Mauro Pesce da storico tratteggia una figura di Gesù in netto contrasto con quella proposta dalla successiva tradizione cristiana, accusata addirittura di «tradimento» (p. 68 del libro
Inchiesta su Gesu'). Secondo questa ricostruzione, già accennata, egli fu un ebreo di stretta osservanza, che non disse e non fece mai nulla per abolire la legge e il culto mosaico (pp. 26-28). «Era un ebreo che non voleva fondare una nuova religione. Non era un cristiano. Era convinto che il Dio delle Sacre Scritture ebraiche stesse cominciando a trasformare il mondo per instaurare finalmente il suo regno sulla terra» (p. 237).
Non concepì affatto la sua morte violenta come opera di salvezza per il mondo (p. 29), perché non tentò mai «di convertire i non ebrei» (p. 37), mentre invece era «del tutto concentrato su Dio e pregava per capire la sua volontà e ottenere le sue rivelazioni», premuroso con «le pecore perdute della casa d’Israele» (Mt 15,24), cioè verso quei giudei «sviati» che avevano bisogno di lui (p. 36). In definitiva, si sentiva inviato a sostegno «dei bisogni degli uomini, in particolare i malati, i più poveri e coloro che erano trattati in modo ingiusto.
Il suo messaggio era inscindibilmente mistico e sociale». Ma il regno di Dio non venne «e anzi, egli fu messo a morte dai romani per motivi politici. I suoi discepoli, che provenivano da ambienti più vari, ne diedero fin dall’inizio interpretazioni differenti. Si interrogarono sulla sua morte fornendo spiegazioni diverse e molti di loro si convinsero che egli fosse risuscitato […] e diedero vita a una nuova religione» (p. 237).
Il cristianesimo sarebbe dunque una creazione tardiva e sia l’annunzio della «buona notizia» (la redenzione e riconciliazione dell’umanità con Dio), sia la sua diffusione fra tutte le genti risalirebbero a convinzioni e interpretazioni dei differenti seguaci condensate negli scritti neotestamentari, specialmente nei vangeli, mentre quelle opere «che le Chiese considerarono apocrife a partire dal IV secolo, scomparvero» (p. 237).
Perciò la convinzione di Mauro Pesce che «la ricerca storica rigorosa non allontani dalla fede, ma non spinga neppure verso di essa», motivandola con il ragionamento che «una cosa è cercare Gesù per ottenerne benefici di salvezza o, al contrario, per criticare e combattere la fede delle Chiese», mentre altra cosa è «tentare di conoscere storicamente ciò che Gesù ha in effetti detto, fatto, sperimentato e creduto» (p. 236), contiene una sua ovvia verità ma ci sorprende per la sua acerbità oltre che per la sua impraticabilità.
La fede dei credenti, è vero, è una risposta personale all’appello che Gesù rivolge a ogni uomo e senza dipendere dalla storiografia deve però misurarsi con la storia, non può sfuggirla. Il Dio che agisce in Gesù Cristo è lo stesso Dio che ha cominciato a operare nella storia del popolo di Israele e non in modo episodico ed eccezionale, ma secondo il filo della ''continuità'' di cui storici e teologi, a diverso titolo, si devono far carico.
Ebbene, insistendo a piu' riprese che i discepoli si sono posti delle risposte alle domande scaturite dai vari problemi che Gesu' non si era per nulla posto - proprio in virtu' del suo rimanere ancorato all'ebraismo - sembra che l'operazione di Pesce sia quella di staccare, di tagliare, di recidere tale filo della continuita' di cui sopra, facendo edificare ed emergere l'intera dottrina della chiesa, e prima ancora l'intero messaggio paolino, piu' sopra il ''
non detto'' di Gesu' invece che sulle sue stesse parole.
Ora, io penso che si ha l’impressione, leggendo il libro, che il punto di approdo della ricerca sia in definitiva una de-cristianizzazione'' di Gesù (che è insieme opzione metodologica e nel contempo il giudizio finale che ne si da').
Su basi scientifiche, con ritmo incalzante, si vuole ricavare dai vangeli un Gesù solo uomo e solo giudeo, un visionario candido e generoso la cui morte è descritta senza alcun riferimento alle scritture profetiche d’Israele, come uno dei tanti incidenti di percorso in cui periodicamente incorrono i puri davanti alla macchina repressiva e sanguinaria del potere. Insomma, Gesù, che non è mai chiamato Cristo e non è mai indicato come messia, è un uomo di elevata statura morale e di rara tempra spirituale, proteso verso un futuro utopico e prevedibilmente deludente. Non ha mai avuto in mente di cambiare il mondo: se ciò accadde fu suo malgrado, per una favorevole congiuntura politico-religiosa abilmente e sollecitamente sfruttata da ingegnosi e tardivi seguaci.
Altrettanto rivelatrice è la corrente di ricerca in cui Mauro Pesce si colloca, non nascondendo la sua preferenza per l’approccio contemporaneo che, nel suo insieme, ha preso le distanze dal doppio criterio negativo di Käsemann, che voleva una discontinuità del Gesù storico sia dall’ambiente giudaico d’origine sia dalla successiva comunità dei discepoli. Questa corrente a cui Pesce appartiene invece, si è fattivamente impegnata ad astrarre il rabbi galileo solo dalla tradizione cristiana,
volendo nel contempo mostrare la sua totale contiguità e omogeneità al giudaismo.Desidero avere una conferma di questo giudizio (che mi sembra piuttosto obiettivo) su tale studioso (peccato che l'utente Johannes Weiss non mi ha piu' risposto per sapere la sua opinione sulla tesi della semi-inesistenza: spero che ne approfitti rispondendo qui
).
PS. scusatemi, mi faro' vivo solo in rari momenti futuri su tale topic di mio interesse, ma piu' che altro per porvi le dovute domande (in compenso avete il tempo per riflettere sulle risposte).
Grazie, un saluto.