Vorrei dire due parole sulle contro recensione fatta dagli autori del libro, perché mi sembra veramente significativa di come dei Testimoni di Geova, che rimangono tali, tentino di simulare una loro presunta scientificità, quando invece si tratta della solita apologetica geovista che, ne siano coscienti o meno, trasuda dalle loro righe. Del resto, gli anni passati a leggere la spazzatura storiografica delle varie Torre di Guardia e Svegliatevi non possono che lasciare un segno indelebile nella mente di chicchessia sul modo di concepire la storia. Questa gente è cioè irrimediabilmente rovinata, costretta ogni volta che sente le parole “filosofia” e “paganesimo “ a sussultare e a ritrarsi, addestrati come il cane di Pavlov a dei riflessi condizionati di reazione negativa ogni volta leggano queste due parole. Pavlov infatti aveva condizionato il proprio cane facendo precedere ogni pasto dal suono di una campanella. Dopo poco tempo ogniqualvolta Pavlov produceva quel suono, la bocca del suo cane cominciava a salivare come se stesse per mangiare, sebbene lo scienziato non somministrasse alcun alimento. Allo stesso modo nelle riviste dei TdG ogniqualvolta si parla di filosofia e paganesimo li si associa al satanismo e a qualcosa di negativo che li degradi, col risultato che, anche in questo libro, per screditare un autore antico agli occhi dei lettori e diminuire l’attendibilità delle sue descrizioni basta dire
en passant che “il testo in questione è altamente filosofico, non cristiano, e chiaramente influenzato da religioni pagane”. Affermazione che ovviamente non ha nessuna rilevanza storica, giacché non si vede che cosa c’entri l’essere cristiani o pagani col sapere com’è fatta una croce.
Ma chiaramente questa affermazione, in un libro scritto da un TdG e indirizzato, senza tema d’essere smentiti, a rincuorare i loro confratelli, basta dire che un autore è “pagano” per compiere la magia della delegittimazione, e far scattare nella mente dei lettori un meccanismo automatico di accantonamento delle informazioni.
Le non meglio precisate “influenze pagane” sono un mantra tipicamente geovista, e non si vede che cosa c’entrino col fatto che Firmico Materno sapesse o meno com’è fatta una croce. Il problema non è infatti se Firmico Materno fosse pagano allorché stese la sua opera, ma perché Frattini ce lo venga a dire, facendo poi il finto tonto, e volendoci dare a bere che citando la sua religione non volesse affatto sminuirlo agli occhi dei lettori. Chi conosce la retorica geovista sa invece perfettamente che cosa significhino questa sequenza di appellativi dispregiativi indirizzati ad una persona: “il testo in questione è altamente filosofico, non cristiano, e chiaramente influenzato da religioni pagane”. Per i TdG si tratta infatti di un triplice peccato, non solo è filosofico ma è “molto filosofico “(che orrore dunque!), non cristiano (dunque inaffidabile), ed influenzato dalle religioni pagane (il fumo di Satana!). A questo punto immaginiamo i loro confratelli che si fanno il segno della croce scandalizzati dall’empio Firmico, anzi, il segno del palo! Li immaginiamo allorché nella loro mente, dinnanzi alle non meglio specificate “influenze pagane”, si figurano chissà quale sorta di stramberia, e nel loro cervello frulla il pensiero di un autore che vaneggia e riempie i suoi libri di follie insistenti per influsso del diavolo. Con che coraggio dunque gli autori della contro-recensione possono mentire così sfacciatamente, e venirci a dire che quelle belle frasi su Firmico non fossero un tentativo, neppure troppo velato, di screditarlo agli occhi dei lettori, sospingendolo nel confuso calderone delle filosofie pagane, che per i loro confratelli è un mare indistinto di fantasie demoniache? Dove starebbe, nello specifico, l’influsso pagano che avrebbe un’influenza tale da far sì che le informazioni sulla crocifissione descritte da Firmico non siano utilizzabili? O basta sventolare la parola “pagano” secondo loro per rigettare una fonte?
Ma procediamo con ordine. Per prima cosa bisogna notare che in fondo alla recensione gli autori attaccano Teo per via del giudizio di una commissione ministeriale sull’abilitazione al ruolo di professore associato. Ma un rapido sguardo ai dati mostra subito che i fatti in questione sono troppo torbidi per poter costituire un’arma polemica. Non difettiamo certo di prove a questo riguardo. Come ben specificato dal link al sito del Senato riportato da Teodoro, il peccato originale di questa commissione consiste in uno sciagurato raggruppamento tematico. Infatti la commissione doveva giudicare per una classe di concorso che metteva assieme la “storia del libro” e la “storia delle religioni” . Il risultato dell’unione di queste due materie così eterogenee è che gli esperti di un ramo non avrebbero saputo nulla dell’altro, e viceversa. In particolare se andiamo a vedere la lista dei commissari solo uno risulta del settore storico-religioso, mentre tutti gli altri sono competenti dell’altro, essendo come indicato professori di paleografia latina. Questa commissione cioè era simile ad un’ipotetica commissione che avesse dovuto abilitare all’insegnamento di “astrofisica e biologia”, senza che sia chiaro come un biologo possa giudicare lavori di astrofisica o un astrofisico lavori di biologia. Inoltre il solo componente che s’occupasse di materie storico-religiose era uno specialista non si cristianistica, ma di religioni del mondo classico (che i TdG definirebbero “pagane”). Se già a questo fatto che denota l’inadeguatezza della commissione si aggiunge che attualmente c’è un inchiesta in corso, non si può proprio dire che parliamo senza dare conto delle nostre asserzioni.
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“Il paragrafo 6.1 del libro specifica e delimita con chiarezza gli obiettivi che la ricerca contenuta nel capitolo 6 si propone di ottenere. Tra quelli, non è menzionato in alcun modo il “tentativo di giustificare il rifiuto di tutta la letteratura geovista (ivi compresa la Traduzione del Nuovo Mondo) di riconoscere la croce quale strumento del supplizio di Gesù”. Il capitolo non verte in alcun modo sulla letteratura dei Testimoni di Geova (che il Polidori costantemente chiama “geovista”, proseguendo l’abitudine dei testi polemici cattolici italiani) che nel capitolo non viene né trattata né mai citata. “
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Anche qui pare proprio che i recensori vogliano prendere per il culo. Vogliono forse negare, spudoratamente, di non credere che Gesù fosse messo su una croce? E vogliono forse negare che in questo loro capitolo, tentando invano di demolire le prove del
mos romanorum della crocifissione, essi vogliano dedurne che la resa della TNM è allora pienamente lecita? Perché questa dissimulazione? Inoltre se, come affermano, il loro capitolo è una risposta alla letteratura critica contro la TNM, che essi hanno vagliato, allora come possono dire che il loro libro non è
ipso facto una difesa della letteratura geovista? Una cosa implica l’altra. Se si vuole smontare la letteratura critica verso la TNM, automaticamente si produrrà una difesa della TNM, che è per l’appunto un’opera letteraria di traduzione geovista. Se la letteratura critica verso i TdG vuole mostrare l’insostenibilità del loro rifiuto della crocifissione, automaticamente la critica di questa critica verrà ad essere una giustificazione del rifiuto dei TdG verso la croce. Non si può avere una cosa senza l’altra.
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“Il Polidori si sbilancia ancora in un giudizio personale indimostrato, secondo cui l’opera di Artemidoro sarebbe “destituita da Frattini di ogni utilità”, giudizio che non troverete né nel capitolo 6, né in tutto il libro in esame. L’affermazione esatta, riportata a p. 236, è che “l’opera di Artemidoro non è in alcun modo storica né descrive avvenimenti reali o in qualche modo accaduti” e spetta al Polidori l’onere di confutare questo nostro giudizio.”
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Il problema non è ovviamente se esista un giudizio di Frattini in cui con testuali parole si dica che Artemidoro è destituito di ogni utilità, bensì se sia questo il sunto che si possa trarre dalle osservazioni dell’autore, che altrimenti non si spiegherebbero. Frattini infatti distingue tra testi in cui l’autore antico sia stato spettatore dell’evento che descrive, testi invece dove riferisce un racconto che gli è stato fatto dal altri, e testi dove vengono descritti invece eventi di fantasia (ad esempio un romanzo che descriva la storia di due amanti immaginari). Non si capisce quale funzione possa mai avere questa classificazione, del tutto campata per aria per un’indagine come quella che verte sulla crocifissione, se essa non avesse lo scopo di sminuire l’importanza di alcune fonti. Il continuo ribadire, come una cantilena, che un autore in questo caso non sta descrivendo un evento accaduto realmente, ma un prodotto della propria immaginazione, vuole relegare un numero considerevole di fonti nell’insignificanza.
Naturalmente, può essere interessante, qualora si indaghi la natura di un evento specifico ed unico, sapere se l’autore che ce ne parla vi ha assistito o meno, ad esempio sapere se Tucidide ha assistito al discorso di Pericle che ci riporta. Nel caso della crocifissione invece, tutta questa macchina classificatoria non ha nessun senso. Non serve infatti essere presenti ad una specifica crocifissione, per sapere come si crocifigge, questo per il banalissimo fatto che le crocifissioni, solitamente utilizzate come monito per gli schiavi romani, erano pubbliche e frequenti. Così quando Plauto scrive delle commedie, dove alcuni schiavi parlano temendo di finire in croce e figurandosi già in anticipo i tormenti, non occorre che quello schiavo sia mai esistito perché noi si possa trarre delle informazioni utili dalla descrizione che fa della croce. Sarebbe come se noi scrivessimo un romanzo dove diciamo che uno dei protagonisti va in bicicletta, ma cade perché la sua sciarpa si impiglia nei raggi della ruota anteriore facendo inceppare il meccanismo. Non occorre che questa corsa in bicicletta del mio personaggio sia mai davvero esistita perché uno storico fra 2000 anni, volendo sapere com’erano fatte le bicicletta nel 2014, ne possa giustamente dedurre che le ruote alla mia epoca avevano dei raggi. Se nessuno storico ha mai adottato la classificazione delle fonti fatta dal Frattini per la crocifissione, è perché banalmente si tratta di un’operazione un po’ scema e priva di significato, e che ha il solo scopo di suggerire surrettiziamente ai lettori impreparati che certe fonti valgono di meno.
Ma che dire di fonti dove non solo si immagina un racconto (il tizio la cui sciarpa si impiglia nei raggi della bici), ma si fa anche del simbolismo? Anche qui il discorso non cambia. Infatti
è sulla base della conoscenza dell’oggetto reale, che si cercano poi delle corrispondenze simboliche. Se ad esempio un autore dice che l’albero della nave col suo pennone assomiglia ad uno stauros, è perché da prima sa che lo stauros ha forma di croce, e poi, proprio per questo, ogniqualvolta vede oggetti cruciformi nella realtà, essi gli ricordano una croce. Se avesse avuto in mente stauroi a forma di palo, banalmente sarebbero stati oggetti paliformi a suscitare le sue associazioni mentali, mentre il fatto che egli tragga esempi da oggetti a forma di croce per paragonarli allo stauros, significa che era quella la forma che aveva in mente per questo strumento.
Similmente, se tra duemila anni le fragole saranno estinte, e uno storico volesse cercare di ricostruirne il colore basandosi su poesie d’amore del XX secolo, e noi leggessimo in uno di questi carmi “mia amata, le tue
labbra infuocate sono
del colore della fragola”, potremmo ovviamente dedurne che le fragole dovevano essere rosse come le labbra, e non certo blu. Non ce ne frega nulla che si tratti di poesia, immaginazione, o quant’altro, perché le metafore, le similitudini ed i paragoni utilizzati in contesto poetico si basano per l’appunto su oggetti reali. Artemidoro che cosa ci dice dunque? Egli ha in mente uno stauros cruciforme.
“Venire crocifissi e buon segno per tutti i naviganti, in quanto la croce e fatta di legni (ξύλων) e di chiodi come la nave, e l’albero maestro di questa e simile ad una croce” (ἡ κατάρτιος αὐτοῦ ὁμοία ἐστὶ σταυρῷ)". (Artemidoro, Oneirocritica 2.53).
Ci dice che la croce è fatta di “legni” (al plurale) e di “chiodi” (e dunque ne ricaviamo che aveva in mente una croce fatta di almeno due legni e con dei chiodi), e che essa è simile all’albero maestro di una nave. E’ dunque lui stesso che ci dice di stare prendendo un oggetto del mondo reale come oggetto di paragone. Non si vede perciò quale impedimento possa essere che qui Artemidoro stia descrivendo dei sogni e non una crocifissione di un Caio qualsiasi vista di persona, ciò che conta è che ci dice che il sogno x (la croce) significa y (l’albero maestro) perché x nel mondo reale è simile ad y nella forma.
Artemidoro fa anche altri esempi: in Oneirocritica, 1.76 scrive che coloro che sognano di danzare saranno “crocifissi” (σταυρωθήσεται) a causa “delle loro braccia distese”(τὴν τῶν χειρῶν ἔκτασιν), anche qui dunque abbiamo un’immagina della croce con patibulum veicolata da un fatto reale, l’allargamento delle braccia nei danzatori.
Ma non solo: Artemidoro , parlando di questo strumento di morte, ci dice qualcosa di molto interessante: “La croce (ὁ σταυρὀς) infatti corrisponde alla morte, e chi sarà inchiodato su di essa prima deve portarla (πρότερον αὐτὸν βαστάζει). (Oneirocritica 2.56)
Dunque: punto 1) Per Artemidoro si è crocifissi su qualcosa di cruciforme, e punto 2) si viene inchiodati a ciò che si è trasportato.
Quello che Frattini non spiega è come tutto ciò possa rientrare nella sua pretesa di aver smontato il mos romanorum della crocifissione. Infatti le parole di Artemidoro non lasciano scampo ai TdG: se il risultato finale è una croce a due braccia, e si viene crocifissi a ciò che viene portato, allora si danno solo due ipotesi: 1)O il condannato portava la croce intera. 2)O portava il patibulum orizzontale, che poi veniva issato un palo pre-esistente sul luogo (perché come ripetiamo il risultato finale dev’essere la croce a due braccia descritto da Artemidoro).
Il problema è che nessuna di queste due ipotesi è compatibile con le ricostruzioni dei TdG in generale o di Frattini. I Testimoni di Geova infatti sostengono che Cristo portò il palo verticale, e che poi quello stesso palo fu piantato per terra e Cristo venne inchiodato ad esso ( e questa sì che è una pratica senza NESSUNA attestazione nelle fonti antiche), Frattini invece sostiene che le fonti in cui si parla del trasporto del patibulum, non necessariamente implicano che quel patibulum fosse poi issato su un palo, e che dunque il condannato poteva benissimo dismettere a terra il patibulum, e poi venire appeso su un palo semplice, o non venire appeso ad alcunché. Il problema è che quest’idea non è applicabile al testo di Artemidoro, perché lui dice che chi è appeso alla croce “prima se LA porta”, e dunque lo stauros non veniva affatto mollato per terra sul luogo del supplizio, e sappiamo che Artemidoro ha in mente lo stauros su cui il condannato alla fine è appeso come qualcosa di crucififome (perché è fatto di legn
I, perché è simile all’albero della nave, e perché i crocifissi hanno le braccia distese come i danzatori, ecc.).
Si noti poi che Artemidoro usa un presente acronico, non dice infatti “a volte chi è appeso alla croce, prima se la porta”, bensì “chi è appeso alla croce, prima se la porta”, dando per scontato che avvenga comunemente così, un po’ quando noi diciamo utilizzando sempre il presente: “chi lavora sodo, raccoglie i frutti del suo sudore”, e nella nostra mente intendiamo che avviene per lo più così.
Ecco dunque la procedura romana della crocifissione, esattamente identica a quella dei Vangeli, che Frattini invece si lamenta di non trovare nelle fonti. La prova cioè di quanto sia sciocca la sua idea di seguire il divo Samuelsson e leggere testimonianze come quelle plautine, nelle quali si dice “porti il patibulum per la città, poi sia appeso alla croce” (carbonaria fr. 2) come se il condannato mollasse sul luogo dell’esecuzione ciò che aveva portato sin là, e poi fosse appeso ad uno strumento del tutto indipendente dal precedente. Ciò non coincide né con la ricostruzione che i TdG danno della morte di Cristo, il quale avrebbe portato lo strumento cui fu poi appeso (sebbene per loro era lo stipes), e soprattutto non torna con chi come Artemidoro ci dice che “chi è appeso alla croce, prima se la porta” (Oneirocritica 2,56)
Cos’hanno dunque da dire Frattini e soci sul fatto che Artemidoro ha in mente uno stauros cruciforme, col previo trasporto dello stesso strumento a cui poi si verrà inchiodati? Ebbene non dicono un emerito nulla. Si limitano alle loro considerazioni di cui abbiamo già previamente smascherato l’insignificanza, e cioè affermano: “È chiaro, sia dal titolo che dai passi considerati, che l’opera di Artemidoro non è in alcun modo storica né descrive avvenimenti reali o in qualche modo accaduti. Il senso simbolico attribuito al vocabolo stauròs è evidente dalle affermazioni che lo stauròs simboleggerebbe “nozze, società, ricchezze” o che l’essere appesi allo stauròs è un “buon segno per tutti i naviganti e … per un povero”.” (p. 236)
Quello che noi attendiamo in grazia di sapere invece è che cosa c’entri il fatto che Artemidoro faccia un discorso simbolico, allacciando sogni ad oggetti concreti, con l’utilità delle informazioni che ci dà sul modo di crocifiggere dei romani. Il fatto che qui si tratti del commento di sogni, non è mai stato ovviamente considerato un particolare sminuente da nessuno storico di professione, e forse Frattini dovrebbe chiedersi perché. Come abbiamo già detto infatti non ce ne importa nulla del fatto che Artemidoro compari alcuni particolari di altri oggetti alla croce all’interno di sogni, visto che egli è così specifico da dirci anche
in che cosa quegli oggetti sognati ricordano una croce vera, e cioè nella forma. E’ lui stesso dunque a dirci che cosa leghi questi sogni alla concretezza, e in quali loro particolari possono essere usati per ottenere informazioni sulla croce reale. Un po’ come nel verso poetico inventato da me sopra, nel quale dico che le labbra della fanciulla che descrivo hanno il colore delle fragole, sono io stesso a dirvi che il legame tra le fragole e le labbra sta nel colore, e dunque voi storici del futuro siete autorizzati a dedurne che le ormai estinte fragole erano rosse.
Continuano poi col loro delirio, dicendo che la descrizione di Artemidoro non accenna in alcun luogo alla “procedura romana”, quando invece parla del particolare saliente che fa saltare i piani di tutti i TdG e del divo Samulesson, cioè che si veniva appesi allo stesso strumento che si portava. E osano chiosare che il testo di Artemidoro se preso sul serio dovrebbe implicare quello che gli studiosi oggi negano, cioè il previo trasporto della croce intera.
Con loro buona pace, gli studiosi invece si appoggiano su Artemidoro proprio per ricavare il contrario, perché il lessema stauros sta tanto per la croce intera quanto per il solo patibulum, definito così per metonimia in quanto parte della croce, e dunque gli studiosi da sempre leggono il brano senza alcun problema come attestazione del trasporto del patibulum, al quale si veniva inchiodati prima di essere issati sulla croce.
Ciò che il brano invece esclude del tutto sono le ricostruzioni che i TdG fanno del supplizio del Golgotha: 1)Esclude la testi frattiniana ripresa dal divo Samuelsson che si mollasse il patibulum dopo averlo trasportato e si venisse appesi su un palo semplice, perché Artemidoro dice che lo stauros cui si è inchiodati è lo stesso che è stato trasportato. E 2) esclude la tesi della letteratura geovista secondo cui si portava il solo palo verticale e sempre a quello si veniva appesi, perché Artemidoro descrive la stauros esito finale della procedura come cruciforme, e dunque non è possibile che si tratti di un trasporto di stipes e successiva sospensione al solo stipes.
L’analisi che Frattini fa di Artemidoro è dunque 1)carente, perché accecato com’è dalla Torre di Guardia non riesce a leggere in questa fonte quello che tutti gli storici vi vedono, cioè l’ennesima testimonianza della procedura romana della crocifissione 2) metodologicamente folle, nella misura in cui si dilunga a dirci, come se la cosse fosse di qualche rilievo, che qui Artemidoro non parla di eventi storicamente accaduti ma di sogni. Invece parla di eventi concreti, riallacciandoli a sogni.
Una piccola parentesi: gli autori ricordano (p. 275-276), illudendosi che sia rilevante, che l’altro termine per croce, cioè xylon (legno), è singolare, e ne ricavano sia più probabile dunque che trattavasi di un solo legno, anziché di due. E’ vero che se ci fosse stato il plurale, cioè xyla, si sarebbe trattato certamente di due legni, ma non è vero l’inverso, cioè che xylon designi un solo pezzo di legno. Infatti il termine indica in greco qualsiasi opera fatta in legname, non in virtù però del numero dei legni di cui è composta, ma del materiale (cioè il legno). Vale a dire che qualsiasi oggetto, anche una nave, che ovviamente è fatta di centinaia di legni, in greco è detta xylon al singolare, perché questa parola rimanda semplicemente al materiale di cui le cose sono fatte. Anche in italiano del resto, sebbene oggi sia un po’ desueto, una nave poteva essere detta “legno”. Sicché la croce è definita “il legno” perché fatta di legno, indipendente dal numero di legni che vi si trovassero.
CITAZIONE
““l’opera di Artemidoro non è in alcun modo storica né descrive avvenimenti reali o in qualche modo accaduti” e spetta al Polidori l’onere di confutare questo nostro giudizio.””
E invece riporta eventi reali e realmente accaduti. Il primo luogo perché i sogni sono reali, sono qualcosa che, a differenza di un “cerchio quadrato”, esistono, e ognuno di noi li fa ogni notte. Ma soprattutto perché, come già detto, è Artemidoro stesso a dirci in quale loro parte i suoi sogni si aggancino alla realtà, ad esempio nella forma degli oggetti sognati. Nelle sue comparazioni artemidoriane ergo il secondo membro è sempre la realtà. Quando ad esempio dice:
“Le persone che vogliono vivere nel loro paese, che lavorano la propria terra e che temono di venire scacciate da qualche luogo vengono espulse in seguito a questo sogno, che non le lascia restare dove si trovano: infatti la croce impedisce di tenere i piedi sulla terra.” (par. 53)
Qui Artemidoro ci dice perfettamente in che cosa il sogno il sogno e la realtà si assomigliano. Siccome il crocifisso non tiene i piedi per terra in quanto rialzato (realtà), allora chi sogna la croce non terrà i piedi attaccati allo stesso luogo a lungo e presto si dovrà trasferire. Da questa notizia ricaviamo che, generalmente, ai crocifissi non era concesso toccare coi piedi il suolo. L’operazione è perfettamente logica e legittima, perché è Artemidoro stesso a dirci a quali condizioni reali dei crocifissi egli si richiami per interpretare i sogni.
CITAZIONE
“Il giudizio che è stato da noi riportato relativamente al carattere filosofico e non cristiano dell’opera – molto tarda – di Firmico Materno, in realtà non è nostro (né appartiene ai Testimoni di Geova, come insinua il Polidori), ma è tratto da una delle nostre molte letture di preparazione a questa ricerca. Per la precisione, Jean Rhys Brahm dell’Hunter College di New York, autore della traduzione dei “Matheseos Libri VIII” di Firmico Materno (edizione del 1975, Noyes Press) scrive quanto segue nella sua prefazione all’opera: “Magic, philosophy, science and theology combine in strange ways in the thinking of the last centuries of the Roman empire. For some time the study of these complexities had been one of my interests. The example of Firmicus Maternus was suggested to me by Professor Larissa Bonfante Warren of New York University” (p. VII). E nell’introduzione all’opera l’autore sottolinea: “Since the astrological work is strongly imbued with pagan philosophical attitudes, we could assume Firmicus was converted to Christianity between the writing of the two works.” (P. 1) Chiarito questo punto, spero sia evidente al lettore che la religione personale di Firmico non arricchisce né sminuisce la sua descrizione, né della procedura romana di esecuzione né della forma dello stauròs: e sinceramente non comprendiamo come potrebbe avvenire, visto che nei testi di questo autore mancano in toto entrambi i riferimenti.”
Non vedo nel testo di Teodoro alcun tentativo di dire che sarebbe un’idea personale dei TdG il fatto che Firmico Materno fosse pagano al momento della stesura del testo, e non è neppure questo l’oggetto del contendere. Lo era davvero pagano, ma ciò, come per il caso di Artemidoro, è del tutto irrilevante. Quello che Teodoro rimprovera è la mentalità geovista chiaramente soggiacente all’argomentazione, secondo cui dire che un filosofo è pagano, equivale a squalificare i passi in cui parla della croce come fantasticherie. Anche qui, non c’è alcun bisogno che Firmico ci descriva una crocifissione a cui egli assistette in particolare, ci basta sapere che egli sapesse come si crocifiggeva, per poter ricavare informazioni utili dai passi in cui egli parla della croce.
A che altro potrebbe servire infatti un’introduzione di questo tipo, se non per un tentativo assai poco velato di sminuire un testimone agli orecchi sensibili alla parola “paganesimo”? Ecco quel che scrivono Frattini&Co.: “Occorre premettere che si tratta di un’opera molto tarda (appartiene al IV sec.), senza ambizioni di offrire al lettore una documentazione storica, al contrario orientata unicamente all’interpretazione astrologica. Il testo in questione è altamente filosofico, non cristiano, e chiaramente influenzato da religioni pagane.”
Già, “occorre premettere che”, ossia, prima di leggere queste fonti, sappiate che il loro autore è un cattivone pagano, e dunque satanico, uno di quei terribili filosofi che parlano di nulla, e dai quali ogni persona pia deve guardarsi.
Se non era questo lo scopo della premessa, ci spieghi Frattini che senso ha dire in ordine al tema in oggetto che un testo “è influenzato da religioni pagane”, e che rilevanza possa mai avere ciò negli eventuali dettagli sulla croce che noi riuscissimo a ricavare dai suoi testi? Si può provare forse che un particolare influsso pagano abbia agito su di lui annebbiandogli la mente su quale fosse la forma della croce? O basta essere pagani per essere obnubilati in qualsiasi cosa si scriva?
Quanto al fatto che questo testo sia tardo, gli autori paiono quanto meno confusi, infatti a pag. 267 attribuiscono l’opera al IV secolo, mentre a pag 270 al V secolo. L’opera fu scritta, per chi fosse interessato, ad inizio IV secolo, nel 335 circa, e se è tarda rispetto a tutte le altre, certo non è tarda per i nostri scopi, cioè trarre indizi su come si crocifiggesse, visto che nel 335 l’impero romano stava ancora in piedi, e Firmico, nato a inizio IV secolo, sapeva dunque perfettamente come si crocifiggesse.
Ma veniamo al testo di Firmico vero e proprio: che cosa dice? Perché tutti gli studiosi, che non abbiano le allucinazioni indotte dalla WTS come Frattini, lo citano e lo ritengono importante? E soprattutto perché, ancora una volta, è del tutto irrilevante che il contesto sia astrologico? Perché, da capo, Firmico usa l’astrologia per predire eventi reali che capitano nella vita di tutti noi, e dunque, non si vede perché, se nella descrizione di un evento causato dalle stelle, si lascia sfuggire qualche dato per noi utile, non dovremmo poterlo utilizzare, o questo dato sarebbe squalificato. Sarebbe come se uno storico, tra duemila anni, trovasse un oroscopo di una nostra rivista, nel quale si legge: “ se Saturno transita nei Gemelli, avrete sfortuna coi mezzi di trasporto, state attenti a non rimanere con l’auto senza benzina!”. Ecco, il testo di Firmico Materno funziona così: prima si dà la configurazione astrale, e poi l’effetto che ne deriva. Che cosa può ricavare lo storico del 4000 d.C. da noi immaginato, leggendo il frammento di oroscopo dei suoi antenati? Bene, ne dedurrà, lecitamente e saviamente, che le automobili nel 2014 funzionavo ancora per lo più a benzina. E che cosa mai c’entra con la correttezza di questa deduzione il fatto che essa sia preceduta da un “se Saturno è nel segno dei Gemelli”? Non c’entra un emerito nulla, se non ovviamente per la testa condizionata pavlovianamente dei TdG che appena sentono “oroscopo” impazziscono e si ritraggono da un testo. Un testo di astrologia, così come un testo di cucina, un romanzo, o qualsiasi altra tipologia testuale, possono contenere informazioni storicamente utili, date dagli autori
en passant. Certo, alla nostra astrologa del 2014 mai sarebbe venuto in mente che la sua frase “state attenti a non rimanere con l’auto senza benzina” sarebbe potuta servire ad uno storico del 4000 per trovare conferma che nel 2014 esistevano ancora le auto a benzina, ma così è, ed è perfettamente lecito fare una cosa del genere.
In Firmico Materno abbiamo dunque questo testo, ma non siamo certi che Frattini si sia reso conto della sua portata, visto che cita una traduzione inglese non letterale sul punto che ci interessa, e giacché è lecito dubitare delle competenze antichistiche degli autori di questo libro, ignoriamo quanto essi possano penetrare da soli all’interno dei testi latini senza l’ausilio di traduzioni stampella. Una traduzione inglese come ripeto non letterale, come del resto ogni traduzione, perché il curatore anglofono non poteva sapere che a noi serviva proprio quel punto che lui, per brevità, ha tralasciato. Ecco il testo latino come riportato da Frattini: “Si vero cum his Saturnus fuerit inventus, ipse nobis exitium mortis ostendit.
Nam <in> istis facinoribus deprehensus severa anim advertentis sententia patibulo subfixus in crucem tollitur”.
A parte la trascrizione errata delle fonti cui questo libro ci ha abituato, visto che è “animadvertentis”e non “anim advertentis”, il testo è reso liberamente in inglese: “If Saturn is found with the other planets, he shows us the kind of death. The native will be apprehended in his crimes, sentenced by the court, and raised on the cross».
Vale a dire che questa particolare configurazione astrologica sarò un pasticcio per i criminali in quanto saranno arrestati per i loro crimini, condannati, e crocifissi.
Ora possiamo notare che la locuzione “patibulo subfixus in crucem tollitur” viene resa con un misero “raised on the cross”, mentre si omette nella traduzione la prima parte, la quale dice: “inchiodato al patibulum, è issato sulla croce”.
Meglio traduce l’edizione delle Belles Lettres: “Mais si Saturne s’est trouvé avec eux, il nous révèle le malheur de la mort : en effet le natif, arrête pendant ces crimes, est fixé au gibet et dressé sur une croix par une sévère sentence du juge « .
Quindi Firmico s’è lasciato sfuggire la preziosa informazione che prima di venire issati sulla croce, si veniva inchiodati al patibulum, esattamente come l’astrologa del mio esempio s’era lasciata sfuggire che generalmente le auto vanno a benzina nel 2014. Che cosa c’entra in tutto ciò e che cosa ha a che fare con l’attendibilità storica di questa informazione, il fatto che sia all’interno di un oroscopo? Non c’è dato saperlo. Frattini non commenta alcunché a proposito di questa informazione in cui Firmico ci dà notizia, come le altre fonti, di un duplice momento nella procedura della crocifissione, e si limita a ribadire il suo mantra del nulla: “È chiaro, anche in prima lettura, che il passo non ha nulla a che vedere con la descrizione di una crocifissione. Al contrario, si tratta di istruzioni per l’interpretazione dei sogni dalla rilevanza storica molto dubbia.” (p. 267-268)
Non si può essere più in disaccordo, e si deve capovolgere tutto quello che c’è scritto: assistiamo in effetti alla descrizione di una crocifissione, infatti ci viene descritto qualcuno che viene inchiodato ad un patibulum prima di essere appeso alla croce. Certo, è una menzione breve, ma c’è. E il fatto che ciò sia all’interno di un oroscopo, cioè che si vaticini questo evento nei riguardi di un malcapitato, non si vede che cosa c’entri col fatto che qui si ha per l’appunto la descrizione di una crocifissione.
CITAZIONE
“La lamentata omissione di un testo – non meglio specificato – dell’autore Luciano, è ancora una volta indice della superficialità della revisione del Polidori. Si noti che a p. 209, in inizio di paragrafo 6.4 che contiene la tabella n. 3 con l’elenco delle fonti primarie, è chiaramente dichiarato l’ambito, affermando “Questo paragrafo elenca le fonti primarie citate nella letteratura critica verso la TNM.” Ora, nessuno dei testi consultati e citati in bibliografia menziona in alcun modo passi specifici dell’autore Luciano”
E’ vero che nella pagina indicata gli autori dicono di voler analizzare le fonti citate dai critici, il problema è che non si limitano a quello. Nei capitoletti precedenti infatti si fa un’analisi della letteratura scientifica sulla crocifissione, e si riportano anche le fonti scientifiche citate dall’appendice della TNM. In seguito a ciò, ci si esprime in questi termini:
“È obiettivo di questa trattazione approfondire ulteriormente l’opportunità e le ragioni della resa traduttiva della TNM riguardo ai termini stauròs e xylon,
nell’ambito degli autori latini e greci citati come fonti in letteratura, del contesto biblico e limitatamente all'ambiente e al periodo storico immediatamente precedente e successivo agli avvenimenti in esso descritti (ca. 200 a.C. fino al 200 d.C.).
In aggiunta verrà valutata la fondatezza delle critiche mosse sull'argomento dai testi di matrice cattolica..” (p. 195)
Sicché nel capitolo Frattini fa affermazioni contraddittorie. Da un lato, povero, vorrebbe riscrivere quello che affermano tutte le enciclopedie antichistiche, da quelle oxoniensi in giù, facendo un vaglio delle fonti citate nella letteratura; solo in seguito invece, dice di voler analizzare le fonti citate dai critici della TNM.
Io non so se i critici della TNM in bibliografia a questo libro abbiano mai citato Luciano, sono infatti a Parigi e sarebbe ben difficile reperire questi libri per verificarlo, ma ciò è irrilevante, visto che il capitolo si propone altrove non solo di analizzare la letteratura critica ma anche la letteratura in generale sul tema, e questa certamente cita anche Luciano. Solo in seguito, in aggiunta, si dice di voler analizzare la letteratura cattolica polemica contro i Testimoni di Geova.
A ciò si aggiunga un fatto: tra le fonti critiche vagliate viene anche citato l’articolo del prof. Fregnani, lasciandolo per ultimo: “Il testo del prof. Fregnani, consultato e disponibile solo online, riprende diverse fonti primarie. La tabella n.3 elenca tutte le fonti primarie citate, menzionando l’autore, il periodo di appartenenza e classificandole per rilevanza”. (p. 209)
Essendo questo un riferimento web e non cartaceo, ho potuto verificarlo anche da Parigi, posso così dirvi che Fregnani cita nella sua pagina Luciano 4 volte, oltre a mettere a piè pagina in bibliografia dei link al sito di Achille Lorenzi, dove sono contenuti articoli di Achille Aveta e Andrea Nicolotti, nei quali si parla di Luciano.
Sicché è pure falso che la letteratura dei critici cui stavano rispondendo non citi Luciano. E’ vero che Fregani cita Luciano 4 volte senza dare le coordinate dei passi, dandole per scontate evidentemente, visto che sono tra le più ricorrenti nella letteratura. Ma viene da chiedersi che cosa ci volesse al Frattini, se davvero conosce bene le fonti primarie su questo tema, a capire a quali passi Fregnani faceva menzione, visto che fanno parte della sua argomentazione. E se non li conosceva, il che sarebbe indegno di chi scriva un capitolo sullo stauros, gli ci sarebbe voluto molto a googlare “Luciano” e “stauros” per trovare facilmente quello che cercava, visto che è un tema ricorrente nelle polemiche contro i TdG?
In conclusione la contro-recensione mente per due motivi:
1)Non è vero che lo scopo del capitolo fosse analizzare solo la letteratura critica contro i TdG, infatti gli autori hanno la pretesa di un vaglio della letteratura in generale per mostrarne la fondatezza o l’infondatezza.
2)Non è vero che i critici non citano Luciano. Fregnani, che ho potuto consultare perché online a differenza degli altri, cita Luciano 4 volte. Un minimo di serietà avrebbe richiesto di fare un supplemento d’indagine.
CITAZIONE
“Il Polidori accenna a problemi “sul piano metodologico” che sarebbe interessante conoscere, visto che non vengono indicati. Le osservazioni sull’ortografia sono motivate, perlomeno limitatamente alla prima edizione del testo dell’opera.[…] Come normale per ogni testo pubblicato in letteratura, gli eventuali errori di copia e trascrizione verranno corretti nelle prossime edizioni.”
L’errore metodologico, anzi il peccato originale, non è già sufficientemente incarnato dal voler scrivere a proposito di una lingua che si dimostra di non conoscere? Teodoro ha contato una settantina di errori in un libro di poche centinaia di pagine, una media di errori strepitosa. Questi sono possono dunque essere catalogati come refusi frutto della distrazione, ma come l’inevitabile frutto dell’incompetenza, l’amaro risultato che si ottiene quando si vuole scrivere a proposito di una lingua che non si conosce. Tre errori possono sono refusi, settanta sono dilettantismo ed ignoranza. Inoltre non si tratta solo di accenti, spiriti e consonanti sbagliate, ma anche di errori “concettuali” a livello grammaticale, come l’inserzione di aumenti nei prefissi, e tutta una serie di fenomeni che dimostrano come gli autori maneggino parole di cui non capiscono la struttura grammaticale. E come potrebbero, non conoscendo il greco?
Quanto ad altri errori metodologici, sono quelli che si sono visti pure qui, in questa recensione, come la catalogazione dei testi di cui s’è parlato sopra, o la follia di mettersi a discettare sulla datazione dei manoscritti che riportano le fonti, come se questo fosse rilevante per il tema in oggetto, di cui ci occuperemo sotto.
CITAZIONE
“Questa è stata prontamente rivista e mandata in stampa già all’inizio di febbraio 2014, vale a dire prima della pubblicazione delle osservazioni critiche del Polidori che, come già sottolineato, non sono aggiornate. “
Può darsi che la ristampa preceda questa particolare recensione critica di Teodoro, ma non precede il disvelamento di questi errori che io e Teo facemmo nel forum infotdgeova, nella discussione “libro la Bibbia prima del dogma”, in particolare i miei interventi sono del 17 gennaio. Siamo certi infatti che autori in grado di scrivere ripetutamente kulon non si sarebbero mai accorti della mostruosità della loro disgrafia neppure se avessero riletto il libro 10 volte prima di mandarlo in stampa (cosa che tra l’altro probabilmente avevano già fatto anche per la prima edizione, ma se non si conosce il greco, come puoi trovare errori nel greco?) Se gli autori saranno così gentili da inviarmi una copia autografata della loro nuova edizione sarò lieto di fargli da correttore di bozze indicando loro gli errori che certamente avranno lasciato anche in questa seconda ristampa.
CITAZIONE
“La tabella n. 3 alle pagine 211-13 rappresenta effettivamente un nostro contributo originale in quanto non riscontrato in letteratura. Il Polidori sembra sorpreso dall’informazione presente nella sesta colonna, cioè la datazione delle copie manoscritte delle opere, per come ci sono pervenute. Valutare l’antichità e la qualità dei manoscritti disponibili non è però nulla di bizzarro: si veda a questo proposito l’osservazione del Corsani, nella sua “Introduzione al Nuovo Testamento” (1972, Editrice Claudiana) a proposito del testo del NT in confronto con altre opere dell’antichità:
Non è fuori luogo, a questo punto, un rapido confronto con la trasmissione del testo delle opere dell’antichità. L’Iliade di Omero è giunta a noi in due onciali, 188 minuscoli e 457 papiri; però, eccezion fatta per Omero e Virgilio, gli altri scritti dei classici hanno una debolissima attestazione testuale: le Storiedi Velleio Patercolo sono pervenute all’epoca moderna in un solo MS, neppure completo (fra l’altro, è anche andato perduto dopo essere stato trascritto nel XVI sec.); i primi sei libri degli Annali di Tacito sono anche pervenuti in un solo MS del IX secolo. Lo stesso può dirsi di molte opere dei primi scrittori cristiani. Un secondo punto di vantaggio del NT è che i suoi MSS datano a un’epoca relativamente molto vicina alla loro data di composizione: salvo le lettere di Paolo, che sono degli anni 50 e 60, gli altri scritti del NT risalgono all’ultimo terzo del I secolo. […] A fronte di questa situazione sta quella dei classici, ove il principale MS delle tragedie di Sofocle a noi pervenuto è stato scritto 1400 anni dopo la morte del poeta; lo stesso vale per Eschilo, Aristofane e Tucidide, mentre la distanza sale a 1600 anni per Euripide, e scende a 1300 e 1200 per Platone e Demostene.
È davvero difficile comprendere il senso del ragionamento del Polidori.”
La loro ingenuità è davvero toccante. Il brano di Corsani infatti si basa su un ragionamento esattamente inverso all’effetto che i TdG vorrebbero ottenere. Ogni volta che un autore infatti dice qualcosa che scombina i loro piani a proposito della loro fantasiosa ricostruzione della crocifissione, essi si affrettano a tentare di sminuire il valore della fonte citata, dicendo che i manoscritti che ce la tramandano sono tardi: con quale altra intenzione, ci chiediamo noi, se non quella di suggerire surrettiziamente al lettore che il brano potrebbe essere interpolato? Eppure ciò viene fatto in assenza di qualsivoglia tradizione testuale alternativa che ometta i passi in questione, e quindi, che ragione vi sarebbe di dubitare dell’autenticità dei passi senza alcun indizio contrario alla loro originalità? Che motivo di sospetto dovrebbe mai essere infatti il fatto che questi manoscritti sono medievali? Visto che la maggioranza delle opere dell’antichità a noi pervenute ci è giunta solo tramite manoscritti medievali, se dovessimo dubitare di questi passi sullo stauros per questo solo motivo, dovremmo semplicemente dubitare di tutta la letteratura greca e latina a noi pervenuta, quale che sia l’informazione che ci trasmette. E’ questo che i geovisti nel loro dilettantismo astoricista, disavvezzo all’uso delle fonti antiche, non hanno compreso, e cioè che il
brano di Corsani che citano si basa su un presupposto che è esattamente opposto a quello che essi surrettiziamente vorrebbero veicolare. Il ragionamento di Corsani infatti è che se gli studiosi, come generalmente fanno, ritengono attendibili fino a prova contraria le informazioni che ci danno gli autori antichi, e che sono di attestazione medievale, allora a maggior ragione non v’è motivo di dubitare dell’affidabilità del Nuovo Testamento, che ha una tradizione manoscritta incredibilmente migliore di tutto il resto della letteratura latina e greca profana. Ma, per l’appunto, la premessa è che: siccome ci fidiamo di Tucidide per sapere come andò la Guerra del Peloponneso, pur essendo questo conservato solo su copie medievali, allora tanto più occorre fidarsi del Nuovo Testamento, che è conservato su copie quasi coeve ai testi originali.
Il punto è proprio questo: che senso ha mettersi a catalogare i manoscritti che ci danno informazioni sulla crocifissione in base alla loro antichità, nel chiaro tentativo di insinuare sospetti infondati, se per la verifica di qualsiasi altra tradizione o informazione sull’antichità avremmo a che fare con manoscritti delle medesime date? Ad esempio, che facciamo se vogliamo verificare che ai vincitori alle olimpiadi antiche si mettesse sul capo una corona di ulivo? Semplice, ci mettiamo a verificare quali sono gli autori antichi che ne parlano… E, siccome, come ci ricorda bene Corsani, pressoché tutto quello che ci è arrivato è su manoscritti di epoca medievale, ancora una volta scopriremmo che tutti gli autori che ci interessano per verificare se i campioni delle olimpiadi portassero corone d’ulivo ci sono stati tramandati da copie medievali.
Questa è la regola, e vale per il 90% di quello che c’è arrivato, fatto salvo qualche papiro che le sabbie d’Egitto ci hanno fortunosamente conservato grazie al clima secco di quel paese, e che magari ci riporta delle bucherellate righe di qualche poeta. Ma ciò sarebbe un divagare: il punto è che come ripeto qualsiasi verifica delle usanze dell’antichità che si basi sugli autori superstiti andrebbe incontro al medesimo fatto, cioè di doversi basare su copie di questi autori di epoca medievale. Dunque, in assenza di qualsiasi segno di manipolazione, ad esempio manoscritti con lezioni differenti, che cosa mai ci potrebbe fregare, al fine di indagare la crocifissione, del fatto che le copie delle commedie di Plauto sono di epoca medievale? Non ce ne frega nulla, perché vale per tutta la letteratura greca e latina, e dunque questo fatto in sé non significa assolutamente niente, non è un fattore cioè che possa indurre a sospettare alcunché circa queste fonti, a meno di non volersi mettere a sospettare tutto. Ma questo punto, vi avviso che potremmo avere dei problemi addirittura a sapere chi uccise Giulio Cesare.
La verità è che gli autori di questo libro, non so se rendendosi conto della fesseria della loro operazione o meno, volevano insinuare, facendo conoscere ai lettori la datazione medievale dei manoscritti delle opere che distruggono le loro tesi, che essi sarebbero da prendere con un surplus di spirito critico. Osate forse negare che fosse questa la vostra strategia?
Purtroppo per loro, questo modo di procedere non ha senso, perché banalmente è questo il livello di antichità delle fonti manoscritte con cui si lavora quale che sia l’argomento antico da studiare, che sia l’albero genealogico di un imperatore o per l’appunto la crocifissione, in quanto la pressoché totalità di ciò che c’è pervenuto risale alle copie su pergamena medievali. Dunque mettersi a dire davanti ad una fonte antica “premettiamo che c’è giunta su manoscritti tardi”, quando non c’è nessuna altra ragione per sospettare il testo, è semplicemente pleonastico e anzi ingenuo, oppure, se non è stato fatto con ingenuità, è indice di una strategia volta ad instillare un ingiustificato sospetto in queste fonti.
CITAZIONE
“È davvero difficile comprendere il senso del ragionamento del Polidori.”
Quello che è davvero difficile capire è chi vi abbia dato licenza di giocare a fare gli storici, ignorando la lingua e il metodo per approcciarvi alle fonti che dovreste trattare.
CITAZIONE
“ Il Polidori rivolge tutta la sua attenzione alla sola seconda parte delle conclusioni generali, probabilmente saltando la lettura dei paragrafi precedenti e attribuendo all’autore il collegamento tra Barnaba, Giustino, Tertulliano, il logos e il X platonici e la mistica religiosa del tempo. A tal riguardo è stato citato il Rahner, come anche il Grigg e il Bousset (p. 244 del nostro libro) autori che probabilmente sono sfuggiti alla revisione poco attenta del Polidori.”
Il vostro fraintendimento di Teodoro qui è totale. Egli infatti non s’è certo sognato di attribuire a Frattini come fosse sua originale la tesi che alcuni Padri della Chiesa abbiano visto nei testi platonici un richiamo alla croce, semmai ha attribuito agli autori del libercolo la tesi secondo cui l’idea dei Padri che lo stauros sia cruciforme dipenderebbe da questi influssi platonici.
Il che è esattamente quello che Frattini sostiene allorché scrive che l’idea di una croce a due braccia non deriverebbe dalla storia concreta, bensì da un’influenza mistica platoneggiante (con buona pace delle fonti scritte antiche e addirittura iconologiche con graffiti di crocifissi su muri e gemme, che invece testimoniano la nuda storicità delle croci). Scrive che la forma della croce da noi recepita: “sarebbe basata non su fonti propriamente storiche, bensì sulle visioni mistiche dello pseudo Barnaba, di Giustino e, molto più tardi, di Tertulliano, direttamente legate al logos e alla forma del X platonici (sic) oltre che al simbolismo mistico cristiano del loro ambiente” (p. 276).
Insomma, siamo vittima di visioni mistiche di autori influenzati dal platonismo, che avrebbero presumibilmente forgiato in se stessi l’idea di questa croce partendo dai testi latonici. Teo non ha detto che sia errato che questi autori si richiamano a temi platonici, bensì ha detto che è del tutto errato pensare che siano questi temi platonici ad aver determinato in questi autori l’idea che lo stauros fosse cruciforme. A che serve infatti da parte di Frattini citare Rahner o altri? Questi studiosi non sostengono ovviamente nulla di quanto egli afferma,
perché il ragionamento da fare, e che infatti questi autori fanno, è l’esatto opposto: e cioè PRIMA gli autori cristiani sapevano che lo stauros era cruciforme, e poi, proprio perché sapevano che era cruciforme, sono andati alla disperata ricerca in tutti i testi pagani di profezie su questa croce, trovando tra l’altro dei paralleli tiratissimi, proprio perché non hanno inventato la croce partendo da questi testi platonici, ma, al contrario, avevano una croce in partenza ed hanno cercato disperatamente di trovarla in testi che ovviamente non la contenevano. Se gli autori in questione avessero creduto che Cristo fosse stato appeso ad un palo, banalmente si sarebbero messi a cercare disperatamente negli autori platonici allusioni a oggetti paliformi.
Questo dice Rahner, cioè che questi Padri della Chiesa, proprio perché sapevano dapprima della croce di Cristo, vi cercano anticipazioni nei pagani. Né Rahner né altri invece si sognano di sposare la ridicola tesi di Frattini secondo cui è a partire da queste fonti pagane che Barnaba abbia costruito la croce. Anche perché, diciamocelo, a nessuno sano di mente, leggendo nel Timeo del X celeste, sarebbe potuto vedere in mente di ricavarvi uno strumento di crocifissione del proprio messia. E’ solo se prima si sa che lo strumento di supplizio è cruciforme che allora, vedendo in un testo che parla di tutt’altro un oggetto incrociato, scatta in noi il collegamento mentale con la croce che avevamo previamente in testa.
Lo stesso vale per la ricerca di paralleli nell’antico testamento: perché è importante che Barnaba si sforzi di vedere una Tau nell’Antico Testamento, anche dove ovviamente non c’era? Ma perché significa che egli aveva un mente come oggetto di partenza per lo stauros un oggetto cruciforme. E non c’entra nulla il fatto che il suo collegamento ovviamente non sia un’esegesi corretta dell’Antico Testamento: ciò che conta, e che ci fa conoscere il suo pensiero sullo stauros, non è se davvero nell’Antico Testamento ci fosse un Tau celato nella numerologia; ciò che ci fa conoscere il pensiero di Barnaba sulla croce è il fatto che egli si sia sforzato di trovare questo Tau nell’Antico Testamento, indipendentemente dal fatto che avesse ragione di vedervelo o meno. Se invece avesse creduto che Gesù fosse morto su un palo, banalmente si sarebbe messo a cercare corrispondenze di altro tipo, magari sulla lettera iota (che è come la nostra I maiuscola). Ecco dunque perché occorre stare attenti a non fare ragionamenti al rovescio: non è che Barnaba si sia inventato la croce, perché ha trovato un tau nell’Antico Testamento; al contrario, ha cercato e trovato nell’Antico testamento un Tau che non c’era, proprio perché era spinto dalla volontà di rinvenire nelle scritture ebraiche tracce della croce su cui sapeva era morto il suo Signore. Ed è anche in questo punto che vediamo un’ennesima ingenuità storica del Frattini, allorché si mette a cercare di dimostrare che Barnaba errò nel vedere nell’Antico Testamento una croce, ed egli si illude che una cosa del genere sia rilevante. Ma non c’entra nulla: il fatto che Barnaba sbagli non ha nulla a che vedere col fatto che, proprio per il suo errore, noi possiamo sapere che egli credeva che Cristo morì su una croce.
CITAZIONE
“È infine doveroso rimarcare che il giudizio del Polidori sulla conclusione evita di menzionare, per motivi non spiegabili, il risultato più diretto e sostanzioso dell’esame dei testi citati, cioè l’inesistenza praticamente assoluta, nei testi analizzati, di una tecnica di crocifissione tipica “romana””
Dobbiamo a questo punto ridere o piangere? Rimandiamo gli autori dunque ad una più savia lettura delle fonti, e facciamo loro presente che l’esistenza del mos romanorum descritto degli studiosi si poteva anche ricavare a monte già da chi si limiti a descrivere la fase finale del supplizio, cioè la croce bell’e fatta. A partire da questo infatti, che ha solide attestazioni sia letterarie sia iconolografiche (il graffito del Palatino, la taberna di Pozzuoli, il crocifisso della collezione Peirere di Parigi), ci sono solo tre vie per spiegare come si sia potuti arrivare ad una croce siffatta:
1)Immaginare che il
crucifer si fosse portato l’intera croce con sé e poi vi fosse stato affisso, ma questo sia i TdG che gli studiosi lo negano.
2)immaginare che si venisse direttamente appesi alla croce raffigurata in questi luoghi e descritta dagli autori, senza il previo trasporto di alcunché: ma questa idea contraddice sia quello che leggiamo nei Vangeli (e la ricostruzione che ne dà la WTS), e contraddice altri autori quali Plutarco, o Artemidoro, il quale è chiaro nel dire che “chi è appeso alla croce, prima se la porta”.
3) ultima opzione: immaginare che il
crucifer si fosse portato solo il patibulum, e che poi esse venisse issato sulla croce, come vediamo sul portone di Santa Sabina.
Conclusione: a prescindere dall’esistenza o meno, che comunque è massiccia, di fonti su un uso romano precedente alla crocifissione, già la sola considerazione dell’esito finale, cioè lo stauros
cruciforme descritto tanto dagli scrittori quanto raffigurato dai reperti iconografici, di per sé porta alla necessaria conclusione che si fosse arrivati a quella croce trasportando il patibulum (essendo il trasporto della croce intera escluso per comune accordo da ambo le parti per ragioni di peso, ed essendo il trasporto del solo stipes con inchiodatura ad esso escluso dall’esito cruciforme di cui parlano queste fonti).
E dunque la smettano di fare gli ingenui, con la loro paranoia ermeneutica, e non facciano finta di non capire che quando Plauto scrive: “patibulum ferat per urbem, deinde adfigatur cruci”, non sta certo dicendo che ha mollato il patibulum per terra e poi è salito su un palo. Ciò contraddice tutte le fonti, compreso l’odiato Firmico Materno che ci dice che prima di venire issati sulla croce si veniva inchiodati al patibulum “Patibulo
suffixus in crucem tollitur”.
Ve lo spiega pure Agostino il meccanismo, che qui ovviamente non cito come Padre della Chiesa, ma come persona che coi romani ci viveva e dunque sapeva di cosa parlava. Commentando un passo paolino in cui si parla della “lunghezza, larghezza, altezza e profondità dell’amore” di Cristo, Agostino vi vede un simbolo delle 4 braccia della croce, le quali, ci dice
en passant, si ottengono allorché durante l’esecuzione si inchioda la traversa sul palo verticale:
“Non senza ragione quindi scelse questo genere di morte, ma solo per apparire anche in ciò maestro della larghezza, lunghezza, altezza e profondità del suo amore (Ef 3,18). La larghezza sta
nella traversa che s'inchioda sopra la croce e simboleggia le opere buone, giacche su di essa vengono distese le mani. La lunghezza e nella parte che si vede dall'alto della croce sino a terra: ivi si sta per cosi dire dritti, cioè si persiste e si persevera; virtù che e attributo della longanimità. L'altezza, e nella parte della croce che,
a partire dal punto dove e inchiodata la traversa, sopravanza verso l'alto, cioè verso il capo del crocifisso, poiché l'aspettativa di coloro che sperano e rivolta verso il cielo. La parte della croce che non e visibile, perche confitta nella terra non si scorge, ma da cui si eleva tutto, significa la profondita della grazia concessa gratuitamente.” (Lettere, 140, 26)
Anche qui, non vorrei ripetermi, ma visto che abbiamo a che fare con persone senza una preparazione antichistica sarà il caso di rimasticare più volte gli stessi concetti per renderli omogeneizzati digeribili . Non ha nessuna rilevanza che qui Agostino stia commentando un passo paolino vedendovi un simbolo, quello che conta è che, nel fare ciò, egli vi veda un riferimento alla croce materiale, e ci dica pure dove sta il collegamento tra simbolo e materialità concreta della croce. Il parallelo, ci dice Agostino, è che poiché la croce ha 4 braccia in virtù del fatto che la traversa viene inchiodata sul palo verticale, allora essa ha 4 dimensioni come quelle descritte nel passo paolino sull’amore di Cristo.
Tout se tient come dicono i francesi, tutto converge, come diciamo noi, ovviamente per chi non voglia accecarsi volutamente, e non abbia una tesi settaria da bottega che va difesa a tutti i costi.
Quello che vorremmo chiedere a Frattini, impegnato vanamente a contendere cogli accademici che scrivono i dizionari antichistica a proposito del mos romanorum della crocifissione, è in quali fonti egli invece abbia rivenuto la tipologia di procedura che i Testimoni di Geova ricostruiscono per la morte di Cristo, la quale sarebbe un unicum assoluto. Ed in particolare, in quali testi abbiano mai tratto queste informazioni:
1)Esiste un solo testo da cui sia lecito trarre che il legno portato dal crucifer fosse inequivocabilmente quello verticale? Giacché i testi non ambigui, parlano tutti di quello orizzontale, e dunque i testi ambigui vanno letti alla luce di questi altri chiari.
2)Esiste un solo testo in cui si dica che il legno verticale portato, fosse poi piantato in loco, con grande dispendio di mezzi e tempo?
3)Esiste un solo testo che dica che il legno verticale che si era portato, è quello a cui si veniva poi inchiodati?
Ecco, io vorrei che voi, amici lettori, non cadeste nel solito giochetto dei TdG, i quali amano limitarsi a tentare, vanamente, di distruggere le prove altrui, ma poi non portano niente a sostegno della loro ipotesi invece. Si limitano cioè alla pars destruens della tesi altrui, senza avere alcuna pars construens che suffraghi in positivo le loro ricostruzioni.
Invece di combattere lo stauros cruciforme e il mos romanorum che lo produceva, i quali hanno testimonianze letterarie profane, patristiche, epigrafiche, glittiche, e archeologiche in generale, inizino a spiegarci Arduini&Co. dove sarebbe attestata altrove in letteratura la stramba ricostruzione che la loro conventicola dà della morte di Cristo.
Ho terminato la mia contro-recensione della contro-recensione, limitatamente alla parte del libro sulla crocifissione che, come ripeto, è una delle poche che ho letto; spero però che si sia ricavato a sufficienza da questo prelievo a campione quello che volevo trasmettere, cioè che abbiamo a che fare con persone non abituate a lavorare coi testi antichi, e per forza di cose dunque soggette a ragionamenti campati per aria, oltre a incomprensioni della lingua in cui queste fonti ci sono pervenute. Ab uno disce omnis.
Ad maiora
Edited by Polymetis - 18/3/2014, 16:44