Studi sul Cristianesimo Primitivo

Girolamo e le fonti di traduzione del Vangelo, un riferimento al fenomeno delle varianti testuali?

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Lucifero ~Sapere Aude~
view post Posted on 3/8/2011, 17:36     +1   -1




Salve. volevo sapere a cosa Girolamo si riferiva in questo specifico punto:

« Io, infatti, non solo ammetto, ma proclamo liberamente che nel tradurre i testi greci, a parte le Sacre Scritture, dove anche l'ordine delle parole è un mistero, non rendo la parola con la parola, ma il senso con il senso. Ho come maestro di questo procedimento Cicerone, che tradusse il Protagora di Platone, l'Economico di Senofonte e le due bellissime orazioni che Eschine e Demostene scrissero l'uno contro l'altro [...]. Anche Orazio poi, uomo acuto e dotto, nell'Ars poetica dà questi stessi precetti al traduttore colto: "Non ti curerai di rendere parola per parola, come un traduttore fedele" » (Epistulae 57, 5, trad. R. Palla)

Cosa intende quando dice che nelle Scritture "anche l'ordine delle parole è un mistero"? E' un riferimento -seppur implicito e non come tema principale dell'epistola- al fenomeno delle varianti testuali presenti nei vari mss greci in suo possesso (dove quindi trovava papiri in cui una frase risultava con un certo ordine di parole e in altri papiri con un altro ordine di parole senza avere gli strumenti filologici necessari per distinguere l'ordine autentico da quello spurio, e da qui dunque la lamentela di "mistero")? Comunque sembra riferirsi ed alludere a un problema molto più ampio del semplice ordine delle parole e non necessariamente fare riferimento ai soli testi greci del Nuovo Testamento.

Mi potete dare conferme o smentite di questa interpretazione?
Grazie e Saluti
 
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Hard-Rain
view post Posted on 3/8/2011, 18:31     +1   -1




No, qui Gerolamo allude al processo della traduzione in se, non si riferisce a questioni filologiche, chi è abituato a tradurre da una lingua come quella greca o quella latina in italiano sa bene quali problemi abbia dovuto affrontare Girolamo, che traduceva da greco antico ed ebraico biblico a latino, per produrre la sua Vulgata. Tutto questo riguarda l’eterna ed irrisolvibile problematica della fedeltà delle traduzione e del senso di chiarezza della medesima. Il caso di Girolamo è importante per la storia della teoria della traduzione e viene spesso citato nei manuali che si occupano di questa materia. Posso riassumere la questione citando le seguenti considerazioni:

"L'opera di Gerolamo andò incontro a varie critiche incentrate soprattutto sul fatto che la nuova versione violava un'idea di fedeltà ormai assestata. Alcune critiche riguardavano proprio il primato della chiarezza sulla fedeltà della nuova versione, contestata ad esempio da S. Agostino in favore dell'importanza dell'oscurità della Sacra Scrittura (Nergaard, 1993, p. 30). Anche per rispondere ad alcune critiche (fra cui quella di eresia), Gerolamo scrive la lettera a Pammachio, che costituisce un vero e proprio manifesto programmatico di teoria della traduzione (San Gerolamo, in Nergaard, 1993, p. 66). Gerolamo si richiama all'autorità di Cicerone e di Orazio a favore di un modo di intendere l'attività del traduttore come quella di un creatore di idee, e sottolinea il fatto che un traduttore si occupa di idee e non solo di parole. Concetti su cui ritorna in un altro testo importante, la lettera a Sunia e Fretela riguardante la traduzione del libro dei Salmi nella versione dei Settanta. L'anima della lingua si perde se si vuole tradurre ad verbum, seguendo cioè la superficie del testo. Dunque, come hanno fatto Terenzio e Plauto, è necessario correre il rischio dell'infedeltà e cambiare l'ordine del discorso, una troppo rigida fedeltà finisce per essere la vera infedeltà. Gerolamo dà l'esempio di questo atteggiamento con la traduzione del Salmo 14: Domine, quis habitabit in tabernaculo tuo? ("Signore, che abiterà nel tuo tabernacolo?"). Il testo greco da cui Gerolamo traduce non ha il termine greco corrispondente alla parola habitatio (κατοικεια) ma ha παροικια che corrisponderebbe a incolatus, quindi, seguendo la lettera, la traduzione del Salmo 14 in latino dovrebbe essere: Domine, quis incolet tabernaculum tuum? Ma Gerolamo ricorda che se si scegliesse questa soluzione, verrebbe persa l'eufonia che gioca un ruolo retorico essenziale. La conseguenza di tutto questo è quella presente nella lettera a Pammachio, che Gerolamo riprende dal prologo che aveva redatto per la versione latina del Cronicon di Eusebio: 'E' assai difficile quando si segue il pensiero di un autore non allontanarsene mai; è arduo addirittura conservare nella traduzione tutta l'eleganza e la bellezza dell'originale [...]. Se traduco alla lettera, genero delle assurdità, se costretto dalla necessità, altero in qualche cosa l'ordine, lo stile, mi si dirà che manco al mio dovere d'interprete [...] Chè se alcuno pretende che una lingua non perda nulla della sua grazia in una versione, traduca Omero letteralmente in latino, o meglio lo volga in prosa nella sua stessa lingua greca: si accorgerà subito d'aver dinanzi un mostriciattolo, e che il più eloquente dei poeti s'è trasformato in un uomo appena capace di parlare.' (ivi, p. 68).' Gerolamo adotta quindi un'idea di fedeltà del tutto diversa rispetto alla tradizione della Settanta, riconoscendo l'inevitabile frattura con l'originale e richiamandosi a una sorta di riscrittura che è un ripensamento profondo del testo."

(citazione tratta da: S. Arduini, U. Stecconi, Manuale di Traduzione, Carocci, ed. 2008, pp. 77-78).

E per sottolineare la difficoltà per un romano di comprendere il greco del suo tempo (e viceversa: pare che un erudito come Plutarco non conoscesse che qualche rudimento di latino) possiamo citare queste gustose frasi del filosofo Epittèto (filosofo neostoico di lingua greca vissuto tra il 50 e il 120 d.C.):

Ma, per Zeus, non riesco a comprendere la volontà della natura. Chi, dunque, me la spiegherà? Crisippo, dicono (i filosofi). Allora vado e domando che cosa afferma questo interprete della natura. Comincio a non capire cosa dice, cerco quindi colui che interpreta (Crisippo). “Ecco, esamina in che modo (Crisippo) dice questo: (è) proprio come se (fosse) latino!". (= cioè in modo facile, se il pubblico cui si rivolge Crisippo, che scriveva in greco, è romano e quindi di lingua latina: la facilità di traduzione e quindi di comprensione è percepita quindi come coincidenza con la sintassi latina del periodare greco, cioè "è facile" come se lo scrivessi in latino).

Edited by Hard-Rain - 3/8/2011, 19:55
 
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view post Posted on 3/8/2011, 19:24     +1   -1
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Un'altra ipotesi, del tutto personale...

Generalmente nelle lingue dotate di casi mutando l'ordine delle parole il significato della frase non cambia (Puellae aram ornant=aram ornant puellae), tuttavia, questo non è sempre vero. Più si va avanti e più ci si rende conto che spessissimo il posto in cui si trova una parola è decisivo per capire il senso della frase. Dunque, Girolamo, quando dice che anche l'ordine delle parole nella Scrittura è un mistero, forse intende dire che anche l'ordine con cui le parole si presentano può avere un significato nascosto che il traduttore deve decifrare, perché se Dio le ha messe in quell'ordine, forse un motivo c'è.
Ciò ovviamente non c'entra nulla con la libertà della traduzione, che resta: una volta decifrato, ad esempio, il perché in un periodo greco una parola è ad inizio frase e non alla fine, non implica che tu debba mantenere quest'ordine frasale in italiano, però magari l'ordine delle parole in greco ti ha dato degli utili indizi su come tradurre.

Ricordiamo poi che Girolamo frequentava anche dei rabbini: forse dunque allude al fatto che costoro gli avevano messo in testa che l'ordine delle parole del testo ebraico celava dei misteri, una sorta di cabala ante-litteram.
 
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Hard-Rain
view post Posted on 4/8/2011, 09:32     +1   -1




Certo che l'ordine delle parole è veramente tutto particolare appunto nelle lingue che possono avvalersi del concetto di "caso", per esempio scrive Plutarco (coniugalia praecepta 26), un autore che usa moltissimi iperbati nella sua prosa letteraria (almeno nei Moralia):

ταῦτα τὰ κόσμια καταισχυνεῖ μου μᾶλλον ἢ κοσμήσει τὰς θυγατέρας

Poiché καταισχυνω regge l’accusativo e non il genitivo, la frase non va intesa come "questi ornamenti disonorano me piuttosto che onorare/adornare le figlie", ma la corretta interpretazione e traduzione è: "questi ornamenti disonorano le mie figlie piuttosto che adornarle/onorarle" (il breve racconto gioca su questa sovrapposizione del significato del verbo “κοσμειν” che è utilizzato in greco sia per “adornare”, “imbellettare”, sia per “rendere onore”). Se uno rispettasse il famigerato "ordine delle parole", di cui parla anche Girolamo, dovrebbe tradurre meccanicamente alla lettera: "questi ornamenti disonorano di me piuttosto che onorare/adornare le figlie", generando un assurdo in italiano (perchè una frase del genere non ha senso in italiano).
 
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Hard-Rain
view post Posted on 5/8/2011, 10:24     +1   -1




Ecco un bell'esempio: come tradurre correttamente la frase di Plutarco, che chiude coniugalia praecepta 36?

ποιεῖ γὰρ τὸ πιστεύειν δοκεῖν πιστεύεσθαι, καὶ τὸ φιλεῖν φιλεῖσθαι

Proviamo a tradurre il più letteralmente possibile: "Infatti l’avere fiducia fa sembrare di essere ritenuto degno di fiducia, e l’amare, di essere amati", tuttavia, a seconda del traduttore, della sua interpretazione soggettiva e del sentimento che emerge dal testo mentre si traduce, si possono ottenere risultati anche sensibilmente diversi. Ecco allora che, giustamente, la traduzione di M. Adriani mette in evidenza la soggettività e parzialità dell'affermazione di Plutarco, espressa dalla presenza del verbo δοκειν (“il mostrar confidenza ed amore par che raquisti fede ed amore”) mentre invece la trad. di G. Tentorio, quasi sempre più libera di quella di Adriani, non la mette in evidenza ed è più perentoria ed ottimistica (“se dimostri fiducia, otterrai fiducia, e se dai amore, avrai amore”).
 
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Hard-Rain
view post Posted on 5/1/2012, 14:01     +1   -1




Gerolamo, comunque, quando approntò la traduzione in latino della Bibbia, non procedette partendo da zero, ignorando completamente le varie tradizioni latine che già esistevano al suo tempo e che erano state fatte prima di lui da altri traduttori (oggi questo corpus di traduzioni è noto col nome di "vetus latina"). Per i quattro vangeli, che studiò più approfonditamente, si servì come base di partenza di una traduzione latina che considerava abbastanza accurata e fedele, dopo averla confrontata con alcuni manoscritti greci che aveva reperito o che gli avevano messo a disposizione. Dopodichè modificò il testo di tale traduzione latina di base in modo conservativo, laddove cioè il senso del discorso gli sembrava allontanarsi maggiormente dai manoscritti greci che consultava. Per il resto del Nuovo Testamento greco l'opera di correzione e revisione della base latina di cui disponeva fu ancora più superficiale, anzi ci sono studiosi che pensano addirittura che la vulgata, al difuori dei quattro vangeli, non sia opera di Gerolamo ma di un altro traduttore. Quindi non si deve pensare a un Gerolamo che di testa sua, chiuso nel suo studio, abbia tradotto dal greco in maniera autonoma senza consultare alcunchè di già esistente o che magari solo alla fine abbia ritoccato la sua traduzione in base ad altre versioni latine. Al contrario corresse una traduzione latina già esistente.
 
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5 replies since 3/8/2011, 17:36   1029 views
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