CITAZIONE (a_ntv @ 14/9/2009, 22:38)
Il rifiuto di Gesù non è probabilmente un detto autentico, ma è stato messo in bocca a Gesù nella seconda metà del primo secolo, come critica verso il gruppo di Giacomo da parte degli altri gruppi. Attaccavano Giacomo (o il suo gruppo), ma non potevano anche attaccare Pietro, il quale peraltro lasciò presto Gerusalemme (e c'è chi sospetta che la causa di tale fuga furono attriti con Giacomo).
L'episodio è presente in tutti e tre i sinottici (e in Tommaso), ma con durezze diverse: meno duro in Tommaso e Marco, molto duro in Matteo. E il Vangelo di Matteo si rivolgeva proprio a ebrei o simpatizzanti che potevano essere più esposti alla dottrina dei "fratelli".
Ciao!
Io non credo che sia così semplice negare la storicità di una tradizione come Mc 3,31-35 // Mt 12,46-50 // Ev. Th. 99.
Anzitutto, bisogna considerare che Mc 3,31-35 costituiva un'unità con Mc 3,21 (dove si dice che i familiari di Gesù lo andarono a prendere perché era fuori di sé), in seguito inframmezzata, vista l'evidente affinità, dalla controversia su Beelzebul in Mc 3,22-30.
Ora, cosa ne facciamo di questa notizia secondo cui i familiari di Gesù volevano andare a prendere Gesù perché lo credevano impazzito? Non c'è bisogno di sottolineare come questa sia un'accusa della massima gravità concepibile.
Naturalmente mi potrai replicare che pure essa va evidentemente collocata nella polemica contro il gruppo di Giacomo di cui parli. E' possibile. Bisogna ricordarsi che è del tutto possibile che tradizioni che oggi risultano imbarazzanti ai nostri occhi, possano essersi originate in contesti particolari nei quali non destavano alcun particolare imbarazzo: e nel caso in questione, si potrebbe pensare che il peso dell'inaudita infamia ricada tutto sul bersaglio polemico (il gruppo di Giacomo).
D'altra parte, però, dobbiamo pure domandarci: se il criterio dell'imbarazzo non funziona qui, dove altro mai può funzionare?
Ma, a mio avviso, non è tanto questa la ragione più decisiva per la storicità del rifiuto (o contro-rifiuto...) gesuano dei suoi fratelli, quanto piuttosto una ragione di coerenza: la frattura che Mc 3,21.31-35 testimonia a proposito del rapporto tra Gesù e la sua famiglia d'origine concorda infatti in modo perfetto con altri detti in cui Gesù assume il distacco radicale dalla famiglia come condizione o esito inevitabile della sua sequela: cfr. Lc [Q] 12,51-53 // Mt 10,35) // Ev. Th. 16 [figlio contro padre, figlia contro madre]; Lc [Q] 14,26 // Mt 10,37 // Ev. Th. 55 e 101 (odiare padre e madre, figlio e figlia). Vedi inoltre il detto più elaborato in Mc 10,29-30 (chi ha lasciato casa, famiglia e campi, ne riceve il centuplo nel presente).
Ora, alla luce di questa caratteristica concezione gesuana del discepolato come fonte di tensione, contrasto e distacco con le famiglie d'appartenenza (concezione che credo pochi negherebbero a Gesù), mi sembra che non vi sia alcuna ragione di negare la storicità del suo personale conflitto con la propria famiglia: Gesù sembra presentare
ai discepoli quel medesimo violento distacco dal nucleo domestico che egli per primo ha vissuto, per dedicarsi all'annuncio del regno di Dio.
Si noti inoltre che il motivo del "discepolo come il maestro" è molto diffuso nella tradizione sinottica: dal detto "il discepolo non è più del maestro" (Q 6,40), al prospetto di bere lo stesso calice e ricevere lo stesso battesimo (Mc 10,39); oltre, più in generale, al partecipare attivamente all'attività di annuncio del regno ed esorcistica di Gesù. Tutte cose che, mi sembra, depongano più a favore di un Gesù che richiedesse/prospettasse quel distacco/conflitto con le famiglie che lui per primo aveva sperimentato, piuttosto che di un Gesù che chiede agli altri ciò che non vale affatto per lui.
Di conseguenza, l'obiezione rivolta da Hard alla tua interpretazione di "fratelli", mi sembra conservi la sua forza.
A questo riguardo, aggiungerei anche che forse non è molto appropriato istituire un parallelo terminologico-simbolico tra una tradizione narrativa come Mc 3,22.31-35 (un apoftegma, o chreia) e un genere letterario estremamente particolare come un'apocalisse (e a fortiori uno scritto gnosticheggiante).