CITAZIONE (JohannesWeiss @ 15/9/2009, 14:39)
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Ma, a mio avviso, non è tanto questa la ragione più decisiva per la storicità del rifiuto (o contro-rifiuto...) gesuano dei suoi fratelli, quanto piuttosto una ragione di coerenza: la frattura che Mc 3,21.31-35 testimonia a proposito del rapporto tra Gesù e la sua famiglia d'origine concorda infatti in modo perfetto con altri detti in cui Gesù assume il distacco radicale dalla famiglia come condizione o esito inevitabile della sua sequela: cfr. Lc [Q] 12,51-53 // Mt 10,35) // Ev. Th. 16 [figlio contro padre, figlia contro madre]; Lc [Q] 14,26 // Mt 10,37 // Ev. Th. 55 e 101 (odiare padre e madre, figlio e figlia). Vedi inoltre il detto più elaborato in Mc 10,29-30 (chi ha lasciato casa, famiglia e campi, ne riceve il centuplo nel presente).
Ora, alla luce di questa caratteristica concezione gesuana del discepolato come fonte di tensione, contrasto e distacco con le famiglie d'appartenenza (concezione che credo pochi negherebbero a Gesù), mi sembra che non vi sia alcuna ragione di negare la storicità del suo personale conflitto con la propria famiglia: Gesù sembra presentare
ai discepoli quel medesimo violento distacco dal nucleo domestico che egli per primo ha vissuto, per dedicarsi all'annuncio del regno di Dio.
Si noti inoltre che il motivo del "discepolo come il maestro" è molto diffuso nella tradizione sinottica: dal detto "il discepolo non è più del maestro" (Q 6,40), al prospetto di bere lo stesso calice e ricevere lo stesso battesimo (Mc 10,39); oltre, più in generale, al partecipare attivamente all'attività di annuncio del regno ed esorcistica di Gesù. Tutte cose che, mi sembra, depongano più a favore di un Gesù che richiedesse/prospettasse quel distacco/conflitto con le famiglie che lui per primo aveva sperimentato, piuttosto che di un Gesù che chiede agli altri ciò che non vale affatto per lui.
Di conseguenza, l'obiezione rivolta da Hard alla tua interpretazione di "fratelli", mi sembra conservi la sua forza.
A questo riguardo, aggiungerei anche che forse non è molto appropriato istituire un parallelo terminologico-simbolico tra una tradizione narrativa come Mc 3,22.31-35 (un apoftegma, o chreia) e un genere letterario estremamente particolare come un'apocalisse (e a fortiori uno scritto gnosticheggiante).
Premetto che il leggere Mc 3,31-35 // Mt 12,46-50 // Ev. Th. 99 come critica al gruppo "di Giacomo" non è farina del mio sacco, ma l'ho letta dal bel testo di Pierre-antoine Bernhem "Giacomo fratello di Gesù" Genova 1996 pag 88ss, che tra l'altro fa notare come quest'episodio da Marco sia posto dopo i miracoli, la costituzione dei dodici (3:16), proprio a rimarcare la differenza.
E i "fratelli" sono messi in parallelo con gli scribi che accusano Gesù di essere posseduto da Belzebù ...chissà se la condanna Gesù degli scribi (bestemmia contro lo Spirito che non sarà loro perdonata) può riferirsi anche ai "fratelli", visto che i "fratelli" fanno un'accusa del tutto analoga (essere "fuori di senno" che all'epoca poteva voler dire essere posseduto).
Tanta critica verso i "fratelli" di Gesù (peraltro condivisa anche da Giovanni, es 7:5) non può essere causale, e deve essere spiegata in quanto altrimenti "innaturale". Non è credibile che sia capitata per caso semplicemente come riformulazione della necessità del distacco: ok che i Vangeli sono un'insieme di detti, ma il redattore finale avrà ben riletto il testo...
Il paragone con Lc 12,51-53 - Lc 14,26 - Mc 10,29-30 evidenzia che in questi brani l'evento salvifico è proprio lasciare tutto per seguire Gesù. Ovvero che per seguire Gesù è necessaria una rottura netta. Ed è quindi probabile che siano detti veramente usciti dalla bocca di Gesù, che poteva di persona chiedere una scelta assolutamente radicale. La radicalità della scelta ci può far orientare verso un detto originale.
Invece in Mc 3,31-35 // Mt 12,46-50 // Ev. Th. 99 l'alternativa ad essere "fratelli" è assolutamente meno radicale: "chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre": mi ricorda la prima delle vie della Didaché: una proposta soteriologica che più si adatta alla seconda metà del primo secolo.
Non ho detto che i vangeli facciano uso di linguaggio apocalittico: ho proposto che essi abbiano usato il termine "fratelli" in quanto così si auto-definivano quelli del gruppo di Giacomo (es lettera di Giuda), e che così erano noti tra i primi cristiani.
Che poi l'apocalisse sia un "genere letterario estremamente particolare" è un'affermazione un po' esagerata, visto che il genere apocalittico è assolutamente comune (per non dire maggioritario) nel periodo sia in ambito ebraico sia in quello cristiano. Sono testi come i "vangeli", se visti nell'insieme della letteratura di matrice ebraica dell'epoca, che rappresentano un'eccezione letteraria.