Studi sul Cristianesimo Primitivo

τί ἐμοὶ καὶ σοί (ti emoi kai soi), su Gv 2:4 ed altre storie

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Hard-Rain
view post Posted on 16/11/2012, 19:18 by: Hard-Rain     +1   -1




CITAZIONE
Riguardo a Epitteto, sarebbe interessante verificare l'intero passo dove tale espressione è utilizzata, per una conferma del suo significato (e del tono) in un contesto extra-biblico.

Agli ordini!

Per prima cosa le ricorrenze di questa espressione in Epittèto compaiono non in un solo passaggio ma in numerosi passaggi, a patto che si prendano ovviamente in considerazione le varie persone dei pronomi e la relazione con altri sostantivi e non con i soli pronomi personali:

1,1,16 (τι ημιν και αυτῳ; ) trad.: “Cosa abbiamo a che fare con lui?”, che Cassanmagnago rende con “E che c’è tra noi e lui?”

1,22,15 (τι μοι και αυτῳ; ) trad. "che c'è tra me e lui?" (Cassanmagnago)

1,27,14 (τι μοι και αυτοις; ) trad. "che ho da spartire con loro?" (Cassanmagnago)

2,19,16 (τι ημιν και σοι; ) trad. “Che ci importa, uomo, a me e a te?” (Qui il senso è un po’ diverso, dal contesto, in effetti);

2,19,19 (τι εμοι και σοι; ) trad. “Che importa a me e a te, uomo?” (stesso discorso del caso prcedente).

2,20,11 (τι γαρ σοι και ημιν; ) trad. “Che, c’è, infatti, tra te e noi?” (Cassanmagnago);

3,18,7 (τι σοι και τῳ αλλοτριῳ κακῳ; ) trad. “che c’è tra te e il male di un’altra (persona)?” (Cassanmagnago traduce con un giro di parole ma il senso immediato è questo);

3,22,99 (τι σοι και τοις αλλοτριοις; ) trad. “che c’è tra te e i fatti altrui?” (Cassanmagnago);

3,24,83 (ουδεν μοι και αυτῃ) trad. “se è un male, non ha niente a che vedere con me” (Cassanmagnago);

4,2,9 (μηδεν σοι και αυτοις) trad. “non avere più nessun rapporto con esse” (Cassanmagnago).

Come si vede, a parte i casi discutibili e probabilmente non attinenti di 2,19,16 e 19, la casistica è piuttosto frequente. Ciò che mi preme sottolineare è che le Diatribe di Epittèto sono un testo molto vicino al parlato, come dicevo nel mio precedente post, e prive di elaborazione letteraria (questo non vuol certo dire che sono un testo “facile”, anzi, al contrario, a volte è molto complesso a causa di un gergo più vicino alla lingua non scritta e per la presenza di numerose ellissi).

Pertanto, bisogna stare attenti a considerare un semitismo questa espressione. Potrebbe benissimo essere una espressione vicina alla lingua parlata a quel tempo. E’ vero che la LXX utilizza spesso questa costruzione ma qui andrebbe condotto uno studio caso per caso. La LXX certamente ha influssi semitici, d’altra parte alcuni suoi elementi linguistici sono attestati anche dai frammenti papiracei (lettere private, ecc…) dell’Egitto ellenistico. A parte alcuni libri molto particolari (come Maccabei) non c’è neppure una particolare pretesa letteraria. Quindi, di nuovo, anche nella LXX queste espressioni potrebbero semplicemente riflettere il parlato del tempo.

Gli autori che riflettono il parlato a cavallo tra I e II secolo d.C. non sono poi tanti, tolto Epittèto, così come trascritto da Arriano di Nicomedia. Sinceramente non ricordo una casistica del genere nei “moralia” che ho tradotto (una decina circa), né nelle orazioni di Dione di Prusa e neppure nell’encomio di Roma di Elio Aristide di cui mi sto occupando non ho trovato questa espressione. Può darsi che ci fossero ma mi siano sfuggite, certamente non hanno colpito la mia attenzione come Epittèto. Ma queste “orazioni”, anche se venivano pronunciate in pubblico, erano composte prima a tavolino (al contrario del caso di Epittèto).

Un buon banco di prova sarebbe Musonio Rufo. Ho tradotto anche tutto questo autore, sfortunatamente all’epoca non mi sono annotato per filo e per segno queste costruzioni, come feci con Epittèto. Rufo è in una situazione molto simile a quella di Epittèto: il discepolo Lucio, come Arriano per Epittèto, mise per iscritto le parti meno “formali” delle lezioni del filosofo. Potrei verificare se c’è qualcosa in questo testo, sarebbe la prova del nove che si tratta di qualcosa certamente utilizzato nel “parlato” quotidiano, al di là dell’atticismo imperante all’epoca.

CITAZIONE
forse un simile utilizzo anche in latino: Marziale, Epigr. 1.76:11, scrive "Quid tibi cum Cirrha? Quid cum Permesside nuda?" (va notato tuttavia che la costruzione col cum è in questo caso differente dalla costruzione greca col doppio dativo).

Il latino non è affar mio, tuttavia ho aperto davvero a caso una pagina di Tacito e ho trovato "quid illi cum militibus", trad. "gli chiedeva che cosa avesse a che fare lui con i soldati" (Annales 6,3,1).

Edited by Hard-Rain - 16/11/2012, 19:46
 
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