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| CITAZIONE Mai detto che i libri degli altri accademici non abbiano errori, comunque mi sembra scorretto ritenere che tutti gli studiosi di area anglosassone siano meno esperti e precisi nella ricerca storica su Gesù e del cristianesimo antico di un giornalista come Messori, Oltre al fatto che a me sembra assai più scorretto fare un paragone se non si conosce uno dei due poli del confronto, il pensiero che mi attribuisci non esiste. Io non ho scritto quello che hai affermato, ho solo detto che a mio avviso è più bravo di molti biblisti titolati, non ho affermato né che questi biblisti siano tutti i biblisti, né ho detto che stessi parlando di biblisti anglosassoni. CITAZIONE "n giornalista come Messori, non laureato in alcuna disciplina legata a tali studi, solo perchè in Italia ci sono scuole preuniversitarie in cui sono previsti studi classici mentre nei paesi anglosassoni no." Come già detto, il liceo classico gli ha solo dato la base per potersi muovere autonomamente negli studi antichistici, cosa che diplomato all'ITIS certo non potrebbe fare. E da questo punto di vista, è certo che molti errori di metodo degli storici che partono subito con le discipline neotestamentarie, dipendono dal fatto che non sanno niente della civiltà e del contesto mediterraneo cui anche il NT appartiene. I laureati in america sono dei "grecisti" che sanno a memoria il NT per averlo sentito proclamare tradotto nelle chiese, e che riescono a tradurlo solo perché sanno già prima a memoria cosa c'è scritto, ma dategli in mano un brano di Tucidide e non saprebbero cavare un ragno dal buco. E' una vera disgrazia, tanto in America quanto in Italia, l'affluire nelle facoltà di teologia di gente che non ha mai studiato greco; forse però non fanno così danno, perché almeno in Italia i dottorati che permettono di inoltrarsi nella carriera accademica li vincono comunque i migliori, cioè gli studenti provenienti dal classico. CITAZIONE "Certo che in ogni opera di uno storico che fa ricerca storica lo studioso sostiene una tesi che ha in mente già mentre scrive la prima pagina del libro, ma ciò è diversissimo da quello che fa l'apologetica, perchè lo storico ha quella tesi precostituita perchè ritiene che sia sostenuta in modo convincente dai dati empirici in cui si è imbattuto finora e da interpretazioni e ragionamenti che ha fatto su di essi, e soprattutto la sua tesi è sempre provvisoria, ovvero ogni storico ammette che ogni tesi storiografica è sempre rivedibile a causa o di scoperte di nuovi dati empirici o in base a nuove interpretazioni e ragionamenti che spiegano in maniera più semplice ed esauriente i dati che finora noi abbiamo a disposizione." Non trovo questa distinzione sensata. In primis perché non è colpa di uno studioso apologeta se si trova nel caso che sia la ragione e lo scandaglio delle fonti, sia la propria fede, gli suggeriscano esattamente la stessa cosa. Può darsi cioè che un apologeta si troverebbe a scrivere quello che ha scritto a prescindere alla sua fede, o anzi, aver acquistato la fede dopo essersi convinto della validità razionale di quello che prima negava. Per Messori è stato così: è arrivato alla fede studiando, prima era agnostico, e non il contrario. E non è colpa sua se la ragione l'ha portato, l'ha costretto, a divenire credente. Jean Guitton, grande filosofo francese, diceva giustamente che la critica può allontanare dalla fede nei Vangeli, ma la critica della critica ci riporta alla fede più saldi di prima. Vale a dire che l'apologeta può benissimo credere a quello che crede perché lì l'ha portato la ragione, e non è colpa sua se questo prodotto coincide con la propria fede. Il un famoso libro del ciclo di S. Holmes si dice che bisogna partire dai dati per formulare le teorie, e non dalle teorie per inquadrare i fatti. Ammesso che questo sia vero o anche solo possibile, il punto è che io descriverei la posizione di Messori come quella di chi, sia partendo dai fatti per arrivare a teorie, sia facendo il percorso inverso, cioè sulla base delle teorie pre-costituite interpretare i fatti, è arrivato al medesimo risultato.Quando dico poi che questo apologeta usa il metodo storico-critico, intendo dire che è proprio applicando questo metodo che arriva alle sue conclusioni, cioè che le scelte che fa sono all'interno del ventaglio delle ipotesi storicamente plausibili. Quanto al rasoio di Ockham in storiografia, esso è un principio euristico certo utile, ma non può essere assunto a principio metafisico che spieghi il reale. Nulla vieta infatti che una faccenda storica sia davvero ingarbugliata e complessa. CITAZIONE "ma non sapevo di questi teologi, hai qualche nome?" Caso vuole che nel volume di Messori, Dicono che è risorto, i capitoli storici sono intervallati a capitoli di filosofia e teologia. Questo ad alcuni potrebbe sembrare un'indebita contaminazione di generi letterari, ma, oltre al fatto che i capitoli in questione sono nettamente distinti, a mio avviso invece questo è un pregio di Messori, che vuole adottare una razionalità integrale, e dunque vagliare un'idea da tutti i punti di vista, quello storico come quello teologico. Messori dedica dunque un capitolo a stabilire se la fede di questi teologi modernisti, che ritengono irrilevante la risurrezione di Cristo, possa ancora definirsi cristiana. Te lo metto in spoiler, l'ho ricavato con un OCR: Chiudevamo il capitolo precedente ricordando la Pasqua del 1976, uno dei più plumbei tra gli “anni oscuri” in cui entrò la cristianità occidentale negli ultimi decenni del XX secolo. Fu in quell’occasione che Le Monde rivolse una domanda a prestigiosi esponenti delle Chiese cristiane, cattolici ma anche protestanti e ortodossi: «Che ne sarebbe della vostra fede, se il piccone di un archeologo, in qualche luogo dell’antica Palestina, dissotterrasse lo scheletro di Gesù di Nazareth?». Ecco un campionario di risposte, che la dicono lunga su quel clima sconcertante - di “spiritualizzazione”, di “smaterializza- zione” dell’evento Risurrezione - di cui abbiamo cominciato a parlare la volta scorsa. Francois Quéré: «Questo non mi turberebbe affatto. La mia fede non dipende da una tomba vuota o piena. Il ritrovamento di un po’ di ossa non mi farebbe sprofondare nel dubbio». Marc Oraison, prete cattolico, nonché medico e psicanalista: «La scoperta dello scheletro di Gesù rafforzerebbe la mia credenza, perché distruggerebbe il mito della rianimazione di un cadavere. La presenza delle ossa del Nazareno mi rafforzerebbe nella fede, che, per essere tale, deve essere del tutto indimostrabile». Georges Crespy, docente alla Facoltà di teologia protestante di Montpellier: «Questo non impedirebbe di credere nella Risurrezione. Anzi, un simile ritrovamento sbloccherebbe probabilmente la fede, obbligandola a non fidarsi più del visibile». Ma un oscuro parroco, un non-professore, un povero cristiano abituato a respirare non l’aria artificiosa delle biblioteche ma quella della trincea pastorale, a contatto con i semplici fedeli, ha osato rispondere nella stessa inchiesta: «Le ossa di Gesù? Se me le vedessi davanti mi sentirei irrimediabilmente ferito. Credo proprio che con questo mi avrebbero dimostrato che la mia fede non era che una illusione». E Jean Guitton, il cattolico accademico di Francia, colui che per tutta la sua lunghissima vita ha riflettuto sulla possibilità per l’uomo d’oggi di continuare a credere: «Se avvenisse davvero un ritrovamento di questo tipo, lascerei scritto nel mio testamento: “Ho ingannato e mi sono ingannato" ». In effetti, stando a qualche biblista e teologo contemporaneo, sarebbe possibile credere in Gesù come Messia, anzi come Figlio di Dio - sarebbe possibile, in una parola, “conservare la fede” - pur ipotizzando che il suo corpo sia marcito in un sepolcro o in qualche fossa comune. Le ossa di Gesù potrebbero giacere da qualche parte in Palestina, senza che per questo sia impossibile credere alla “risurrezione”: o, almeno, come dicono, «al significato di salvezza contenuto nella fiducia che Dio ha approvato quell’uomo». Sarebbe possibile, dunque, continuare a dirsi “cristiani”? Ma, questo, ci pare solo secondo le teorie, gli schemi, le fisime (o, magari, la tentazione di épater le bourgeoìs, di mostrarsi non conformisti) dei moderni sapienti, secondo quel sempre ricorrente orrore “gnostico” per la carne e la vita concreta, su cui ritorneremo. Ma, se vogliamo attenerci al buon senso e ai testi, vediamo subito che questo modo di pensare non è affatto quello del Nuovo Testamento. Se davvero ci teniamo a condividere la fede degli evangelisti, di san Paolo, di tutta intera la comunità primitiva dei credenti, dobbiamo convertirci al concreto, massiccio “materialismo” della Risurrezione. E proprio la fedeltà al Nuovo Testamento che ci impone di non seguire le ipotesi “spiritualiste”, per le quali il corpo non avrebbe importanza, ciò che vale davvero essendo lo spirito, il “significato”, il “simbolo”. Dobbiamo opporci a questo, così come il protestante Karl Barth si oppose al suo collega e confratello protestante Rudolf Bultmann e a tutti i teologi “demitizzatoli”, esclamando che «rifiutare la risurrezione corporea di Gesù dai morti è, per un cristiano, rifiutare Dio stesso così come si è rivelato». Dobbiamo opporci, come il cattolico Jean Daniélou: «La dottrina di Bultmann e di altri teologi ed esegeti, secondo la quale la risurrezione della carne è un mito che significa soltanto il rinno-vamento interiore operato dalla fede, è molto vicina alle concezioni gnostiche combattute da san Paolo». La “gnosi”, infatti, tende a rifiutare il corpo, considerato come qualcosa di negativo se non di vergognoso; in ogni caso un mero rivestimento - purtroppo, provvisoriamente necessario, e al quale rassegnarsi - dello spirito, il solo che meriti attenzione. Il cristianesimo, invece, ha sempre guardato all’uomo tutto intero, composto inestricabile di materia e di spirito, di corpo e di anima. Caro, cardo est salutis, la carne è il cardine della salvezza, per dirla con Tertulliano, l’apologeta del cristianesimo primitivo, che alludeva proprio - con quella formula - alla risurrezione di Gesù. Molti secoli dopo, il grande teologo italo-tedesco del Novecento, Romano Guardini, annotava, riflettendo sulle apparizioni del Risorto: «Solo il cristianesimo ha osato mettere il corpo nelle profondità più nascoste di Dio». In effetti, come ha osservato Robert Sublon, teologo protestante e uno tra gli interrogati dall’inchiesta di Le Monde: «La risurrezione materiale del Cristo dà senso alla fede nell’incarnazione, significando l’importanza del corpo per il giudeo-cristiano. La mentalità ebraica non poteva neanche immaginare una vita senza corpo». La contrapposizione tra spirito e materia, nella medesima persona, è (come abbiamo visto) sconosciuta all’ebraismo ed è invece tipica della cultura ellenistica e, in genere, pagana. E dunque del tutto coerente che le descrizioni evangeliche delle “cristofanie”, delle apparizioni del Risorto, siano in questa linea di “totalità”, di “completezza” giudaiche, senza schizofrenie e contrapposizioni “gnostiche”. Soltanto chi non conosca i testi (o li rimuova se in contrasto con le sue teorie, come fanno tanti, che pure quei versetti in greco li conoscono sin troppo) può dire che il Nuovo Testamento non sarebbe interessato alla “materialità” delle esperienze pasquali. É vero il contrario. Tanto che, per definire ciò che ci è raccontato dagli evangelisti, il termine “apparizioni” appare improprio. In effetti, fa pensare a un fenomeno che non colpisca altro senso se non la vista. E, invece, il Risorto è descritto dai vangeli mentre condivide in ogni aspetto la vita dei suoi amici, come prima della morte in croce. È una condivisione che incomincia dal cibo: proprio il cibarsi sembra essere una costante delle “apparizioni” (dove le virgolette sono più che mai d’obbligo). «Avete qui qualcosa da mangiare?», chiede il Risorto, riapparso per la prima volta davanti alla sua comunità. E lo chiede proprio perché «per tanta gioia e stupore rimanevano ancora increduli». Allora, «gli offrirono un po’ di pesce arrostito. Ed egli lo prese e lo mangiò in loro presenza» (Le, 24,41-43). Ad Emmaus, siede con i due discepoli alla mensa ed è proprio lì, mentre spezza il pane, che lo riconoscono. Apparendo presso il lago di Tiberiade, chiede ancora una volta da mangiare, anzi prepara egli stesso un pasto per gli apostoli che tornano dalla pesca: «Come dunque furono discesi a terra, vedono un fuoco acceso di brace con sopra del pesce e del pane. Gesù dice loro: “Portatemi alcuni pesci di quelli che avete preso ora”. (...) Gesù allora dice loro: “Venite e mangiate”». Più avanti, l’evangelista (che è anche testimone del fatto) ci conferma che pure il Signore partecipò alla mensa: «Quando ebbero mangiato...» (Gv, 21,9-10; 12; 15). L’insistenza sul cibo è tale, che questo aspetto “materiale” entra addirittura nel kérygma, nella predicazione ufficiale della Chiesa. Dice Pietro, annunciando la fede a Cesarea: «Dio lo ha risuscitato il terzo giorno e volle che apparisse non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti» (At, 10,41). Dunque, l’essere stati “a mensa con lui” è, per il capo stesso degli apostoli, uno dei requisiti per essere garanti attendibili della verità della Risurrezione. Il corpo (anzi, la parte che lo spiritualismo, gnostico o no, di ogni tempo giudica più disgustosa: il ventre) la fa da protagonista in questi racconti pasquali. C’è, tra l’altro, una proposta di prova tangibile fatta dal Risorto stesso a quelli che, già allora, rifiutavano lo scandaloso “materialismo” di quell’evento e, scrive Luca (24,37), «credevano di vedere un fantasma»: «Ma egli disse: “Perché siete turbati e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho”» (Le, 24,38 ss.). Quel “toccatemi” è, nell’originale, l’imperativo del verbo greco pselafào che significa, letteralmente, “tasto, palpo”: qualcosa, dunque, di estremamente “materiale”, di estremamente “non spiritualistico”. Anche all’incredulo Tommaso giungerà la celebre esortazione a “tastarlo”: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani! Dammi la tua mano e mettila nel mio costato; e non volere essere incredulo, ma abbi fede» (Gv, 20,27). Lo stesso “spirituale” Giovanni, all’inizio della Prima lettera che porta il suo nome, userà lo stesso verbo di Luca, “palpare”, in polemica con quegli gnostici antichi - e che oggi sembrano ritornati - che volevano volatilizzare la realtà materiale della risurrezione: «Ciò che era sin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato (epselafesan), ossia il Verbo della vita (...), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi...» (1 Gv, 1,1 ss.). Dunque, l’oggetto della testimonianza di Pasqua non riguarda affatto una frase del tipo: “in qualche modo quel Crocifisso è ancora vivo”. No: la testimonianza del Nuovo Testamento va, concorde, senza esitazioni, sulla realtà anche fisica del corpo del risuscitato. E, dunque, su un sepolcro rimasto vuoto per sempre. In questo clima, crediamo sia difficile sbagliare, azzardando la possibile replica di discepoli e apostoli alla domanda di Le Monde sulle reazioni a un’impossibile scoperta delle ossa del loro Cristo. «Non è solo la tomba vuota», crediamo avrebbero risposto, «che ci ha riportati alla fede. E stato, soprattutto, lo stare a mensa con lui. Sulla nostra esperienza, siamo certi che non è apparso lo spirito di un morto, ma che è risorto un corpo, una persona nella sua interezza. Se, dunque, qualcuno (per assurdo) ci mostrasse i resti di quel corpo che noi abbiamo toccato, faremmo fagotto e - amareggiati e delusi come già fummo in quei terribili venerdì e sabato prima del mattino di Pasqua - ritorneremmo ai nostri vecchi mestieri, più redditizi, meno scomodi, meno pericolosi». Coloro che oggi giudicano “irrilevante per la fede” che il cadavere sia uscito dal sepolcro e che dicono di non essere minimamente turbati, nel loro credere, se lì si fosse decomposto, hanno mai osservato - oltretutto - l’insistenza della predicazione primitiva su “il corpo che non vide la corruzione”? E interessante riflettere, a questo proposito, sull’annuncio di Paolo un sabato, nella sinagoga di Antiochia di Pisidia, «dopo la lettura della Legge e dei Profeti». Una citazione che può sembrare un po’ lunga, ma che è essenziale, mostrando come il kérygma primitivo considerasse centrale proprio quell’aspetto che alcuni vorrebbero presentarci come irrilevante. Sentiamo, dunque, l’Apostolo delle genti nel suo rivolgersi ai confratelli ebrei: «E noi vi annunciamo la buona novella che la promessa fatta ai padri si è compiuta, poiché Dio l’ha attuata per noi, loro figli, risuscitando Gesù, come anche sta scritto nel salmo secondo: “Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato”. E che Dio lo ha risuscitato dai morti, in modo che mai più abbia a tornare alla corruzione, è quanto ha dichiarato: “Darò a voi le cose sante promesse a Davide, quelle sicure”. Per questo anche in altro luogo dice: “Non permetterai che il suo santo subisca la corruzione". Ora Davide, dopo avere eseguito il volere di Dio nella sua generazione, morì e fu unito ai suoi padri e subì la corruzione. Ma colui che Dio ha risuscitato non ha subito la corruzione. » (At, 13,32-37). Questa insistenza paolina sulla carne incorrotta del Crocifisso è nella linea di tutta la predicazione primitiva, a cominciare dal primo discorso missionario pubblico in assoluto, quello di Pietro a Gerusalemme, nel giorno di Pentecoste, subito dopo la discesa dello Spirito: «Poiché (Davide) era profeta e sapeva che Dio gli aveva giurato solennemente di far sedere sul suo trono un suo discendente, previde la risurrezione di Cristo e ne parlò: “Questi non fu abbandonato negli inferi, né la sua carne vide corruzione". Questo Gesù Dio lo ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni...» (At, 2,30 ss.). In questa insistenza sulla “non corruzione” del corpo del Messia, in questo continuo ritornare sul fatto che il Crocifisso è uscito dal sepolcro non soltanto in spirito e che la sua carne non vi è imputridita, c’è forse l’influenza dell’antica profezia ebraica? I “dettagli” così concreti, a cominciare dai pasti - destinati a provare che Gesù non era ritornato dalla morte come fantasma, ma come corpo sensibile, palpabile, fatto di carne ed ossa - derivano forse dalla “necessità apologetica”, come sostiene accanto a “increduli” e protestanti liberali, anche un esegeta cattolico come il domenicano padre Boismard? A questo tipo di sospetti abbiamo già dato qualche risposta in un capitolo precedente e vi ritorneremo di certo sopra, dando nuove precisazioni, nello sviluppo del nostro discorso. Ma qui, per il momento, non ci interessa la verità storica, la credibilità cronistica di ciò che la comunità apostolica afferma sulla risurrezione. Qui, è in discussione ciò che la stessa comunità crede e vuol farci credere sulla “qualità” di quella Risurrezione, sulla sua modalità, sulla sua natura. Ebbene: i vangeli, il Nuovo Testamento tutto intero, vogliono convincerci (insistendo ora sul cibo, ora sulla carne che non ha conosciuto la corruzione, ora sul “toccare” e “palpare”) che l’esperienza pasquale - protratta peraltro per ben quaranta giorni e terminata, guarda caso, «mentre si trovava a tavola con essi», At, 1,4 - non è stata affatto soggettiva, interiore, spirituale. Ma, al contrario, ben “palpabile”. È dunque su questa risurrezione, la sola attestata dalla Scrittura e opposta alle teorie di certa attuale esegesi (che, in realtà, sembra più una filosofia, se non un’ideologia, che maneggia i testi biblici per sostenere la sua tesi) è su questa risurrezione “tangibile” che ci confrontiamo in queste pagine, per vedere di saggiarne la consistenza anche storica. E lo facciamo consapevoli, certo, che tutta la fede è mistero; e che il più misterioso dei misteri è questo centro, è questa base che il greco del Nuovo Testamento chiama anàstasis, cioè, letteralmente: “il levarsi” (dai morti). Ma consapevoli anche che non è affatto blasfemo lo sforzarsi di giungere sino alle soglie di quel Mistero. Cioè, sino a dove la ragione esaurisce le sue possibilità e inizia il “salto” della fede. Blasfemo, semmai, sarebbe il credente che rifiutasse ciò di cui i testi della Chiesa nascente vogliono convincerci; il rifiutare, dunque, non solo la verità, ma anche la fisicità dell’incontro di Pasqua. Blasfemo sarebbe tentare di imporre i nostri schemi, i nostri limiti a un Dio che è semper major, sempre più grande di quanto i nostri intelletti possano concepire. Crediamo, comunque, che nessun credente abbia mai perso il sonno, né tanto meno la fede, per quei problemi che invece (stando a certi teologi) impedirebbero che l’uomo moderno accetti il concetto “ingenuamente materialista” di risurrezione, così come era creduto “in epoche pre-scientifiche”. Il problema, ad esempio (tanto per citarne uno tratto da uno studio recente) di come il corpo glorioso del Risorto potesse assumere e assimilare fisiologicamente gli alimenti di cui è detto nutrirsi. No: non sono dei problemi di digestione del Risorto che hanno impedito la fede di tante generazioni precedenti; come non la impediscono ora a quel mitico “uomo contemporaneo”, che è spesso tanto diverso dall 'identikit tracciato da “esperti”. Come il solito Rudolf Bultmann, che la buttò addirittura in politica, sostenendo che «il togliere la Risurrezione di Gesù dalla soggettività, per insistere sul carattere oggettivo delle apparizioni», sarebbe nientemeno che «da conservatori». “Conservatori” sarebbero allora tutti gli autori del Nuovo Te-stamento, che non sono affatto d’accordo con la lettura di questi esperti tedeschi. Quanto a noi, non ci preme rispettare le teorie degli accademici ma il modo - per quanto enigmatico sia - con cui Dio stesso ha scelto di incarnarsi e di risorgere. E, se proprio si vuol mettere anche questo sul piano politico, con tipica deformazione moderna, ci pare non “conservatrice” ma “rivoluzionaria” - e in modo dirompente - la fede di tutte le generazioni cristiane, secondo la quale «nulla è impossibile a Dio». Proprio su simili problemi - riferendone sulle pagine di Inchiesta sul cristianesimo - parlammo una volta con Hans Küng. Anche per questo teologo (che ha pure precise conoscenze di biblista) lo sforzo maggiore sembra consistere nel ridurre al massimo, nella storia di Gesù, il “miracoloso”, inteso - in quella prospettiva illuministica a lui non estranea - come «tutto ciò che la scienza di oggi non ha spiegato». Gli chiesi, tra l’altro: «Perché - data per scontata quella fede in Dio, e nel Dio cristiano, che malgrado tutto lei riconferma - perché questo voler porgli dei limiti che noi stessi abbiamo stabiliti? Non è ancora una volta il tentativo di racchiudere l’onnipotenza divina nelle gabbie rassicuranti delle nostre teologie? Perché questo volere “demitizzare” a ogni costo il miracolo, che è poi “lo scandalo e la follia per la sapienza del mondo” che mirabilmente contrassegna il Dio biblico? Perché tanto darsi da fare per dimostrare meri “simboli” i miracoli narrati nei vangeli, a cominciare da quello su cui tutta la fede si basa, la Risurrezione fisica? Tutto deve davvero sfumare in complicate distinzioni e precauzioni che lascino il lettore privo delle sue certezze precedenti, ma al contempo senza nuovi e sicuri punti di appiglio?». Forse per la stanchezza, forse per il tedio di domande come queste mie, che dovevano sembrargli ingenue, anacronistiche, non abbastanza “raffinate” (il suo decalogo di teologo porta al secondo punto: «Nessuna premiazione della fede semplice»), forse per altro; sta di fatto che la risposta del professor Kiing suonò infastidita: «Dio è il primo a rispettare le sue leggi; per essere credibile non ha bisogno di argomenti ridicoli». «Ridicola, dunque» ripresi «anche la fede di tutti i secoli cristiani nella Risurrezione e Ascensione fisiche del Cristo?». Il prete tagliò corto: «Chi vuole conservare il miracoloso nella Scrittura deve portare validi argomenti per provarlo». La risposta non mi dissolse, ma mi rafforzò i sospetti di “illu-minismo”; magari di “ellenismo”; e ciò proprio all’opposto delle dichiarazioni di Küng, uno tra i tanti alfieri attuali della “de-el- lenizzazione” del cristianesimo a favore della riscoperta delle radici ebraiche. In effetti, è per i greci che il mondo è sottomesso a una legge,, a un Fato cui neppure Zeus può sfuggire. E solo per il pensiero ebraico che Dio non è prigioniero del Logos pagano, questa “ragione del mondo”, contro la quale né uomo né divinità possono nulla. Per il pensiero ellenico, un Dio come quello ebraico è “pazzo”; un aggettivo che accetterà anche Paolo, aggiungendo però subito che «la follia di Dio è più sapiente della ragione degli uomini». É proprio il Logos, la “legge” senza scampo del mondo greco, che ha portato a quell’idolo che è il cosiddetto “pensiero scientifico” dell’illuminismo e del positivismo. Quello che ci soffoca in un mondo implacabilmente senza speranza, perché ogni “sorpresa” è dichiarata impossibile; rendendoci così prigionieri di “leggi” fisiche e chimiche che sono come sbarre alla finestra di una galera. Che anche Küng fosse vittima dell’antica trappola greca? Cercai di dirglielo, con prudenza, ben conoscendo - per esperienza - le reazioni allarmanti di certi “alfieri del dialogo” quando non si dà loro ragione. Mi andò bene, perché me la cavai con un’accusa di “Medioevo”, cioè di “oscurantismo clericale”. Sbottò, in effetti: «Quelli che fanno domande come le sue, studino, si aggiornino, imparino quel che dice la scienza moderna: le leggi dell’universo non possono essere interrotte neppure per un istante, pena il crollo di tutto il sistema». La prigione, appunto. In quel momento pensai - e con gratitudine - a quell’antica preghiera ebraica, una delle più straordinarie della storia religiosa degli uomini, che dice: «Ti ringrazio o Dio, perché Tu vuoi anche ciò che è proibito». Ciò che è proibito dai nostri schemi, dai nostri limiti scambiati per “leggi intoccabili della Scienza”; con la maiuscola, s’intende. Ma il professore di “teologia ecumenica” all’Università di Tubinga continuò: «Quanto alla Risurrezione, posso credere nella vita eterna di Gesù e mia senza vedere una tomba vuota». Ma insomma - sbottai a mia volta - è esistita una tomba di Giuseppe di Arimatea o di chiunque altro? E se c’è stata una tomba (come egli stesso, Küng, inclina a credere, pur tra i mille distinguo consueti), se c’è stata, davvero non fa alcuna differenza per la fede che il corpo del Crocifisso si sia levato da lì per sempre o che per sempre vi sia marcito? Le mie domande - ero il primo a rendermene conto - tendevano troppo al “semplice”, non erano abbastanza da “studioso aggiornato” e infatti non meritarono risposta esplicita, ma soltanto un: «Io lavoro per rendere comprensibile il messaggio cristiano all’uomo contemporaneo». È quanto, nei nostri limiti, cerchiamo di fare anche noi. Consapevoli però che è proprio la fedeltà alla Scrittura che esige da noi lo sforzo per riannunciare la Risurrezione (e nel suo senso “pieno”, anche “corporeo”) all’uomo di ogni generazione. Anche di queste nostre, cosiddette post-moderne. Ad maiora
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