., p.59.

[19] Cfr., Mori, “La bioetica: cos’è, quand’é nata e perché. Osservazioni per un chiarimento della «natura» della bioetica e del dibattito italiano in materia”, Bioetica. Rivista interdisciplinare, cit., p.133.

[20] Cfr., Mori, “Per un chiarimento...”, in Agazzi (a cura di), Quale etica per la bioetica?, p.42.

[21] Mori specifica che, a differenza di altre istituzioni sociali che hanno lo stesso scopo, l’etica è sentita come vincolante ed è razionalmente giustificata. Cfr. ivi, p.42.

[22] Cfr. Maclean, A., The Elimination of Morality. Reflections on Utilitarism and Bioethics, Routledge, London 1993, p.40.

[23] Cfr. Mordacci, R., “La dissoluzione del soggetto morale in bioetica”, in Soricelli, E., Barcaro, R. (a cura di), Bioetica e antropocentrismo etico, franco angeli, Milano 1998, pp.44-45.
 
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