Studi sul Cristianesimo Primitivo

Esaltazione senza preesistenza: la cristologia originaria

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Talità kum
view post Posted on 30/3/2016, 14:59 by: Talità kum     +2   +1   -1
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CITAZIONE (JohannesWeiss @ 15/3/2016, 19:07) 
Fil 2,6-11 è un inno di difficile interpretazione, e la traduzione della CEI 1978 sopra riportata può apparire discutibile in vari punti. Per farcene una primissima idea basta già confrontare il diverso modo con cui viene reso il v. 6 nella nuova traduzione CEI 2008: "egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio".
In particolare, essere nella condizione di Dio non è la stessa cosa che essere di natura divina, così come essere come Dio non è la stessa cosa che essere uguale con/a Dio, specialmente se tale "tesoro geloso / privilegio" (harpagmos) viene inteso non come qualcosa che Cristo possedeva già ma che non volle trattenere gelosamente per sé, bensì come qualcosa che Cristo non possedeva ma che non volle comunque considerare un bene da estorcere o rapinare - un senso questo (οὐχ ἁρπαγμὸν ἡγήσατο τὸ εῖναι ἴσα θεῷ = non considerò l'essere come Dio un bottino da rapinare) non adottato da nessuna delle due versioni CEI, ma comunque perfettamente accettabile sul piano grammaticale.
Per farla breve, nel solo v. 6 abbiamo due o tre espressioni altamente controverse tra gli esegeti quanto alla corretta interpretazione:
1. μορφὴ θεοῦ: natura divina? condizione/sfera/modo di essere di Dio? forma esteriore percepibile di Dio? gloria di Dio? immagine di Dio?;
2. οὐχ ἁρπαγμὸν ἡγήσατο: non considerò "X non-posseduto" qualcosa da rubare? non considerò "X posseduto" alla stregua di un furto o comunque qualcosa da tenere gelosamente per sé?;
3. τὸ εῖναι ἴσα θεῷ: l'essere uguale a Dio? l'essere come Dio?

A questo proposito, sul quale si sprecano le congetture, ho sempre considerato assai soddisfacente l’autorevole analisi filologica di Hoover circa il termine “harpagmos” (Roy W. Hoover, “The Harpagmos Enigma: A Philological Solution” Harvard Theological Review / Volume 64 / Issue 01 / January 1971, pp 95-119). Va osservato che la sua proposta di traduzione “qualcosa di cui approfittarsi/trarre vantaggio“, non a caso assai diffusa tra gli interpreti, è stata criticata una ventina d’anni dopo da O’Neill ("Hoover on Harpagmos Reviewed, with a Modest Proposal Concerning Philippians 2:6," HTR81 (1988) , 445-49) secondo il quale la proposta di Hoover non può considerarsi conclusiva e va mantenuta la legittima opzione traduttiva “qualcosa di cui appropriarsi/rapinare/estorcere con violenza” (come proposto da Weiss). Gli studiosi seguono ora Hoover (direi la maggioranza), ora citano O’Neill (e.g. Dunn). Tuttavia, avendo cercato di approfondire, ci tengo a fare un’osservazione. Nelle sue conclusioni, Hoover afferma che <<in every instance which I have esamine this idiomatic expression refers to something already present and at one’s disposal.>> ed al tempo stesso che << Neither in this idiomatic phrase nor in any other usage [...] or any of their compunds or cognates mean to retain something>>.
Ciò significa che sono da rigettare traduzioni come “tesoro geloso / trattenere” così come “estorcere/rapinare”: O’Neill, per mantenere aperta la possibilità di questa seconda traduzione è costretto a fare una proposta inaccettabile (modifiche di uno scriba) che infatti non viene accolta dagli esegeti.
Tuttavia, la proposta di traduzione di Hoover non implica che la cosa di cui approfittare/trarre vantaggio sia già posseduta (es. “natura divina”) e può ben essere un’opportunità (a disposizione) da cogliere/della quale approfittarsi. Con tale traduzione (secondo me assolutamente corretta) viene quindi mantenuta l’ambiguità circa il possesso (a tal proposito si veda M. Wade Martin “Harpagmos Revisited: a philological re-examinaton of New Testament’s most difficult word”, JBL 135 no.1 (2016): 175-194) e non è quindi possibile redimere tale questione attraverso il significato di harpagmos: va notato però che la possibilità del possesso non è esclusa, come implicherebbe la traduzione estorcere/rapinare, e secondo me è giustificata un’idea di pre-esistenza anche se non necessariamente la “piena divinità” che parrebbe raggiunta con la resurrezione nei vv. 9-11.

Ora, circa la lettura adamica dell’inno di Filippesi, riporto alcune critiche di Ehrman (che hanno il pregio di essere formulate in maniera crassa e semplice):

<<first, if Paul (or the author of the poem) really wanted his readers to make the connection between Jesus and Adam, he surely would have done so more explicitly. Even if he chose not to call Adam by name, or to call Jesus the second Adam, he could have made verbal allusions to the story of Adam (and Eve) more obvious. [...]
In particular, rather than saying that Christ was “in the form of God”, he would have said that Christ was “in the image of God”. That is the word used in Genesis, and it would have been quite simple for the author to use it here in the poem if he wanted his reader to think of Genesis. >> (B. Ehrman, “How Jesus become God”, HarperOne, 2014 pg. 138 )

La risposta di Dunn, sul piano filologico ed esegetico, è ben riassunta da Weiss :
“Come Adamo nella sua innocenza era stato creato ad immagine (εἰκών) di Dio (con il riflesso di gloria e l’incorruttibilità proprie di tale condizione), così Gesù era nella forma (μορφή) di Dio [NB: Dunn insiste che εἰκών e μορφή sono pressoché sinonimi - giudizio su cui gli esegeti sono abbastanza divisi -, e l’autore dell’inno può aver optato per μορφή in quanto meglio si prestava al contrasto con la μορφὴ δούλου del v. 7].”

Secondo Dunn l’utilizzo di tali sinonimi andrebbe inquadrato in un contesto di lettura adamica allusiva (anziché esplicita) dell’inno, che ha natura poetica. Traduco l’argomento di Dunn, come già riportato da Weiss:
<<un punto importante va chiarito. Che è la natura delle allusioni. Il fatto è che gran parte del dibattito circa l’esegesi di questo passaggio ha mostrato un’ insensibilità artistica o letteraria piuttosto grossolana... Le allusioni per loro natura non sono esplicite . Poeti o critici letterari che dovessero precisare ogni allusione o eco comprometterebbero la loro arte e priverebbero i loro lettori più percettivi del momento di illuminazione, dell'emozione del riconoscimento.>>
(J. Dunn, The Theology of Paul the Apostle, Grand Rapids, Eerdmans, 1998, 283-284).

A questo punto cerco di articolare meglio le crasse osservazioni di Ehrman con un paio di considerazioni di natura più tecnica. Riguardo al fatto che εἰκών e μορφή siano pressoché sinonimi non vi è unanimità di giudizio – tale utilizzo interscambiabile non è infatti così scontato (si veda ad es. D. Steenburg, "The Case against the Synonymity of Morphe and Eikon" JSNT 34 (1988) 77-86) quindi l’osservazione di Ehrman relativa ai termini inappropriati è decisamente sostenibile da un punto di vista filologico.
A tali dubbi interpretativi, si aggiunge la interessante critica di Hurtado alla presunta lettura adamica di tipo allusivo – critica che qui riporto integralmente:

<< Dobbiamo notare che l'unità semantica in questione in Filippesi 2: 6 non è “morphē” ma “morphē theou”.
La questione non è esclusivamente relativa alla portata generale della parola greca per "forma"; piuttosto, la questione è relativa al significato della specifica espressione greca per "forma di Dio".
Ciò che ci interessa sapere non è se le parole greche “morphē” ed “eikön” abbiano una sorta di legame concettuale generale, ma se i due termini siano mai stati usati in modo intercambiabile, in particolare in questo tipo di espressione. Le parole hanno spesso un insieme di possibili significati generali, ma i loro significati particolari appaiono nel loro utilizzo ed in relazione sintattica con altre parole, in frasi e periodi.
Quindi la domanda più precisa da affrontare è se l’espressione "forma di Dio" sia stata qui utilizzata come un modo di alludere alla descrizione di Genesi Adamo come creato "a immagine di Dio".
Come ho già indicato in una precedente discussione della questione, la risposta è piuttosto chiaramente negativa: nella traduzione greca dei relativi passaggi di Genesi, l'espressione “eikön theou” è costantemente utilizzata per esprimere lo speciale stato e significato di Adamo e dell'umanità (Genesi 1: 26-27; 5: 1; 9: 6), e nelle successive allusioni a questa idea e di questi testi a scritti greci di provenienza ebraica e protocristiana la stessa espressione è utilizzata in modo altrettanto coerente (e.g., Wisd. of Sol. 2:23; 7:26; Sirach 17:3; 1 Cor. 11:7; Col. 3:10).. Inoltre, gli scrittori del Nuovo Testamento usano costantemente il termine eikön quando sembrano appropriarsi dell'idea di "immagine" divina come un modo per indicare il significato di Gesù (2 Cor. 4: 4; Col 1,15), e quando creano un nesso evidente o un contrasto tra Gesù ed Adamo (ad esempio, 1 Cor 15:49;. 2 Cor 3,18). Al contrario, “morphē” non è mai usato altrove in qualsiasi allusione ad Adamo nel Nuovo Testamento, e “morphē theou” non viene utilizzato affatto nel Tanach greco / Antico Testamento o in qualsiasi altro testo ebraico o cristiano in cui possiamo identificare un'allusione ad Adamo.
Così il presunto utilizzo di “morphē theou” per collegare Gesù con Adamo in Fil 2: 6 sarebbe un caso singolare, senza alcuna analogia o precedente.
Come ho già affermato altrove, tale modo di fare un'allusione ad Adamo sarebbe "un modo particolarmente inetto". Affinché un’allusione ad un altro testo o tradizione orale possa funzionare - ovvero, affinché i lettori / ascoltatori possano afferrarla - si deve usare o adattare qualcosa di ciò a cui si allude in modo che sia sufficientemente identificabile da poter cogliere l’allusione.
In Fil2: 6-8, tuttavia, non vi è una singola parola proveniente dal testo della creazione di Genesi o dai racconti della tentazione, ad eccezione della parola "Dio". Che ben difficilmente può esser considerato un tentativo efficace di allusione>>
(L. Hurtado “How on Earth Did Jesus Become a God?” Eerdmans, 2005 pg. 98-99)

Ecco quindi corroborata l’osservazione di Ehrman secondo cui i riferimenti ad Adamo non sono così espliciti. [edit. 01/04/16: Parlando di allusioni nell'inno di Filippesi ritengo che in effetti ve ne siano, e che siano riconoscibili: i vv.9-11, dei quali finora non ci siamo occupati molto, sono un'allusione ed un riferimento a tradizioni bibliche giudaiche (ad es. Isaia 45:18-25, Salmi 97:9) che ci possiamo ragionevolmente aspettare fossero riconosciute dal lettore. Quindi l'inno è in grado di esprimere allusioni identificabili, al contrario dell'ipotetica allusione adamica].

Ora, trovandomi di fronte ai due argomenti (Dunn vs. Hurtado/Ehrman) mi trovo a propendere per l’argomento più verificabile tramite l’analisi dei testi, in quanto l’argomento poetico/allusivo è piuttosto arduo da verificare trattandosi di un unicum nel corpus biblico.
E questo a maggior ragione, sempre mia opinione, se l’inno fosse pre-paolino – in quanto non potremmo neppure presumere la lettura adamica presente in Paolo.
Per completezza, faccio presente che Hurtado – come ogni studioso onesto e sano di mente - ha parzialmente rivisto nel tempo le proprie convinzioni circa l’origine pre-paolina dell’inno, e pensa che ci sia in parte anche lo zampino di Paolo.

Per ora mi fermo qui!

Ciao,
Talità

Edited by Talità kum - 1/4/2016, 12:07
 
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