| No, qui Gerolamo allude al processo della traduzione in se, non si riferisce a questioni filologiche, chi è abituato a tradurre da una lingua come quella greca o quella latina in italiano sa bene quali problemi abbia dovuto affrontare Girolamo, che traduceva da greco antico ed ebraico biblico a latino, per produrre la sua Vulgata. Tutto questo riguarda l’eterna ed irrisolvibile problematica della fedeltà delle traduzione e del senso di chiarezza della medesima. Il caso di Girolamo è importante per la storia della teoria della traduzione e viene spesso citato nei manuali che si occupano di questa materia. Posso riassumere la questione citando le seguenti considerazioni:
"L'opera di Gerolamo andò incontro a varie critiche incentrate soprattutto sul fatto che la nuova versione violava un'idea di fedeltà ormai assestata. Alcune critiche riguardavano proprio il primato della chiarezza sulla fedeltà della nuova versione, contestata ad esempio da S. Agostino in favore dell'importanza dell'oscurità della Sacra Scrittura (Nergaard, 1993, p. 30). Anche per rispondere ad alcune critiche (fra cui quella di eresia), Gerolamo scrive la lettera a Pammachio, che costituisce un vero e proprio manifesto programmatico di teoria della traduzione (San Gerolamo, in Nergaard, 1993, p. 66). Gerolamo si richiama all'autorità di Cicerone e di Orazio a favore di un modo di intendere l'attività del traduttore come quella di un creatore di idee, e sottolinea il fatto che un traduttore si occupa di idee e non solo di parole. Concetti su cui ritorna in un altro testo importante, la lettera a Sunia e Fretela riguardante la traduzione del libro dei Salmi nella versione dei Settanta. L'anima della lingua si perde se si vuole tradurre ad verbum, seguendo cioè la superficie del testo. Dunque, come hanno fatto Terenzio e Plauto, è necessario correre il rischio dell'infedeltà e cambiare l'ordine del discorso, una troppo rigida fedeltà finisce per essere la vera infedeltà. Gerolamo dà l'esempio di questo atteggiamento con la traduzione del Salmo 14: Domine, quis habitabit in tabernaculo tuo? ("Signore, che abiterà nel tuo tabernacolo?"). Il testo greco da cui Gerolamo traduce non ha il termine greco corrispondente alla parola habitatio (κατοικεια) ma ha παροικια che corrisponderebbe a incolatus, quindi, seguendo la lettera, la traduzione del Salmo 14 in latino dovrebbe essere: Domine, quis incolet tabernaculum tuum? Ma Gerolamo ricorda che se si scegliesse questa soluzione, verrebbe persa l'eufonia che gioca un ruolo retorico essenziale. La conseguenza di tutto questo è quella presente nella lettera a Pammachio, che Gerolamo riprende dal prologo che aveva redatto per la versione latina del Cronicon di Eusebio: 'E' assai difficile quando si segue il pensiero di un autore non allontanarsene mai; è arduo addirittura conservare nella traduzione tutta l'eleganza e la bellezza dell'originale [...]. Se traduco alla lettera, genero delle assurdità, se costretto dalla necessità, altero in qualche cosa l'ordine, lo stile, mi si dirà che manco al mio dovere d'interprete [...] Chè se alcuno pretende che una lingua non perda nulla della sua grazia in una versione, traduca Omero letteralmente in latino, o meglio lo volga in prosa nella sua stessa lingua greca: si accorgerà subito d'aver dinanzi un mostriciattolo, e che il più eloquente dei poeti s'è trasformato in un uomo appena capace di parlare.' (ivi, p. 68).' Gerolamo adotta quindi un'idea di fedeltà del tutto diversa rispetto alla tradizione della Settanta, riconoscendo l'inevitabile frattura con l'originale e richiamandosi a una sorta di riscrittura che è un ripensamento profondo del testo."
(citazione tratta da: S. Arduini, U. Stecconi, Manuale di Traduzione, Carocci, ed. 2008, pp. 77-78).
E per sottolineare la difficoltà per un romano di comprendere il greco del suo tempo (e viceversa: pare che un erudito come Plutarco non conoscesse che qualche rudimento di latino) possiamo citare queste gustose frasi del filosofo Epittèto (filosofo neostoico di lingua greca vissuto tra il 50 e il 120 d.C.):
Ma, per Zeus, non riesco a comprendere la volontà della natura. Chi, dunque, me la spiegherà? Crisippo, dicono (i filosofi). Allora vado e domando che cosa afferma questo interprete della natura. Comincio a non capire cosa dice, cerco quindi colui che interpreta (Crisippo). “Ecco, esamina in che modo (Crisippo) dice questo: (è) proprio come se (fosse) latino!". (= cioè in modo facile, se il pubblico cui si rivolge Crisippo, che scriveva in greco, è romano e quindi di lingua latina: la facilità di traduzione e quindi di comprensione è percepita quindi come coincidenza con la sintassi latina del periodare greco, cioè "è facile" come se lo scrivessi in latino).
Edited by Hard-Rain - 3/8/2011, 19:55
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