CITAZIONE (JohannesWeiss @ 26/1/2012, 01:34)
Way, anzitutto...
Caro JW, eccomi, seppur in ritardo, cosa di cui mi scuso, a tentare un abbozzo di risposta alle tue argomentazioni davvero ben elaborate ed esposte, ma del resto non mi aspetto nulla di meno da te. Devo dire tuttavia che in fondo mi lasciano un pochino perplesso, il che mi costringe a fare un passo indietro e provare a impostare come prima cosa alcuni capisaldi generali e metodologici, così che questo mia risposta sarà suddivisa in due parti. Non so tuttavia se riuscirò a includere ambedue queste parti o se dovrò differire la seconda parte per motivi di mancanza di tempo.
La questione oggetto di questa discussione mi sembra si divida in due: a) esiste ed è individuabile una "eccedenza" di Gesù rispetto al giudaismo al lui coevo? b) è questa eventuale eccedenza a determinare o quantomeno indirizzare la nascita delle prime comunità cristiane e di una cristologia che potremmo definire prima media (messianicità) e poi alta (divinità o comunque condivisione di attributi divini)? Oppure tale processo avviene totalmente o quasi totalmente a prescindere dagli insegnamenti e dall'operato del maestro di Galilea?
La seconda parte è in qualche modo conseguenza della prima e di come essa viene impostata. E allora vediamo impostarla in maniera a mio avviso più precisa, cominciando a problematizzare la definizione di cultura giudaica e di giudaismo. Se il termine cultura è creazione dell'illuminismo tedesco, in particolare di Herder, così che esso appare come una imposizione del tutto moderna, con una serie di precomprensioni che di fatto distorcono la prospettiva sino a rendere inutilizzabile in maniera non ambigua tale lemma, con il termine giudaismo, ma anche ebraismo, che invece troviamo già nel secondo libro dei Maccabei, in realtà non siamo messi molto meglio. Qual'è infatti la definizione di giudaismo applicabile alla prima metà del I secolo d.C.? Quali sono i suoi elementi caratteristici e imprescindibili, che cosa ne fa parte e cosa no? Quali sono insomma suoi limiti? L'importanza di riuscire a fare una simile operazione risulta immediatamente evidente: non è possibile prospettare univocamente l'appartenenza di qualcosa a qualcos'altro se non si è in grado di definire, ovvero delimitare, questo qualcos'altro. Diviene un'operazione puramente verbale e assai poco descrittiva di contenuti. Orbene, definire il giudaismo non è affatto semplice e mi sembra che tutt'ora sia una questione aperta, che ha visto proposte diverse soluzioni, da quella del Sanders a quella di Dunn, da Casey a Stegemann, tutte a mio avviso insoddisfacenti, questo perchè non esiste, sempre a mio modestissimo avviso, un common judaism, se non esprimibile in termini molto vaghi e quindi relativamente inutili ai fini della nostra questione:
"Jewish identity in antiquity was elusive and uncertain for two simple reasons. First, there was no single or simple definition of Jew in antiquity... . Second, there were few mechanisms in antiquity that would have provided empirical or 'objective' criteria by which to determine who was 'really' a Jew and who was not. Jewishness was a subjective identity, constructed by the individual..., other Jews, other gentiles, and the state"
(S. COHEN:
The Beginnings of Jewishness. Boundaries, Varieties, Uncertainties; University of California Press 1999, p. 3)
La difficoltà a stabilire un'identità ebraica ha come diretta conseguenza la difficoltà a stabilire un giudaismo in quanto tale: ambedue infatti sono costruzioni immaginarie a cui si cerca di dare una pratica, sono percezioni o al massimo convenzioni sociali, sempre mobili peraltro, piuttosto che evidenze fattuali.
Chi è dentro e chi è fuori allora è una questione che dipende dai parametri, del tutto variabili e arbitrari che uno decide di adottare, allora come oggi:
"As much recent scholarship has shown, the question of who is a Jew and how one maintains Jewishness in antiquity is not a simple issue. There were some in antiquity who spoke as if Jewishness was a clearly definable entity. Such statements, however, were ideological pronouncements designed to enforce particular ideas about identity; they were not reflections of the reality on the ground, which remained complex, vague, and strongly debated. A wide range of practices, associations, beliefs, and social and ethnic groupings could factor into the claim that one did or did not maintain Jewish identity"
(E.K. BROADHEAD:
Jewish Ways of Following Jesus. Redrawing the Religious Map of Antiquity; Mohr Siebeck 2010, p. 57)
Non è infatti un caso che noi registriamo una serie relativamente vasta di giudaismi spesso in competizione fra loro, che continuamente si rinfacciano la fedeltà o meno a un presunta quanto evanescente originaria giudaità (aaaargh!), che assumono posizioni teologiche assai variegate coprendo posizioni assai differenti e difficilmente compatibili e riducibili a un'unità. Insoma è uno scenario variegato e mobile, quello del giudaismo del primo seoclo, che si rifiuta di farsi ingabbiare in definizioni tipologiche. In questa situazione allora, non solo l'affermazione che Gesù appartiene totalmente alla cultura ebraica o al giudaismo del suo tempo diviene semplicemente una formula dai contenuti molto vaghi, ma sorge il problema inverso: che cosa significa essere eccedenti il giudaismo? Che cosa doveva fare o dire Gesù per essere eccedente rispetto a una compagine così variegata di diverse credenze? E' ovvio che più un insieme diviene vago e dai limiti indefiniti più diviene difficile parlare di una estraneità di una sua presunta parte, giacchè dovunque la si collochi tali limiti indefiniti diventano conglobanti. Eppure dobbiamo rispondere a questa domanda per dare un senso alla nostra discussione.
Credo allora che l'unico modo che avesse Gesù per eccedere il giudaismo a lui coevo, per andare oltre una mera ebraicità nullificante, era o di andare in giro dichiarandosi figlio di Giove Ammone e Nut, venuto a spezzare la ruota del karma per le anime reincarnate attraverso l'anticipazione del Ragnarok, ma la vedo difficile, oppure di elaborare una visione personale del giudaismo e del suo personale ruolo all'interno di esso attraverso una personale coniugazione di singoli elementi appartenenti all'immaginario e alla tradizione giudaici. Allora il termine eccedenza va inteso non come rottura radicale che colloca Gesù in una atemporalità aculturale e antistorica ma come originalità, come volontà di riformare più o meno radicalmente la società e la pratica devozionale del suo tempo. Tuttavia ai fini della nostra discussione bisogna tenere ben presente che una riforma è sempre una forma di rifondazione e tale rifondazione in realtà è sempre un superamento delle forme esistenti giacchè un ritorno sic et simpliciter a una immaginaria purezza delle origini è storicamente impossibile e priva di senso. Imporre o proporre una nuova visione dei rapporti sociali e cultuali all'interno del giudaismo, seppur in ambito escatologico, significava di fatto trascenderlo per farlo diventare qualcosa d'altro, qualcosa che si può pur sempre chiamare giudaismo, tra l'altro proprio a causa di quei contorni vaghi di cui sopra, ma che è qualcosa di diverso rispetto al punto di partenza originario. Vi è insomma una traslazione tra ciò che è prima e ciò che è o sarà dopo. Del resto le religioni non sono fisse, esse mutano costantemente anche quando si richiamano a tradizioni antiche:
“Rather than seeing religion as a static and strictly conservative force, we should see it as a dynamic and basically adaptive one. The dynamics of religion, as of all culture, may reproduce the ideas, moods, relationships, and institutions that produced it. However, for various reasons, religion is often unable or unwilling to do so. Contact with or outside interference from another society or religion may make it impossible or undesirable to reproduce the old systems. Changing social, technical, or even environmental circumstances may alter the practices, and the simple passing of generations may bring new ideas or new interpretations of old ideas… Even “traditional” religions were dynamic, and we cannot take any particular moment of such religions as the “true” or “traditional” one... In religion specifically and culture generally, the two most basic change processes are innovation and diffusion. In the former, an individual or group within the society invents or discovers some new idea, object, or practice—in the case of religion, a new entity to believe in, a new myth to tell, a new symbol to use, a new ritual to perform, etc. In the latter, an idea, object, or practice from another society is introduced into the first society, which entails further cultural processes such as contact, migration, intermarriage, invasion, or conquest. Whichever is the ultimate source of novelty, the course of change only begins with the appearance of the new item, as we will see below. We can be considerably more precise about the forms and outcomes of religious and cultural change. The result may be addition of an item to the preexisting repertoire. Evans-Pritchard comments, for instance, that several aspects of Nuer religion appeared to come from outside Nuer society, specifically from their Dinka neighbors. The kwoth nhial or “spirits of the air,” according to informants, “had all ‘fallen’ into foreign lands and had only recently entered into Nuerland and become known to them” (Evans-Pritchard 1956: 29). Beliefs about totems, nature sprites, and fetishes were also often attributed to the Dinka. Conversely, deletion may occur when an item is dropped from the repertoire, as when a society stops performing a certain ritual. Often, a reinterpretation of previous beliefs and practices takes place, with old forms given new meaning; this can occur due to changing social circumstances and experiences or the mere passing of the generations, new members bringing new perspectives. Other outcomes, or perhaps versions of the reinterpretation, include elaboration, in which a preexisting notion or practice is extended and developed, sometimes in quite unprecedented directions; simplification, in which a preexisting notion or practice is trimmed of detail or sophistication; and purification, in which members attempt to purge (from their point of view) false or foreign elements and to return to the “real” or “pure” form”.
(J.D. ELLER:
Introducing Anthropology of Religion. Culture to the Ultimate; Routledge 2007, p. 161-162)
Ancora una volta allora ripropongo il caso di Lutero, che mi sembra significativo in questo ambito, per chiarire ulteriormente la mia posizione. E' discutibile che Lutero volesse abolire il cattolicesimo, molto più probabilmente egli desiderava riformarlo e riportarlo allo stato di grazia (peraltro del tutto immaginario) del periodo apostolico, quando l'idolatria e l'apostasia non erano ancora entrati nel corpo ecclesiale. Non vi è dubbio che Lutero fosse un cattolico di area tedesca e come tale ne avesse assorbito la cultura e gli immaginari. E tuttavia questa sua azione, che per certi versi è del tutto cattolica, ha avuto effetti dirompenti finendo per polarizzare la comunità cristiana dell'epoca attorno alla sua figura e finendo per porlo al di fuori della cattolicità, al di là delle sue effettive intenzioni e di quello che aveva scritto nelle sue Tesi, molte delle quali peraltro erano sottoscrivibili all'epoca così come oggi da parte cattolica. Tuttavia egli fu percepito quasi subito come un eretico, un corpo estraneo irriducibile alla cattolicità, sebbene la distanza che in quegli anni separava un protestante da un cattolico era probabilmente minore di quella che separava un esseno da un sadduceo. Allo stesso modo Gesù, pur muovendosi all'interno degli immaginari giudaici dell'epoca, finì, in realtà probabilmente abbastanza presto, per essere considerato un corpo estraneo da alcuni gruppi e fazioni non marginali, che sentivano lui e la sua predicazione come incompatibili e irriducibili alla loro interpretazione di cosa fosse giudaico e lecito, ma su questo tornerò nella seconda parte della mia esposizione. E' sufficiente per adesso, mi sembra, aver tratteggiato questa analogia situazionale per chiarificare cosa si debba intendere per eccedenza di Gesù rispetto al giudaismo del suo tempo. Sempre nella seconda parte cercherò di riempire di contenuti questa “eccedenza”.
Quanto esposto sinora non è l'unico problema nella pretesa di un Gesù totalmente immerso nel giudaismo del suo tempo. Un altro problema deriva dal metodo utilizzato per giungere ad una simile conclusione. Tale metodo è, e mi sembra evidente, un metodo comparativo, cioè un metodo che mette a confronto quanto si ritiene sia gesuano con quanto si individua come giudaico. E sino a qui va bene, un'appartenenza culturale, sociale ecc. si individua appunto tramite una comparazione dei dati in nostro possesso. Tuttavia la questione gesuana appartiene all'ambito generale della Religionswissenschaft, la scienza o storia delle religioni, che sin da subito ha usato il metodo comparativo (cf. E.J. SHARPE: Comparative Religion. A History; 2a ed., Duckworth 2009) ma si è anche dovuta confrontare con le problematicità di tale metodo (cf G.FILORAMO:
Comparativismo e storia delle religioni. Un rapporto difficile; Humanitas 52 (1997), Vol. 2, pp. 510-527), in particolare il rischio della creazione del tutto arbitraria di identità, la confusione tra i livelli di realtà e tra il piano fenomenologico e quello reale, nonchè il rischio di una astrazione fine a se stessa attraverso la creazione di modelli tipologici che non trovano corrispondenza nei dati culturali e storici effettivi, tanto che la critica contemporanea e soprattutto postmodernista, allergica a ogni metanarrativa essenzialista, ha destrutturato il comparativismo positivista e tipologico, così come quello fenomenologico, mettendolo in crisi, destrutturazione che si racchiude nella celebra frase di Jonathan Z. Smith: "in comparison a magic dwells" (J.Z. SMITH:
Imagining Religion. From Babylon to Jonestown; University of Chicago Press 1982, pp. 19-35; ristampato come J.Z. SMITH:
In comparison a magic dwells in K.C. PATTON, B.C. RAY (eds):
A Magic Still Dwells. Comparative Religion in the Postmodern Age; University of California Press 2000, pp. 23-44), a indicare che la comparazione è sempre un atto creativo nell’istaurazione di rapporti e analogie. Lo stesso Smith peraltro non è giunto al rifiuto totale della comparazione ma piuttosto a una sua formulazione più estesa all’interno di una teoria storico-culturale e cognitiva della religione nella quale le differenze tra gli oggetti comparati risultano parimenti se non più significanti delle analogie:
“it is the category of the different that marks [a theoretical] advance”
(J.Z. SMITH:
The End of Comparison in K.C. PATTON, B.C. RAY (eds):
A Magic Still Dwells. Comparative Religion in the Postmodern Age; University of California Press 2000, p. 240).
E ancora:
“It is axiomatic that comparison is never a matter of identity. Comparison requires the acceptance of difference as the grounds of its being interesting, and a methodical manipulation of that difference to achieve some stated cognitive end. The questions of comparison are questions of judgment with respect to difference: What differences are to be maintained in the interests of comparative inquiry? What differences can be defensibly relaxed and relativized in light of the intellectual tasks at hand?”
(J.Z. SMITH:
To Take Place. Toward Theory in Ritual; CSHJ, University of Chicago Press 1987, pp. 13–14)
Inutile dire quanto importante sia stata la riflessione metodologica di Smith nel campo della storia delle religioni e come essa sia un dato generalmente acquisito e condiviso:
“In una prospettiva storica , infatti, l’oggetto della ricerca non è l’elemento generale, ciò che è comune a tutti, bensì l’elemento particolare, la diversità, il fatto incomparabile. Il comparativismo storico trova la sua funzione precisamente nella valutazione di questi fatti incomparabili. Il modello fenomenologico (nel nostro caso il giudaismo – N.d.W.), astratto, viene utilizzato nel comparativismo storico come pietra di paragone per identificare, in una cultura, ciò che differisce dal modello stesso. Questo elemento, difforme rispetto al modello, diviene, proprio in virtù della sua difformità e particolarità l’oggetto della ricerca storica. Il modello fenomenologico vale pertanto come ipotesi di ricerca, come punto di partenza per orientare la ricerca storica nella ricerca delle particolarità… […]… La tipologia… è dunque solo il punto di partenza, e lo scopo della ricerca storica è proprio quello di scovare quanto sia irriducibile alla tipologia stessa, di vanificare ogni tipologia. La storicizzazione, secondo il metodo del comparativismo storico, contiene e presuppone un confronto tra fatti apparentemente simili. Ma ogni confronto è fatto in direzione di una storicizzazione ancora più spinta. In questo lavoro il comparativismo storico ha una funzione critica devastante sulle vecchie oggettivazioni e categorizzazione della fenomenologia religiosa…”
(M. MENICOCCI:
Antropologia delle religioni. Introduzione alla storia culturale delle religioni; Altravista 2008, pp. 21-23)
Mi permetto allora di concludere con le parole del Filoramo precedentemente citato, poiché a mio avviso particolarmente significative per il caso che stiamo esaminando:
“La comparazione, anche quella storico-religiosa, è per definizione, come si ricordava all’inizio, una medaglia a due facce; per avere, di conseguenza, realmente corso, essa deve essere assunta nella sua complessità di confronto che mira a mettere in luce somiglianze
e, nel contempo, differenze: dove quell’ ‘
e’, appunto, non disgiunge ma congiunge i due momenti del procedimento cognitivo”.
(FILORAMO: art. cit., p. 516)
Riportando il tutto alla questione di un Gesù totalmente immerso nel giudaismo del suo tempo, si evince chiaramente che non solo non è possibile darsi una semplice identità come quella proposta, ma che proprio la ricerca e l’individuazione dell’eccedenza, della particolarità di Gesù è momento costitutivo del processo comparativo e quindi dell’indagine storica se essa vuole essere veramente esaustiva senza adagiarsi su modelli tanto astratti quanto precostituiti e in definitiva inutili a definire e illustrare effettivamente il fenomeno. Si da dunque come necessità stessa dell’analisi storica una diversità, una particolarità, una eccedenza di Gesù rispetto all’ambiente circostante. Il fatto che per noi questa particolarità sia di difficile individuazione non significa che essa non esista soprattutto che non vada presupposta e ricercata. Insomma, abbiamo trovato, ed è buona cosa, il Gesù ebreo, ma abbiamo perso il Gesù persona.
Pur essendomi dilungato sin troppo, e chiedo scusa di questo, mi preme aggiungere un altro paio di punti a questa mia prima parte.
Il primo è relativo al come la storia, gli eventi e il loro significato, viene trasmessa, recepita e rielaborata. Tu infatti mi ricordavi che “la memoria sociale è creativa oltre che conservativa”. Inutile dire che concordo, cosa del resto che mi sembrava evidente già nel mio intervento. Non è mia intenzione fare un trattato di metodologia storica, tuttavia voglio precisare che questa creatività, nei processi relativamente controllati come quelli che avvengono nelle società orali, non è una mina vagante ma segue delle preimpostazioni e dei binari così che è possibile rintracciare una continuità non solo negli avvenimenti ma anche e soprattutto nelle interpretazioni, giacchè, come ricorda il Pareyson in Verità e interpretazione, non esiste conoscenza senza interpretazione e dunque non si ha accesso a nessuna realtà storica, noi o gli evangelisti non fa differenza, se non attraverso qualche forma di interpretazione. Se questo è vero allora l’interpretazione degli evangelisti rimanda al Gesù della storia, la loro teologia non ce lo nasconde ma allo stesso tempo da una parte lo vela e dall’altra lo rivela, sia nella scelta di cosa tramandare sia nel modo che nella forma:
“Contemporary historians recognize that the gospel writers theologize events, that they construe Jesus typologically, and that they interpret the events in his life in terms of this scriptural text or that jewish theologoumenon. None of this, however, entails that we cannot learn about Jesus of Nazareth from them. Within an ancient Jewish context, memories of Jesus had to be theologized, construed typologically, and interpreted in the light of religious tradition. Otherwise he would have been forgotten. Thus typology is not just a literary device but a strategy of memory. Beyond that, Jesus and those who knew him must also, whiie he was yet alive, have construed his ministry within a religious narrative framework, which surely ups the odds that many of the interpretive strategies of the post-Easter period go back to the pre-Easter period”
(D.C. ALLISON:
Foreword in A. LE DONNE:
Historical Jesus. What can we know and how can we know it?; Eerdmans 2011, p. X)
Questo porta all’ultimo punto che intendo sottolineare: guardo sempre con sospetto quella Redaktionkritik per la quale tutto ciò che è teologico non è storico e che sviscerando il testo evangelico a mo’ di patologo forense pretende di individuare passi o brani autentici da separare da quelli non autentici. Io credo invece che i vangeli siano tutti autentici, giacchè sono, dall’inizio alla fine, interpretazione, e in quanto tali essi rimandano, nell’unico modo loro possibile, e per loro significativo, al Gesù della storia. I vangeli sono infatti fortemente interessati al Gesù della storia, che ovviamente essi non distinguono dal Gesù percepito, perché è nel Gesù della storia, nella persona in carne ed ossa ad esempio che le esperienze di rivelazione si mostrano vere soggettivamente e oggettivamente. Senza il Gesù della storia tali apparizioni o visioni fluttuerebbero in una atemporalità e insignificanza sconcertante sia per i “testimoni” diretti che per coloro che li ascoltavano che infine per gli agiografi. E allora risulta evidente che non sono d’accordo con te quando ad esempio sembri scartare la cacciata di Gesù da Nazareth o l’accusa di essersi fatto Dio come prodotti della teologia. Io vi vedo invece un tentativo di interpretare la situazione vissuta dalla comunità attraverso quanto accaduto al fondatore in un processo emulativo-esplicativo che è tipico dei movimenti religiosi, che leggono la propria attualità e le proprie problematiche alla luce del fondatore carismatico che ha informato la comunità. Per fare questo essi non inventano i fatti, giacchè sarebbe una rottura con l’evento madre, ma li rileggono alla luce della propria comprensione. Quando Giovannni dice che i giudei vogliono lapidare Gesù (Gv 10,33) può dirlo perché da una parte ha memoria di questo evento e dall’altra può dargli un significato poiché Giovanni “sa” che Gesù è Dio e dunque interpreta in tal senso la reazione di costoro, che è probabile da parte loro abbiano intravisto nelle parole o nelle azioni di Gesù una blasfemia da punire con la morte. Allo stesso modo ad esempio non concordo con Meier secondo il quale di Mc 7,1-23, ovvero la discussione di Gesù con i farisei sulla purità rituale, “nulla risale al Gesù storico”
(J.P. Meier: Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico. Vol. 4, Legge e amore; Queriniana 2009, p. 467), trovando molto più convincente la tesi di Crossley secondo cui Gesù non abolisce le leggi alimentari ma contesta ai farisei di accumulare divieti e proibizioni, le “tradizioni degli antichi”, con i quali si stravolge il senso della Torah dopo essersene appropriati, critica che è in linea con altre accuse di Gesù ai farisei (cf. J: CROSSLEY: The Date of Mark Gospel. Insight from the Law in Earliest Christianity; T&T Clark 2004, p. 183 e ss.).
Il fatto che gli evangelisti, ma anche Paolo, tendano a non inventare, è dimostrato anche dal fatto che in altre occasioni quando sarebbe loro stato utile si astengono dal farlo se non possono ricollegare determinate scelte e situazioni a quanto detto e fatto da Gesù: la loro discriminante sembra essere infatti proprio questa, la necessità di ancorare il presente nel passato reale o conosciuto come tale del loro maestro, come è tipico di questi movimenti. Questo è allo stesso tempo un processo conservativo, relazionale e creativo.
Infine permettimi un’ultima chiosa su questa tua frase: “Senza le esperienze di rivelazione successive quei due o tre ricordi non sarebbero stati il germe di nulla, ma solo la memoria della preghiera di un ebreo carismatico”. Concordo pienamente. Anzi, forse non ci sarebbe stata neppure questa memoria se non forse nei primi tempi. Il punto è che questo sarebbe avvenuto più o meno ugualmente se Gesù fosse andato in giro con addosso un cartello con la scritta “sono il Messia e YHWH, adoratemi” o se avesse detto a tutti apertamente che si sentiva il Figlio del Padre mandato a redimere il mondo dai suoi peccati in quanto quasi-Dio lui stesso. Nel senso che la crocefissione ha spazzato via inevitabilmente un sacco di pretese e comprensioni e speranze. Difficilmente il movimento di Gesù sarebbe continuato. Il Battista almeno era morto gloriosamente come un profeta e i suoi seguaci potevano pensare che comunque il suo insegnamento era valido. Gesù è morto della morte infame per eccellenza, quella del palo, difficilmente, senza le esperienze mistiche che i discepoli hanno vissuto, vere o false che siano, il movimento gesuano sarebbe sopravvissuto a lungo e quando anche fosse sopravvissuto si sarebbe riconfuso nel giudaismo coevo e noi non ne avremmo con ogni probabilità alcuna traccia.