Studi sul Cristianesimo Primitivo

Esaltazione senza preesistenza: la cristologia originaria

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Sant'Atanasio
view post Posted on 18/3/2016, 03:56     +1   -1




CITAZIONE (JohannesWeiss @ 18/3/2016, 03:48) 
1) L'argomento di Bauckham (ora nel primo spoiler) sul fatto che se Gesù appartiene integralmente all'identità di Dio, allora le cose devono essere così da sempre bla bla... non è affatto applicato da Bauckham indiscriminatamente a tutte le forme cristologiche nt.rie, incluse quelle dell'esaltazione, bensì riguarda specificamente i passi cristologici in cui a Gesù viene attribuita una dimensione protologica, ovvero: prologo giovanneo, Colossesi 1, Ebrei 1. E Bauckham stesso indica chiaramente che si tratta di sviluppi della riflessione protocristiana che originariamente concepiva l'appartenenza di Gesù all'identità di Dio dal punto di vista della partecipazione e implementazione della sovranità escatologica di Dio.

Assolutamente, ma io infatti non ho negato che ciò abbia rappresentato uno sviluppo, semmai lo studio di Bauckam aiuta a mettere in luce quanto veloce sia stato questo sviluppo verso una cristologia pienamente divina, e quindi quale fosse la Fede degli apostoli circa un decennio o poco più dopo la morte di Cristo il 7 Aprile del 30 D.C.

Continua a non sembrarmi una cosa irrilevante, tutto questo, storicamente parlando, anzi mi sembra tremendamente importante.
Riguardo ai passi sull'esaltazione, Bauckam chiarisce nel suo studio che Cristo non è stato esaltato ad un ruolo che prima non aveva.

Cito da Bauckam, dalla sua trattazione

"Therefore" it does not mean that Christ only begins to belong to the divine identity at his exaltation. Rather only one who already belonged to the divine identity could occupy this position of eschatological supremacy. It is part of the function of the opening words of the passage (2:6), which I understand, with the majority of scholars, as depicting the pre-existence of Christ, to make clear his identity with the one God from the beginning".

Che poi è quello che sostengo io da inizio topic.


Pertanto quando scrivi che

CITAZIONE (JohannesWeiss @ 18/3/2016, 03:53) 
1) L'argomento di Bauckham (ora nel primo spoiler) sul fatto che se Gesù appartiene integralmente all'identità di Dio, allora le cose devono essere così da sempre bla bla... non è affatto applicato da Bauckham indiscriminatamente a tutte le forme cristologiche nt.rie, incluse quelle dell'esaltazione, bensì riguarda specificamente i passi cristologici in cui a Gesù viene attribuita una dimensione protologica, ovvero: prologo giovanneo, Colossesi 1, Ebrei 1.

Non è proprio esatto, visto che Bauckam sostiene che la divinità eterna di Cristo (e la Sua coeternità ed equipollenza col Padre) è eccome contemplata nelle forme cristologiche dell'esaltazione, come ho dimostrato. Bauckam è chiarissimo: Cristo era pienamente Dio anche prima dell'esaltazione, non ha cominciato ad esserlo dopo, nè tantomeno era venerato come un angelo tdg style.


CITAZIONE (JohannesWeiss @ 18/3/2016, 03:53) 
2) Non ho idea di chi sia stato a minimizzare il ruolo di Cristo nella creazione in questo topic, dal momento che i testi paolini comunemente citati al riguardo sono 1 Cor 8,6 e Col 1,15-20, e io non ho ancora discusso di nessuno dei due. E in FIl 2,6-11 non c'è traccia di mediazione nella creazione. A meno che tu non ti stia riferendo ad At 3,15, che ti ho dimostrato non avere nulla a che vedere con la creazione.

Su Atti 3,15 mi sei stato davvero di grande aiuto poichè, come ti ho detto, sono via e non ho accesso ai testi, perciò devo arrangiarmi come posso. :)

Riguardo al ruolo di Cristo nella creazione e di quale fosse il pensiero Paolino al riguardo Bauckam è stato fin troppo chiaro. Tu, infatti, dicevi che l'associazione di Gesù alla creazione avrebbe creato aporie col monoteismo, invece Bauckam al riguardo spiega bene che

"If Jesus was integral to the identity of God, he must have been so eternally. To include Jesus also in the unique creative activity of God and in the uniquely divine eternity was a necessary corollary of his inclusion in the eschatological identity of God. This was the early Christians' Jewish way of preserving monotheism against the ditheism that any kind of adoptionist Christology was bound to involve. Not by adding Jesus to the unique identity of the God of Israel, but only by including Jesus in that unique identity, could monotheism be maintained. This applies also to the worship of Jesus, which certainly began in Palestinian Jewish Christianity. This expressed the inclusion of Jesus in the unique identity of the sole Creator of all things and sole Sovereign over all things."

Ed è un'altro aspetto fondamentale della questione, e praticamente mostra che, storicamente, gli apostoli a quel tempo avevano già, nei primissimi tempi della cristianità, una Fede in Cristo del tutto paragonabile a quella che troviamo nel quarto Vangelo.

Ma la cosa più importante, stando strettamente nel tema del topic, è la dimostrazione data da Bauckam sulla dottrina dell'esaltazione, che non conflligge con la preesistenza di Cristo nè col Suo essere Dio, come ho riportato sopra.
E questo è un punto cardine dell'inno di Filippesi.

P.s: ho sottolineato alcune parti per dare enfasi, non ho messo nessun colore, tuttavia dimmi se devo togliere la sottolineatura, che non c'è problema, in caso. ;)

Ciò che emerge dai minuziosi lavori di Bauckam e Hurtado è, quindi, che Paolo e gli altri apostoli, solo pochi anni dopo la morte di Cristo, avevano già una Fede che un cristiano moderno potrebbe definire "ortodossa" senza troppi problemi (salvo ovviamente le sistematizzazioni che verranno in seguito e l'approfondimento sul ruolo e status ontologico dello Spirito Santo), per quanto riguarda Gesù Cristo, che è il cardine della Fede cristiana.

Edited by Sant'Atanasio - 18/3/2016, 06:27
 
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view post Posted on 18/3/2016, 10:21     +1   -1
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CITAZIONE (JohannesWeiss @ 17/3/2016, 18:49) 
@Astroclipper

CITAZIONE
Io ho solo proposto un possible metodo per trovare qualche traccia dell'idea del Cristo pre-esistente all'alba del cristianesimo. Certamente, per non minare il monoteismo, oltre che pre-esistente il Cristo doveva essere anche coeterno, non eterno, con tutti i limiti di questa affermazione. Infatti il concetto di eternità, come noi lo intendiamo, non apparteneva agli ebrei del secondo tempio.

Temo che il metodo che proponi sia eccessivamente selettivo. E’ evidente che se troviamo un testo che attribuisce a Gesù un’esistenza coeterna a Dio, abbiamo trovato anche l’idea che egli preesisteva alla sua storia terrena ed eventualmente alla creazione stessa. Ma è perfettamente possibile preesistere alla propria storia senza esistere ab aeterno. Fil 2,6-11 forse ci dice che Cristo iniziò il suo movimento di abbassamento a partire da una condizione celeste: ma tale modalità di preesistenza poteva benissimo essere quella del nuovo Adamo o di un angelo. Per il Libro delle Parabole di Enoc, l’Eletto/Figlio dell’uomo è un messia angelico che esiste, nascosto davanti al Signore degli spiriti, fin da prima che fosse creato il mondo (cfr. 1 En 48,3.6). E anche in 4 Ezra abbiamo una figura ibrida tra Figlio dell’uomo angelico e Messia davidico, che da un lato è preesistente (13,26) e dall’altro è mortale (7,29).

Concordo pienamente con la tua osservazione, infatti il metodo da me proposto serve a stabilire una data, grossolanamente per eccesso, in cui certamente la cristologia della preesistenza era conclamata, per poi provare a tornare indietro. Cercavo di trovare un estremo superiore antecedente al stesura definitiva del vangelo di Giovanni. Per essere precisi, io scindevo anche la consapevolezza della preesistenza da quella della coeternità, infatti è probabile che il cammino sia stato questo: esaltazione-preesistenza-coeternità-divinità di Gesù, anche se non sono troppo convinto che la divinità di Gesù sia stata concepita dopo la sua coeternità, ma questo è un mio dubbio personale. Ovviamente la mia è una esemplificazione, non ritengo assolutamente plausibile una evoluzione lineare, sarà stata molto probabilmente una evoluzione a "cespuglio" con inevitabili sovrapposizioni. Come ho già detto in precedenti post, non scarterei del tutto l'ipotesi di una breve deriva politeista, anche se inconsapevole, in alcune frange, non necessariamente minoritarie, appartenenti ai primissimi anni del cristianesimo.

Saluti
Astro

Edited by astroclipper - 18/3/2016, 11:39
 
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siciliano.76
view post Posted on 18/3/2016, 17:22     +1   -1




“Per determinare il centro teologico di gravità del testo è decisiva la questione della prospettiva narrativa. Muovendo da quale prospettiva l’inno si esprime riguardo al suo eroe? Non può esservi dubbio: a questo racconto soggiace l’esperienza di Gesù Cristo crocifisso, innalzato e quindi presente tramite lo Spirito di Dio come Kyrios. Di conseguenza è chiaro che questo testo non parte da nessun’altra prospettiva se non da quella della post-esistenza! L’autore muovendo dall’esperienza del Signore risorto, innalzato e operante nel presente, guarda retrospettivamente alla vita terrena di Gesù nell’umiliazione e al suo precedente essere presso Dio….
Dunque, non propriamente la pretemporalità di Gesù e quindi la sua natura divina data per presunta, ma il suo abbassamento sino alla croce e la sua elevazione a Signore e giudice del mondo!
In questo inno Gesù Cristo non è, pertanto, in primo luogo una figura divina del mondo celeste che ha assunto la forma di servo per poi risalire nuovamente in cielo, ma è prima di tutto l’uomo crocifisso e innalzato, venuto da Dio.
Anche questa affermazione sulla ‘forma divina’ di Gesù va dunque interpretata alla luce di abbassamento ed elevazione a posteriori, per così dire. Essa non sta all’inizio di una riflessione cristologica, ma alla fine di un processo interpretativo alla luce dell’Innalzato. Gli asserti sulla ‘forma divina’ di Gesù vanno capiti come ampliamento delle affermazioni su passione ed esaltazione… L’asserto sulla ‘forma divina’ designa, in certa misura, quella ‘dimensione profonda’ in cui la vita, la morte e la risurrezione di Gesù vanno viste… La pre-temporalità è qui una funzione della post-temporalità.
Una cristologia della preesistenza che riflette o addirittura specula sull’essere o sulla natura di Cristo non va riconosciuta in un inno come quello della lettera ai Filippesi… L’asserto sulla preesistenza personale è una pura funzione dell’affermazione riguardante l’abbassamento e l’elevazione, uno sfondo, o meglio, una dimensione profonda dell’evento di abbassamento ed elevazione, il cui soggetto è il Nazareno crocifisso.
Il dato quindi è sobrio; esige cautela teologica”.
(K.-J. Kuschel, Generato prima di tutti i secoli? La controversia sull’origine di Cristo, BTC 84, Queriniana, Brescia, 1996 [ed. or. 1990], 348-349, 351, 346-347)

Ciao Weiss, ho letto con molto interesse quello che hai scritto su filippesi 2: 6-11, ma non ho compreso tanto bene queste parole di Kuschel che hai citato.
In poche parole non ho capito se Kuschel creda alla preesistenza, cioè se Cristo prima di apparire come uomo sulla terra era un essere spirituale dimorante in cielo insieme a Dio.
Quindi potresti spiegarmi in modo semplice il concetto espresso da lui?

Grazie!
 
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JohannesWeiss
view post Posted on 18/3/2016, 18:56     +1   -1




Certo. La tesi di Kuschel è che l'inno contenga sì l'idea della preesistenza di Cristo, ma che questa non abbia un significato autonomo, ovvero che sia menzionata unicamente come il punto d'origine del movimento di abbassamento che è al centro dell'inno, per esprimere poeticamente l'idea che tale movimento di abbassamento di Gesù (nel quale K. riconosce echi del servo sofferente e dell'anti-Adamo) abbia la sua origine nel mondo di Dio, senza mettere a fuoco l'esistenza pre-temporale di Gesù in tal modo suggerita, e tanto meno per fare un'affermazione sulla natura ontologica che egli avrebbe posseduto.
Per Kuschel si tratta di uno slancio poetico-entusiastico che, partendo dalla prospettiva escatologica del Kyrios esaltato vivente e presente nella comunità, ripercorre a ritroso il movimento di abbassamento a causa del quale Cristo fu esaltato da Dio, fino a scorgere l'origine di tale cammino direttamente in Dio - questo probabilmente (anche se K. non mi sembra che lo dica esplicitamente) grazie a un modo di pensare di tipo apocalittico, per cui le realtà escatologiche preesistono in qualche modo nascoste in Dio.

In breve: la tesi di Kuschel è che la preesistenza accennata, per la prima volta, in questo testo, designi propriamente la profondità teologica dell'evento-Cristo (il suo radicamento in Dio), e non l'esistenza pre-temporale e la natura della persona di Gesù. Per cui la risposta alla tua domanda è: No, Fil 2,6-11 per Kuschel non intende dire che Cristo prima di apparire come uomo sulla terra era un essere spirituale dimorante in cielo insieme a Dio.
Tuttavia, pur non essendovi una cristologia della preesistenza propriamente detta, con Fil 2,6-11 l'idea fa nondimeno la sua comparsa. E troverà ulteriore sviluppo nell'inno di Colossesi. E Paolo?... Niente! La tesi di Kuschel, che io trovo piuttosto convincente, è che non ci sia nessuna cristologia della preesistenza in Paolo. In questo thread non sarà possibile ripercorrere le sue argomentazioni anche sui vari passi paolini (troppe pagine), tuttavia intenderei svolgere io stesso svolgere, concisamente, un esame analogo, per cui suppongo che riprenderò anche alcuni degli argomenti di Kuschel.

Intanto, per maggiore chiarezza, riporto in modo più completo e ordinato i passaggi fondamentali dell'argomentazione di Kuschel su Fil 2,6-11 (ripetendo in parte quanto già citato in precedenza)

Un grande brano di poesia

Contro un'autonoma affermazione della preesistenza parlano per prima cosa alcune finezze linguistiche presenti nel testo stesso. Ciò vale soprattutto per il v. 6, decisivo per la cristologia della preesistenza...
Occorre considerare che nella sua forma originale il testo con en morphē theou huparchōn si esprime con un participio presente e quindi non stabilisce propriamente nessuna determinazione temporale. Tradotto alla lettera, questo desto decisivo dovrebbe suonare: Egli, essendo nella ‘forma’ di Dio, non si fissò sul fatto di…”.
La differenza è decisiva per un asserto sulla preesistenza. Traducendo infatti alla lettera, non si può qui riconoscere né un’astratta definizione di natura né una definizione determinante della pretemporalità. Al contrario. Sin dall’inizio il testo presenta una direttrice dinamica di movimento. L’ascoltatore è coinvolto in una dinamica di movimento, che è la dinamica stessa del processo di abbassamento.
Oltre a ciò, in secondo luogo – e lo si nota troppo poco – nel verbo hyparchōn si cela il termine archē, origine. Traducendo anche qui alla lettera si potrebbe dire: “Egli, che ha l’origine nel ‘mondo’ di Dio”. Il discusso en morphē non è dunque un’asserzione sulla natura, ma un’affermazione sulla provenienza...Morphè theou è sì un asserto sulla preesistenza, forse anche il più antico del Nuovo Testamento, ma nell'insieme del testo non ha alcun significato autonomo.
In terzo luogo, questo è un brano di alta poesia... La poesia può dire con immagini quanto ancora è privo di concetti, può dischiudere con ardite metafore certi ambiti-limite del parlare... imbastisce tensioni contrastanti di alta drammaticità e crea in uno spazio ridottissimo una densità incomparabilmente paradossale... Proprio questa tensione consente di concludere che questo cantico non tratta semplicemente del Gesù terreno, del nuovo Adamo o del Servo sofferente, ma di un Gesù che prima del suo abbassarsi verso l'uomo era 'nel mondo di Dio'... origine da Dio e, tuttavia, una vita come quella di un uomo.
E' importante però osservare che il testo erige tutte queste tensioni volutamente e rinuncia a ogni loro superamento concettuale, filosofico o teologico. E' un abbozzo in forma innica, uno slancio poetico, un canto di lode entusiastico, un documento dello spirito profetico del tempo finale, un prodotto del primissimo entusiasmo post-pasquale.

La prospettiva che decide tutto

Per determinare il centro teologico di gravità del testo è decisiva la questione della prospettiva narrativa. Muovendo da quale prospettiva l’inno si esprime riguardo al suo eroe? Non può esservi dubbio: a questo racconto soggiace l’esperienza di Gesù Cristo crocifisso, innalzato e quindi presente tramite lo Spirito di Dio come Kyrios. Di conseguenza è chiaro che questo testo non parte da nessun’altra prospettiva se non da quella della post-esistenza! L’autore muovendo dall’esperienza del Signore risorto, innalzato e operante nel presente, guarda retrospettivamente alla vita terrena di Gesù nell’umiliazione e al suo precedente essere presso Dio….
Dunque, non propriamente la pretemporalità di Gesù e quindi la sua natura divina data per presunta, ma il suo abbassamento sino alla croce e la sua elevazione a Signore e giudice del mondo!
In questo inno Gesù Cristo non è, pertanto, in primo luogo una figura divina del mondo celeste che ha assunto la forma di servo per poi risalire nuovamente in cielo, ma è prima di tutto l’uomo crocifisso e innalzato, venuto da Dio.
Anche questa affermazione sulla ‘forma divina’ di Gesù va dunque interpretata alla luce di abbassamento ed elevazione a posteriori, per così dire. Essa non sta all’inizio di una riflessione cristologica, ma alla fine di un processo interpretativo alla luce dell’Innalzato. Gli asserti sulla ‘forma divina’ di Gesù vanno capiti come ampliamento delle affermazioni su passione ed esaltazione… L’asserto sulla ‘forma divina’ designa, in certa misura, quella ‘dimensione profonda’ in cui la vita, la morte e la risurrezione di Gesù vanno viste… La pre-temporalità è qui una funzione della post-temporalità.

Nessuna cristologia della preesistenza

L’antica cristianità giudaica di lingua greca, venuta da Gerusalemme, osa esprimere per la prima volta con questo inno l’idea di un modo di esistere pre-mondano di Gesù, ma è così poco interessata alla sua elaborazione, da renderla una pura funzione del processo di abbassamento ed elevazione. L’essere di Cristo presso Dio è fondamentalmente menzionato come preludio di questo inno, senza che vi si indugi con atteggiamento riflessivo o meditativo, mitico, visionario o poetico. Lo si nomina invece ‘solo in un’idea accessoria’ [J. Ernst].
… Da tutto questo consegue che una cristologia della preesistenza che riflette o addirittura specula sull’essere o sulla natura di Cristo non va riconosciuta in un inno come quello della lettera ai Filippesi… L’asserto sulla preesistenza personale è una pura funzione dell’affermazione riguardante l’abbassamento e l’elevazione, uno sfondo, o meglio, una dimensione profonda dell’evento di abbassamento ed elevazione, il cui soggetto è il Nazareno crocifisso.
Il dato quindi è sobrio; esige cautela teologica.

(K.-J. Kuschel, Generato prima di tutti i secoli? La controversia sull’origine di Cristo, BTC 84, Queriniana, Brescia, 1996 [ed. or. 1990], 345-351)
 
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siciliano.76
view post Posted on 18/3/2016, 19:14     +1   -1




Aspetto con molto interesse la trattazione che hai annunciato di fare su altri passi biblici che spesso vengono citati come attestazione della preesistenza di Gesù.

Grazie ancora Weiss.
 
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askerella
view post Posted on 19/3/2016, 01:31     +1   +1   -1




Uhm.... mi intrometto.

Sicuramente ora abbasserò temporaneamente il livello della discussione. La rialzerete voi dopo, siete bravi.... Nel frattempo se qualche spunto potesse derivare dal mio post profano e profanatorio (dell'accademia)... eccolo.

Le citazioni da fare sarebbero molte ma le limito, anche perché la maggioranza dei forumisti ne sanno più di me e conosceranno bene tutti i riferimenti.

«Sette cose c'erano duemila anni prima del mondo: la Torah, il trono di gloria, il giardino dell'Eden, la Geenna, il pentimento, la santità suprema e il nome del Messia». H.L. STRACK, P. BILLERBECK (eds.), Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch I, München 41963, 974s; 983.

"Lui (il Messia) è stato nascosto nella presenza del Signore, prima della creazione del mondo e per l'eternità". 1Enoc 48.
Cf P. SACCHI, Apocrifi dell'Antico Testamento I, Torino 1981, 530.

Libro di Enoch cap.48
2. In that hour was this Son of man invoked before the Lord of spirits, and his name in the presence of the Ancient of days.
3. Before the sun and the signs were created, before the stars of heaven were formed, his name was invoked in the presence of the Lord of spirits. A support shall he be for the righteous and the holy to lean upon, without falling; and he shall be the light of nations.
5. Therefore the Elect and the Concealed One existed in his presence, before the world was created, and for ever.

Come contesto generale, a me sembra che Sha'ul - Paolo esprima più volte nelle Lettere questa visione della preesistenza e che la applichi a Gesù come compimento di ciò che già l'Apostolo credeva, in quanto ebreo.
[Rm 16,25 mistero taciuto dai secoli eterni ma ora rivelato e annunziato ; 1Cor 2 Infatti chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo consigliare? Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo. ; Ef 3 adempimento nascosto nei secoli in Dio...secondo il progetto eterno; Col 1 il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi / E' lui infatti che noi annunziamo, ammonendo e istruendo ogni uomo con ogni sapienza, per rendere ciascuno perfetto in Cristo. Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza. - etcetera].
Paolo, nel contesto evidenziato sopra e/o nell'inno dei Filippesi alla luce della semplice analisi linguistica, non accoglie nessuna nuova dottrina, di particolare rottura, dall' "eretico" gruppo cristiano, ma piuttosto nella sua vicenda personale viene improvvisamente illuminato (o meglio fulminato) sulla corrispondenza tra la figura di Gesù Nazareno e le categorie ebraiche (non statiche e univoche) che conosceva benissimo, da orgoglioso "Fariseo, tribù di Beniamino".
Per arrivare a questo, sempre dalle sue Lettere apprendiamo che ha avuto 2 fonti:
- intuizione, maturazione personale, cambiamento di vita, infatti lui non parla di concetti tipo "conversione ad un'altra religione", concetto peraltro troppo moderno
- annuncio/comunicazione/trasmissione da parte di apostoli-discepoli che l'avevano preceduto nella Fede in Cristo

In entrambi i casi non sembrerebbe darsi il caso di una qualche nuova teoria coniata da Paolo, dagli altri Apostoli, o di un vago esordio di un'intuizione teologica innovativa.... ma (data la ricorrenza nelle Lettere) appare (a me, profana, profanissima) come piuttosto di un Evento che trova radici su una teoria precedentemente consolidata. Ed infatti nel giudaismo se ne trova traccia chiara.

Se un problema c'è (da ciò che ho potuto leggere googlando in vari siti) si trova, almeno apparentemente, nella concezione di divinità.
L'ebraismo sembra spesso affermare ancora oggi, dicendo che lo affermava anche ieri , (forse per bimillenaria risposta reattiva al cristianesimo? Non lo so) : la preesistenza NON significa necessariamente divinità - e la preesistenza cristiana non è certo la preesistenza ebraica! Dio infatti può pre-vedere tutto, cioè tutto è pre-figurato o progettato nella Sua Mente. Il Messia stesso (quello umano-politico) è preesistente, eppure NON è divino. La preesistenza ebraica sembrerebbe allora equivalere a quella che un cristiano occidentale definirebbe probabilmente "pre-conoscenza".

Resta secondo me da stabilire se 2000 anni fa la concezione ebraica del divino era davvero questa oppure no (cioè: oltre a Dio-Padre-Creatore di veramente divino non c'è nient'altro di concepibile) oppure se Paolo e gli Apostoli, cioè se alcuni ebrei o molti ebrei, potessero avere già un'idea diversa (evoluta ma tutta interna all'ebraismo) che hanno applicato al Maestro/Profeta/Messia/Risorto Gesù.
Da quel poco che ho letto di Enoch pare che ci fosse già una corrente di pensiero abbastanza forte che aveva sviluppato il concetto di Messia da figura politico-terrena a spirituale, una figura di evoluzione dell'umanità che si doveva realizzare "in" e "con" questo essere "speciale". Una figura che, in parole povere, in certi tratti non aveva eguali con altre già conosciute. Una figura Unica. Unica come la Torah, che già conoscevano. Unica come la Santità Suprema, che già conoscevano. Unica come il Messia, che ancora non conoscevano ma che andava delineandosi.
Si vede anche dai brevissimi estratti riportati sopra.
Sia le 7 realtà preesistenti al "mondo" che il Figlio dell'Uomo (di Enoch e di Daniele) si collocano in luoghi spirituali molto vicini a Dio: una vicinanza che arriva a condividere la divinità oppure che solamente riceve la divinizzazione "elargita" da Dio?
Considerando la valenza teologica/spirituale/psicologica ebraica della Torah (e della Lingua Sacra) a me sembra che ci sia già con questa una certa condivisione di divinità con l'Essere Supremo.
Nelle 7 cose elencate come "preesistenti" vediamo: la Torah, il Trono, la "santità suprema" e il "nome del Messia": Parola, Santità, Trono e Messia. Inoltre: conoscevano già il Servo Sofferente di Isaia (evoluto da Popolo Servo a Uomo Servo, innalzamento, sublimazione, deificazione della sofferenza umana) e insieme conoscevano il concetto pienamente ebraico del Messo che corrisponde al Mandante (in pratica l'esatto contrario dell'occidentale "ambasciator non porta pena"). "L'inviato di un uomo è come egli stesso" (TB Chaghighah10b; TB Nedarim72b; TB Qiddushin42b) e "il messo d'un re è come il re stesso" (TB Shavuoth47b).
Per me c'è già tutto. Mancava solamente un Evento speciale, un Uomo speciale che incarnasse (!) tutto questo in un colpo solo ed il passo in zona divina era compiuto.
Il sentiment c'era, l'attesa c'era, la mistica c'era. Anche se la traduzione linguistica di tutto ciò, di tutta la dinamica, differisce da quella occidentale.

Riassumendo, mi sembra che:
1) la preesistenza potesse essere una dottrina sicura fin dal giovane cristianesimo;
2) per quanto riguarda l'atemporalità, cioè il concetto pienamente divino di preesistenza, secondo me poteva esserci già anche quello nell'anima del giudaismo in virtù della concezione del tempo ebraica (tutt'altro che occidentale);
3) la divinità di alcune realtà extra-PadreEterno fosse già presente, pronta ad essere inglobata nell'Unico Divino.

Le posizioni differenti (o direttamente eretiche) all'interno delle comunità cristiane ci sono financo oggi anche in base alla formazione culturale nei diversi ambienti considerati. Anche allora ci saranno stati ebrei ignoranti, eretici, colti, illuminati, informati, disinformati, più o meno mistici, bravi a scrivere i propri pensieri oppure no, ecc. e non dobbiamo assumere che gli scritti pervenutici (canonici o no) siano il massimo della chiarezza scientifica o teologica.... anche perché non intendevano esserlo.
Anzi a me sembra già un fatto eccezionalissimo, per quei tempi, con le modalità di diffusione dei fenomeni culturali-religiosi molto limitata rispetto ad oggi, che in 50-100 o 150 anni sia stato elaborato tutto quello che si desume dal Nuovo Testamento. Appunto tempi troppo brevi per giustificare chissà quali salti evolutivi di teologie o rotture teologiche imposte ad intere comunità credenti e poi scriventi. L'unica spiegazione storica, secondo me, è che molti di quei credenti fossero già ampiamente pronti per le posizioni teologiche cristiane (espresse tipicamente in Giovanni), cioè già le possedevano in nuce anche se certamente non le esponevano in una forma piena-piana ed occidentalizzata.

Una possibilità esplorativa scientifica potrebbe essere quella fornita dalla moderna scienza neurolinguistica. Qualche studioso si è già cimentato in questo per analizzare Paolo ? Certo è che dovrebbe riunire in sè conoscenze neurologiche, linguistiche, psicologiche, filologiche, filosofiche, teologiche, storiche.... insomma dovrebbe essere un genio oltre che plurilaureato....

Altra osservazione.
Noi (beh, non io, ma gli esperti) cerchiamo praticamente delle affermazioni, testimonianze scritte che costituiscano delle chiare storiche teorizzazioni di una credenza, di una teologia rispetto ad un'altra.
Bisogna però anche tenere presente che, fin dai primi tempi, l'avversione verso la nuova setta cristiana ha prodotto di sicuro nel giudaismo delle formulazioni dottrinali scritte atte a contrastare le fondamenta di certi sviluppi teologici che si temevano. E spesso, io credo, lo storico occidentale nemmeno se ne accorge.
Io non sono un'esperta (non lo ripeterò mai abbastanza) ma leggendo il mio solito amato Zolli apprendo (dallo storico delle religioni, e ben prima della sua conversione) che molte affermazioni rabbiniche e/o talmudiche per qualunque occidentale "insospettabili", sono invece per lui (ebreo) delle chiarissime, inequivocabili misure teologiche-teoriche difensive che - perfettamente inutili o addirittura insensate se considerate in seno al pensiero ebraico - mirano unicamente a fermare in nuce il pericoloso dilagare di concetti del nascente cristianesimo - e solo in questa prospettiva il fedele ebreo ne comprende il senso che altrimenti non ci sarebbe (Sto ovviamente parlando di profondi conoscitori delle teologie ebraiche, delle diverse scuole rabbiniche, delle tradizioni orali, dei Talmud, ecc.).
Quindi, in parole povere: noi sicuramente oggi leggiamo da tanti documenti scritti la descrizione di un ebraismo antico che forse non è sempre così attendibile come crediamo (e questo vale ovviamente per entrambi i gruppi, giudeo e cristiano, che si contrapponevano quotidianamente in sinagoga)..... ma che spesso è reazione/contrapposizione al cristianesimo, laddove magari non c'erano in origine concettualizzazioni così contrapposte, ma invece teologie compatibili, a noi non più accessibili. Tutto sta a distinguere il fenomeno originario dalla reazione allo stesso.....

Molto più attendibili e aderenti alla realtà forse sono i comportamenti popolari, gli accadimenti, le concretizzazioni nel culto, l'arte, gli stili di vita delle comunità credenti - e sempreché ne possiamo avere oggi delle buone cronache.

Domanda: è possibile fare "storia" della cristologia attenendosi solamente e strettamente agli scritti (canonici) del Nuovo Testamento tipo Sola Scriptura? Non è in qualche modo una contraddizione in termini?
Primo, perché la Sola Scriptura è già di per sè una teologia ben precisa. Quindi è proprio Teologia, e non Storia.
Secondo, perché la Storia non mi sembra si faccia solo considerando l'esegesi di alcuni limitati e delimitati documenti scritti
Terzo, perché in gran parte quei documenti non intendevano essere una trattazione di cristologia per i posteri
Quarto, perché scegliere di analizzare solo scritti canonici della Chiesa Cattolica e nel contempo rifiutare la Tradizione che quegli scritti ha scelto come una parte della Testimonianza.... mi sembra un controsenso. Non vedo perché nella cristologia non debbano entrare le teologie rabbiniche, le espressioni cultuali, l'AT, i Talmud, la tradizione orale cristiana e quant'altro ci possa servire per un'analisi completa......
Quinto: non vedo perché si debba distinguere necessariamente tra un Prima e un Dopo quando si considera uno spazio di soli 40 anni (mi pare, circa) tra gli scritti di Paolo e Giovanni (Non eravamo mica in èra internet e neanche èra carta stampata!).
Non è più sensato pensare a macchie di leopardo e a scopi diversi degli scritti , a destinatari diversi, e/o a linee catechetiche diverse degli autori? Pensiamo ad esempio ad un prete che oggi facesse catechismo ai ragazzini, ad adulti poco scolarizzati, oppure tenesse una conferenza di teologia ad adulti laureati in quella materia: la cristologia sarebbe la stessa, mentre le espressioni linguistiche sarebbero molto diverse.

Per ultimo, ma non ultimo: dove Paolo attua una vera rottura teologica rispetto al giudaismo è quando parla dell'Eucarestia, della Cena del Signore (Prima Corinzi, datazione 53-55, e ne parla come di pratica già presente da tempo, tale da richiamare all'ordine chi si era lasciato andare a derive disordinate e la eseguiva malamente).... e forse varrebbe la pena di interrogarsi su quale tipo di Messia-Cristo avrebbe potuto, secondo il Fariseo Paolo, osare cambiare le prescrizioni mosaiche della Pasqua, oltre che avviare praticamente un rituale periodico (settimanale?) imperniato sulla Sua Persona, di rievocazione "pasquale-espiativa" (pesach+kippur), e su quali ebrei avrebbero potuto dare retta ad una simile eresia se non fossero stati convinti che la Persona che glielo ordinava era "un pò" divina....nel senso che si poneva, oltre che sopra a Mosè, anche al di sopra della Torah così tanto da poterla modificare.
Avrebbe potuto farlo un Angelo incarnato? Un Profeta? ("Mai sorgerà profeta come Mosè", e nemmeno il Messia è autorizzato a modificare la Torah). Il Servo Sofferente Innalzato-esaltato? Uno "vicino a Dio/in zona Dio" ?
O avrebbe potuto farlo Qualcuno che preesisteva alla Legge? Quanto e come "preesistente"? (Ce ne vuole eh per preesistere alla Torah nella testa di un ebreo).
Questo FATTO non è forse il più indicativo di tutti e da tenersi in considerazione PRIMA di procedere alle altre analisi puramente testuali-linguistiche delle formulazioni cristologiche?
Dal mio punto di vista, accade che:
- un ebreo, che NON nega la Torah ma anzi la conferma in pieno, si pone tuttavia AL DI SOPRA di essa e osa istituire un Rito/Culto sulla sua Persona (fatto inaudito)
- un nutrito gruppo di ebrei gli da perfino ascolto ed esegue l'ordine, come se fosse la cosa più naturale del mondo per un ebreo tributare un tale culto personale
- questi comportamenti pratici ed evidenti, oltre a costituire un ottimo motivo per le persecuzioni subite dai seguaci del Cristo in ambiente giudaico, danno un indirizzo fondamentale per stabilire quale fosse effettivamente la cristologia dei primi anni/decenni. O mi sbaglio?
Calcolando la datazione di 1Corinzi: in quali anni si può collocare il rito della Cena, che se "eseguito male", secondo Paolo, determina auto-condanna e costituisce peccato contro Cristo? (Domanda: in che senso si pecca contro Gesù Cristo? Chi è, per un ebreo, colui contro il quale se io sbaglio un rituale sto peccando? Paolo, parla di "colpevoli contro il corpo del Signore" e di "ammalati e morti" a causa di questa colpa = il concetto di peccato di quel tempo)

1Cor 8 (scritto da Paolo, se confermate, al più tardi nel 55)
5In realtà, anche se vi sono cosiddetti dèi sia nel cielo che sulla terra – e difatti ci sono molti dèi e molti signori –,
6per noi c’è un solo Dio, il Padre,
dal quale tutto proviene e noi siamo per lui;
e un solo Signore, Gesù Cristo,
in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo grazie a lui.


Ora: si può "esistere" grazie ad un angelo, ad un profeta, alla creatura esaltata, al servo sofferente innalzato o al Messia-Re? O forse in greco la frase ha altri sensi che io non posso vedere?

Se casualmente in tutto questo ho messo giù qualche mezza parola giusta e In Topic, avvertitemi e ne sarò molto felice :)
 
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Sant'Atanasio
view post Posted on 19/3/2016, 09:06     +1   -1




Alla splendida zampata della leonessa Askerella aggiungo questa analisi delle tesi di Bauckam su Rom 9,5 (parla anche della preesistenza e dell'inno di Filippesi, tuttavia l'ho messo perché qua dimostra che non esiste nessun valido motivo per rifiutarsi di attribuire la dossologia di Rom 9,5 al Figlio, come ha sempre fatto la Tradizione. )https://books.google.it/books?id=je7UAAAAQ...209%2C5&f=false
;)

In quel link si parla anche di Ebrei 1,1-14, in cui spicca certamente Ebrei 1,1-8 " al Figlio invece dice: Il tuo trono, Dio, sta nei secoli dei secoli". :)

Del post di Askerella, che quoto integralmente, mi sento di porre in evidenza soprattutto queste importanti considerazioni, che secondo me rappresentano uno dei punti deboli della ricerca attuale, sarà interessata sentire le risposte alle sue domande.

CITAZIONE (askerella @ 19/3/2016, 01:31) 
Domanda: è possibile fare "storia" della cristologia attenendosi solamente e strettamente agli scritti (canonici) del Nuovo Testamento tipo Sola Scriptura? Non è in qualche modo una contraddizione in termini?
Primo, perché la Sola Scriptura è già di per sè una teologia ben precisa. Quindi è proprio Teologia, e non Storia.
Secondo, perché la Storia non mi sembra si faccia solo considerando l'esegesi di alcuni limitati e delimitati documenti scritti
Terzo, perché in gran parte quei documenti non intendevano essere una trattazione di cristologia per i posteri
Quarto, perché scegliere di analizzare solo scritti canonici della Chiesa Cattolica e nel contempo rifiutare la Tradizione che quegli scritti ha scelto come una parte della Testimonianza.... mi sembra un controsenso. Non vedo perché nella cristologia non debbano entrare le teologie rabbiniche, le espressioni cultuali, l'AT, i Talmud, la tradizione orale cristiana e quant'altro ci possa servire per un'analisi completa......
Quinto: non vedo perché si debba distinguere necessariamente tra un Prima e un Dopo quando si considera uno spazio di soli 40 anni (mi pare, circa) tra gli scritti di Paolo e Giovanni (Non eravamo mica in èra internet e neanche èra carta stampata!).
Non è più sensato pensare a macchie di leopardo e a scopi diversi degli scritti , a destinatari diversi, e/o a linee catechetiche diverse degli autori? Pensiamo ad esempio ad un prete che oggi facesse catechismo ai ragazzini, ad adulti poco scolarizzati, oppure tenesse una conferenza di teologia ad adulti laureati in quella materia: la cristologia sarebbe la stessa, mentre le espressioni linguistiche sarebbero molto diverse.

Le restanti sue considerazioni mi trovano totalmente d'accordo e sono pienamenre in armonia con Hurtado e Bauckam, due grandi studiosi.

Edited by Sant'Atanasio - 19/3/2016, 09:26
 
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askerella
view post Posted on 21/3/2016, 22:55     +1   -1




Sempre allo scopo di tracciare un'ampia cornice attorno al tema principale trovo interessanti le seguenti riflessioni-studi di Mark Nanos su Paolo e la Shemà http://jewishstudies.eteacherbiblical.com/...y-of-the-shema/
(Si può scaricare il documento integrale)
Significativo anche il commento di James T. Mace, sotto l'articolo linkato.

Unico problema: non conosco l'autorevolezza (o meno) di Mark Nanos a livello accademico. In generale io viaggio su ciò che mi sembra sensato, e non solo sui titoli dei personaggi. Su quel blog/forum di studi biblici trovo molte volte spunti intelligenti.

P.s. Atanasio... "zampata" (di leonessa pure!) mi sembra un tantino esagerato :00024012.gif:
Non ho inteso prendere a zampate nessuno. Mi interessa studiare :mf_bookread.gif: Nel miglior modo possibile. Come on, state buoni e concentrati sul topic.

Edited by askerella - 21/3/2016, 23:20
 
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JohannesWeiss
view post Posted on 22/3/2016, 04:17     +1   +1   -1




Cristologia della preesistenza in Paolo?

Prolegomeni abnormi su un versetto irrilevante: Rm 9,5

ὧν οἱ πατέρες, καὶ ἐξ ὧν ὁ χριστὸς τὸ κατὰ σάρκα ὁ ὢν ἐπὶ πάντων θεὸς εὐλογητὸς εἰς τοὺς αἰῶνας· ἀμήν.

Prima di dare il via alla serie di osservazioni che ho preparato sui vari passi paolini in cui parrebbe essere attestata l’idea della preesistenza di Cristo (cioè, oltre a Fil 2,6-11 già trattato: 1 Cor 15,47;2 Cor 8,9; 1 Cor 10,4; Gal 4,4; Rm 8,3; 1 Cor 8,6, per terminare con il deutero-paolino Col 1,15-20), ci tenevo a mettere in chiaro perché Rm 9,5 sia un testo trascurabile. Avrei potuto limitarmi a spiegarlo e basta… ma ho preferito stupirvi con gli effetti speciali. :B):
E così ho deciso di propinarvi un indigeribile elenco di opinioni recenti (dal 1985 in poi – esclusi quindi gloriosi commentari come quelli di Schlier [C], Cranfield [C], Kuss [T], Kaesemann [T], Wilckens [T] etc.) sulla nota crux interpretum se il v. 5b sia da intendere come proposizione relativa, così che la dossologia risulta riferita a Cristo, che sarebbe perciò qualificato come “Dio” in senso assoluto (il che non ha analogie in Paolo); oppure se sia da intendere come una dossologia separata (inserendo quindi un punto o dopo kata sarka o dopo epi pantōn) indirizzata a Dio (il Padre), come sarebbe senz’atro più appropriato rispetto alla teologia paolina, nonché, probabilmente, nel contesto specifico del discorso.
Come potete constatare, gli studiosi continuano – oggi come ieri – ad essere equamente divisi tra le due opzioni principali… cioè in realtà sarebbero di più, alcuni ne contano 4, 6, perfino 8, ma si usa semplificare la questione all’alternativa tra lettura cristologica e lettura teologica.
A dirla tutta, però, buona parte del “fronte cristologico” è composta da esegeti evangelici conservatori (Carraway, Harris, Longenecker, Moo, Schreiner, Wright – forse lo stesso Talbert –, pur potendo vantare anche nomi altisonanti e più o meno “liberal” come Brown, Fitzmyer, Ehrman e Casey), mentre il “fronte teologico” è senz’altro più vario in termini sia confessionali che di orientamento critico, per cui nel complesso sarei incline a dire che quest’ultimo indirizzo è quello un po' più rappresentativo del panorama esegetico degli ultimi decenni, anche se proprio in questi ultimissimi anni si può notare un certo trend favorevole alla lettura cristologica, in particolare nel filone dei nuovi studi cristologici (non però Hurtado; e probabilmente nemmeno Bauckham, che nel suo Jesus and the God of Israel fa solo un paio d'accenni in nota a Rm 9,5 senza pronunciarsi in un senso o nell'altro).
Quanto invece agli argomenti in gioco, vi accorgerete che spesso si ripetono, per cui non c’è molto di nuovo sotto il sole (con l’eccezione forse della tesi di dottorato di Carraway, che non ho avuto tempo di guardare).
Si può dire che tutti riconoscono che la lettura cristologica è la più soddisfacente dal punto di vista sintattico; al che si suole obiettare che essa è scarsamente compatibile con il resto della cristologia paolina, e – secondo vari esegeti – anche con l’argomentazione di Paolo nel contesto immediato.
Si tratta quindi di decidere cosa sia “meno peggio”: una buona teologia paolina espressa in una forma infelice, oppure un momento di semi-infermità teologica di Paolo, immortalato in una frase ineccepibile?
Per qualunque partito propendiate (io sto ovviamente con il fronte teologico), la questione è pressoché irrilevante per la questione della “cristologia della preesistenza in Paolo”. Perché quand’anche Paolo, in un attacco di febbre, abbia qualificato Cristo come Dio tout court, questo non ci dice ancora nulla circa la problematica che qui ci interessa: theos benedetto nei secoli, ok… ma in che senso?
Difatti, come potrete constatare voi stessi, alcuni proponenti della “lettura cristologica” sono inclini a vedere in Rm 9,5 una variante della cristologia a due stadi di Rm 1,3-4, ovvero una cristologia dell’esaltazione… un po’ troppo esaltata! (vedi gli studiosi indicati con “C-ex”, nonché la discussione in Pitta 2001; e forse anche la stessa proposta di Casey, secondo cui Paolo avrebbe qualificato Cristo come Dio un po’ ad cazzum, va nella stessa direzione).

E ora, se ne avete il fegato, sorbitevi pure sto mattonazzo di status quaestionis, organizzato in quattro sezioni principali: 1) commentari sulla Lettera ai Romani; 2) commenti brevi all’interno di commentari generali alla Bibbia; 3) altre pubblicazioni su Rm 9,5 e su Paolo; 4) studi di cristologia del NT.


Legenda

T = lettura teologica (v. 5b dossologia autonoma, separata dal v. 5a, e riferita a Dio [i.e. il Padre], non a Cristo)
T+C = lettura principalmente teologica, ma intenzionalmente abbracciante anche quella cristologica.
C = lettura cristologica (v. 5b proposizione relativa con soggetto Cristo = dossologia a Cristo come Dio)
C-ex = lettura cristologica in chiave esaltata (come sopra, ma facendo intendere che Cristo è chiamato “Dio” in quanto Signore risorto/esaltato, in parallelo al “kata sarka” del v. 5a, analogamente a “dalla stirpe di Davide kata sarka / Figlio di Dio kata pneuma” in Rm 1,3-4)
C-ang = lettura cristologica in chiave angelica (importata però da altrove, spec. Fil 2,6-11)
C-cas = lettura cristologica in chiave casuale (si ritiene che non fosse così inusuale per gli ebrei del tempo “spararla grossa” occasionalmente, qualificando come “Dio” personaggi di grande importanza, ad es. Mosè e Melchisedek).
Em = lettura emendata in via congetturale per sfuggire al dilemma tra T e C.

Sintesi delle opzioni interpretative rilevate su un campione di 36 studiosi, dal 1985 ad oggi

(se qualcuno ha il commentario di Simon Légasse, tradotto da Queriniana, mi faccia un fischio)

T = Betz, Byrne, M. De Jonge, Dunn , Fee, C.C. Hill, Hultgren, Hurtado, Kuschel, Lohse, P.W. Meyer, Penna, Pitta, Schmithals, Stuhlmacher, Tuckett, Zeller (totale: 17)
C = Brown (ex?), Carraway, Casey (cas), Ehrman (ang), Fitzmyer (ex?), Harris, Jewett, Kammler, Légasse, Longenecker, Matera (ex), Moo, Schnelle, Schreiner, Talbert, Waddell, Wright (totale: 17)
T+C = Karrer
Em = Ziesler

COMMENTARI

Dieter Zeller, La lettera ai Romani, NTC, Brescia, Morcelliana, 1998 [1985], 272. [T]
A prima vista la sintassi consiglia di riferire il v. 5b a Cristo (così recentemente C.E.B. Cranfield e, con esitazione, H. Schlier). Paolo con queste parole infrangerebbe la prospettiva giudaica e darebbe espressione erompente alla propria fede cristiana. Ma ciò qui è appropriato? L’asserzione diretta che Cristo è Dio non compare in nessun altro luogo in Paolo. A un più attento esame si scoprono a sufficienza anche analogie formali della costruzione malriuscita, la quale è dovuta al fatto che il soggetto “Dio” deve venir ripreso. Solo allora anche “lodato”, come altrove nell’eulogia, è vero predicato.


James D.G. Dunn, Romans 9-16, WBC, Dallas, Word Books, 1988, 528-529, 535-536. [T]
The arguments on how to punctuate this much disputed line have been well rehearsed on both sides and need not be labored here. There are two main options.
1) The first is to read it as a relative clause, whose antecedent is Χριστός, that is, as a reference to Christ. The key considerations here are: A) this is stylistically the most natural reading. B) It accords with Paul’s style elsewhere (Rom 1:25; 2 Cor 11:31; Gal 1:5; 2 Tim 4:18); though 2 Cor 11:31, the closest parallel in form, could perhaps point in the other way, since the relative clause is so poorly articulated to its context – “he who is blessed for ever”. C) In an independent doxology we would expect εὐλογητός to come first (as in Luke 1:68; 2 Cor 1:3; Eph 1:3; 1 Pet 1:3); though Pss 67:19 LXX [= 68:19 with added doxology] and 71:7 LXX [= 72:17] do provide something of an alternative precedent […].

2) The second option is to read it as an independent doxology.
A) This is the more natural reading in terms of the flow of thought: (i) a Jew thinking of God’s blessing to Israel would naturally end with such a benediction to the God of Israel; (ii) “God over all” is precisely what we would expect Paul to say, since he enumerates Israel’s blessings not as theirs alone but as God’s blessings for all (cf. 3:29-30; 4:13-17; and the converse argument of 3:1-6); (iii) the titular reference to Christ, “the Messiah”, ranks him as one of Israel’s privileges, indeed, in Paul’s perspective, the greatest (the climatic point in the list), whereas a jump to describe the Messiah as “God over all” would be unexpected, to say the least; (iv) and if some kind of contrast is intended between Christ’s earthly and heavenly state (Cranfield, Schlier) we would have expected that to be more clearly marked, either by some kind of antithetic parallelism (1:3-4) or by some adversative.
B) The Christology implied in [1] would imply that Paul had abandoned all his inhibitions and theological circumspection so carefully maintained elsewhere (even in Col 1:15-20, note both halves of the hymn; in Phil 2:6-1 note the final phrase; and in Titus 2:13 Christ is identified more precisely as “the glory of the great God”). It is more likely that an unqualified reference to “God over all” would be naturally intended and taken as a reference to the one God (cf. Eph 4:6).
C) The Conclusion to this whole section (11:33-36) strongly suggests that Paul wanted to retain his categories within the recognized limits of current Jewish theology (see also Kuss, 678-96).

[…] As the syntax stands, the line could very readily be punctuated to read the doxology as referring to “the Christ according to the flesh who is God…”. On the other hand, Paul’s syntax is notably irregular and readers who would be conscious of the need to phrase the unpunctuated text would not necessarily read on without a break. The recognition of a doxology in the text would invite a pause as much as the opening relative clause would invite an unbroken phrasing. Again, while Paul was already well used to associating Christ with God and attributing divine function to Christ (Rom 1:7; 1 Cor 8:6) it is less likely that he would have intended Christ to be hailed as “God over all” (contrast 1 Cor 15:24-28).
Just as unlikely is that the juxtaposition of references to the Messiah of Israel and “God over all” would be read as an identity; the more conscious his readers were of the continuity between Israel’s faith and Paul’s gospel the less likely they would be to read the ambiguous phrasing as the abrupt departure from Israel’s monotheism which the more straightforward syntax would imply. In fact it is probably Paul’s desire to stress the universality of God’s embrace, Gentile as well as Jew, which results in the unusual phrasing. Just as in 3:29-30 he used Jewish monotheism to make the same basic point, so here rather than the more regular form of the doxology to the one God (“Blessed be God…”) he chooses to stress that the God he adores is God over all: “he who is God over all, may he be blessed for ever, Amen”.


Walter Schmithals, Der Römerbrief: Ein Kommentar, Gütersloh, Güterslohrer, 1988. [T]

Peter Stuhlmacher, La lettera ai Romani, NT II, Brescia, Paideia, 2002 [1989]. [T]

John Ziesler, Paul’s Letter to the Romans, TPINTC, London, SCM Press, 1989, 238-239. [Em]
A) If we punctuate as in RSV, with a full stop after 'the Christ', the ascription of blessing is made to God. B) If, however, a comma is placed after 'Christ', the rest of the sentence must run 'who is God over all, blessed for ever'. On this punctuation, Christ is then unambiguously identified with God.
Although it can be argued that sintactically (B), which identifies Christ and God, is to be preferred, many scholars nevertheless find (A) more appropriate. This is because while elsewhere Paul ascribes divine function to Jesus Christ, he nowhere says that he is God without qualification. Some scholars, finding the issue impossible to settle, have favoured another possibility.
C) There is a conjectural emendation which replaces “whose” for “who” (hōn ho instead of ho ōn). The effect is to put at the end of the enumeration of the privileges of the Jews, “whose is the God blessed for ever”. The question of the relation of Christ to God thus does not arise at all. Our choice is therefore between a plausible emendation, which is unfortunately not supported by the MSS, natural syntax with unusual Christology, and a reading which raises no theological problems but which involves a change of subject between “Christ” and “God” (a change which would normally be marked by an adversative particle, such as de, but is not so marked in this case). The whole point is decidedly moot, and although conjectural emendation can be over-bold, there is a good deal to be said for it in this instance.


Joseph A. Fitzmyer, Lettera ai Romani. Commentario critico-teologico, Casale Monferrato, Piemme, 1999 [1993], 651-654. [C – ex?]
Per la punteggiatura di questa parte del versetto, sono quattro le proposte più rilevanti:
1) Una virgola prima dell’espressione participiale ὁ ὢν: “… proviene il Messia, che è Dio sopra ogni cosa benedetto nei secoli”. E’ questa la lezione preferita dalla stragrande maggioranza degli interpreti della lettera ai Romani nei primi otto secoli (in pratica da Ireneo a Erasmo). Questa interpretazione è stata adottata anche da molti commentatori moderni e da numerose edizioni critiche del testo: Althaus, Asmussen, Bardenhewer, Best, Bisping, Bruce, Brunner, Corneley, Cranfield, Cullmann, Gutjahr, uby, Jacono, Kühl, Lagrange, Leenhardt, Lyonnet, Metzger, Michel, Murray, Nygren, Pesch, Plummer, Prühmm, Reithmayr, Ridderbros, Sanday e Headlam, Schlatter, Schlier, Schmidt, Sickenberger, Tholuck, B. Weiss, Zahn; Bover, Merk, Nestle-Aland 26, UBSGNT 3, Von Soden, Vogels. Secondo questa punteggiatura, Paolo dichiara che Cristo è preminente fra le prerogative d’Israele, anche come Dio (ma non ὁ θεός) e benedetto nei secoli […]

2) Un punto prima dell’espressione participiale: “…proviene il Messia. Dio che è sopra ogni cosa (sia) benedetto nei secoli”. Così i mss. A, C, Eusebio, Erasmo (che ha introdotto il dibattito moderno sulla punteggiatura); Abbott, Barrett (?), Black, Bultmann, Burkitt, Byrne, Cerfaux, Dodd, Dunn, Feine, Gaugler, Goodspeed, Harrisville, Jülicher, Käsemann, Kümmel, Kuss, Lietzmann, Lipsius, Maillot, P.W. Meyer, Michel, Oltramare, Robinson, Tylor, Wilckens, Zeller, Nestle-Aland 25, RSV, NEB. Secondo questa lezione, Paolo afferma la discendenza naturale di Cristo da Israele, e quindi, a motivo di essa, formula una dossologia che esalta la preminenza di Dio, secondo lo stile delle dossologie giudaiche. Cristo è così il punto culminante delle prerogative di Israele, in quanto Messia, e Paolo loda Dio per questo. Per molti commentatori questa interpretazione è richiesta da 1 Cor 15,27-28.

3) Una virgola dopo “Messia”, e un punto dopo “sopra ogni cosa”: “…proviene il Messia, che è sopra ogni cosa. Dio (sia) benedetto nei secoli”. Così Reuss e la nota ai margini in NEB. Secondo questa lezione, Paolo riconosce la discendenza naturale di Cristo da Israele, afferma la sua preminenza fra le prerogative del popolo eletto e, per questo, loda Dio con una dossologia.

4) Un’inversione di ὁ ὢν e un diverso spirito e accento su ω: ὧν ὁ: “(e) ai quali (appartiene) colui che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli”. A menzionare la possibilità di questa congettura è J. Szlichting (un sociniano nel sec. XVI, che però non la adotta); è usata invece da S. Crellius (in un commentario al vangelo di Giovanni, 1726), dal primo K. Barth, da Dodd, Harder, Lorimer, Strömann, J. Weiss, Wettstein e La Bible de Centenaire. Bartsch la sostiene sulla base del confronto con 1 Clem 32,4. Secondo questa lezione Paolo affermerebbe che Cristo, grazie alla sua discendenza naturale, è una prerogativa di Israele, ma che Dio è preminente e benedetto nei secoli e, in effetti, è la nona prerogativa d’Israele.

Le ultime due interpretazioni sono improbabili e hanno ben pochi motivi validi a sostegno. La scelta cade fra la prima e la seconda interpretazione.
La preferenza data alla prima si basa soprattutto sulle seguenti quattro considerazioni:
A) Essa esprime il senso normale di questo semi-versetto nel contesto; l’espressione τὸ κατὰ σάρκα, “per discendenza naturale”, esige un contrasto, e tale contrasto si trova appunto nel resto del versetto che si riferisce a Cristo. Barrett, il quale poi usa il punto, fin qui è d’accordo.
B) Si può dire che una dossologia è al posto giusto all’interno di un paragrafo che esprime sofferenza e dispiacere? Käsemann pensa di sì.
C) Non viene usata la fraseologia normale della dossologia, secondo la quale εὐλογητός, “benedetto”, dovrebbe precedere θεός. Si veda, per un confronto, bārûk JHWH, “(Sia) benedetto il Signore” (ad es. Gn 9,26; 24,27; Es 18,10; 1 Sam 25,32; Sal 41,14); nella LXX, εὐλογητὸς Κύριος [ὁ θεός]. L’eccezione nella LXX di Sal 67,19 (Κύριος ὁ θεὸς εὐλογητός) è solo apparente, essendo una glossa aggiunta alla vera dossologia che troviamo in 67,20 (εὐλογητὸς Κύριος [vedi il TM]). Negli scritti di Paolo non si trova mai una dossologia unita asindeticamente con ciò che precede o con il soggetto espresso in antecedenza. In Paolo di solito la dossologia è in continuazione con ciò che precede, come parte integrante della proposizione (vedi Rm 1,25; 11,36; Gal 1,5; 2 Cor 11,31; cfr. Ef 3,21; 2 Tim 4,18; 1 Pt 4,11; Eb 13,21).
D) L’uso di θεός in riferimento a Cristo è compatibile con la dottrina paolina, anche se Cristo non è mai dichiarato direttamente θεός altrove in Paolo, salvo, forse, in Gal 2,20, che è un altro passo problematico. Tuttavia, in base ad altre asserzioni di Paolo si può dire che questo titolo attribuito a Cristo non è ingiustificabile (vedi 1 Cor 8,6; 12,3 e soprattutto – come ammette Käsemann – “Cristo l’essere celeste preesistente al quale spetta lo ἴσα θεῷ di Fil 2,6”). Cfrl Col 2,2; 2 Ts 1,12; Tit 2,13 per una possibile estensione nelle lettere deuteropaoline. E’ vero, altrove εὐλογητός è riservato da Paolo a θεός il Padre; ma se qui Paolo chiama Gesù θεός, allora εὐλογητός può essere visto come un’estensione del titolo del Padre al Cristo risorto [ndr: nota bene, il titolo di Dio viene partecipato al Cristo risorto, cioè al Signore esaltato, e quindi, anche inteso in senso cristologico, il passo non costituisce una prova dell’idea di preesistenza). Inoltre, se all’interno del NT si trovano di fatto delle dossologie rivolte al Cristo, come accade in Ap 1,6; 5,13; 7,10; 2 Pt 3,18 (e forse anche 1 Pt 4,11; 2 Tim 4,18), non è impossibile che Paolo usi εὐλογητός riferito a Cristo anche al di fuori di una dossologia. Per i motivi addotti in favore della dossologia rivolta a Dio, vedi Kuss. […] In ogni caso il problema non può essere impostato in forma apodittica.


Brendan Byrne, Romans, Sacra Pagina, Collegeville, Liturgical Press, 1996, 288. [T]
The translation, along with most interpreters, sees here a doxology piously added after the long list of all God’s gifts to Israel, rather than a qualification attributing to Christ as Messiah a divine status unparalleled in the New Testament before John 1:1, 18; 20:28 (cf. also Titus 2:13) and somewhat at odds with other christological statements in Paul, who accords Christ divine status but always in subordination to God the Father (cf. Phil 2:11; 1 Cor 8:6).

Douglas J. Moo, The Epistle to the Romans, NICNT, Grand Rapids, Eerdmans, 1996, 566-568. [C]
Arguments in favor of taking "God" as an appellation of "Messiah" greatly outweigh those that support the alternative. Favoring a comma after "Messiah" (and thus the first option) are several stylistic arguments. First, the words "the one who is"6 7 are most naturally taken as a relative clause modifying a word in the previous context (see the similar construction in 1 Cor. 11:31). Second, Paul's doxologies are never independent but always are tied closely to the preceding context. Third, independent blessings of God in the Bible, with only one exception (Ps. 67:19), place the word "blessed"69 in the first position. Here, however, the Greek word for "blessed" occurs after "God," suggesting that the blessing must be tied to the previous context. As Metzger points out, it is "altogether incredible that Paul, whose ear must have been perfectly familiar with this constantly recurring formula of praise, should in this solitary instance have departed from established usage". Fourth, as suggested above, the qualifying phrase "according to the flesh" implies an antithesis; and Paul usually supplies the antithetical element in such cases, rather than allowing the reader simply to assume it. In other words, we would expect, after a description of what the
Messiah is from a "fleshly" or "this-worldly" standpoint, a description of what he is from a "spiritual" or "otherworldly" standpoint; see especially Rom. 1:3-4.
Proponents of the other interpretation [T], the placing of a period after "Messiah," admit the force of these arguments but insist that they are outweighed by theological and contextual considerations. The theological issue boils down to the insistence that Paul does not elsewhere call Jesus "God" and that, considering his Jewish monotheistic background, it is very unlikely that he would have done so. But this objection cannot stand. First, Paul almost certainly does call Jesus "God" in one other text (Tit. 2:13). Second, the exalted language Paul uses to describe Jesus72 as well as the activities Paul ascribes to him clearly attest Paul's belief in the full deity of Christ. The argument from context is that it would be inconceivable for Paul to describe Christ as God in a passage in which he is trying to create common ground with his unbelieving "kindred." However, as we have noted, Paul's shift in construction when introducing the Messiah implies already a certain "distance" between unbelieving Jews and the reality of Jesus the Messiah. And this fits naturally into Paul's overall perspective, accenting his grief at Jewish unbelief by highlighting the divine status of the Messiah whom his fellow Jews have rejected.
Connecting "God" to "Christ" is therefore exegetically preferable, theologically unobjectionable, and contextually appropriate. Paul here calls the Messiah, Jesus, "God," attributing to him full divine status. The frequent association of God with "blessed" makes it likely that these should be kept together, and the whole taken in apposition to "the one who is over all": "Christ, who is supreme over all things, God blessed forever" (thus, essentially, option l.a above).


Thomas R. Schreiner, Romans, BECNT, Grand Rapids, Baker Academic, 1998. [C]
The remaining portion of the verse (ὁ ὢν ἐπὶ πάντων θεὸς εὐλογητὸς εἰς τοὺς αἰῶνας, ἀμήν, ho ōn epi pantōn theos eulogētos eis tous aiōnas, amēn, the one who is over all, God blessed for the ages, amen) is the subject of ongoing and intense controversy, for scholars debate whether Jesus or the Father is called θεός (theos, God) here. A number of scholars have thoroughly treated the controversy over the meaning of the verse; here I will sketch in the central issues for deciding its meaning.[16] The verse can be punctuated many different ways (cf. Cranfield 1979: 465; Metzger 1980: 95–99; Harris 1992: 150–51).[17] If the reference is to Christ, then the main options are either “Christ . . . who is over all, God blessed forever. Amen”; or “Christ . . . who is God over all, blessed forever. Amen.” If the reference is to God, the phrase ὁ ὢν ἐπὶ πάντων could be construed as referring to Christ, with Paul breaking off and saying with reference to the Father “God be blessed forever. Amen.” If the whole phrase refers to God, then it would more likely read either “God who is over all be blessed forever. Amen” or “He who is over all, God, be blessed forever. Amen.”
Support for a doxology to God is multifaceted: (1) Εὐλογητός is always used with reference to God in the NT (Mark 14:61; Luke 1:68; Rom. 1:25; 2 Cor. 1:3; 11:31; Eph. 1:3; 1 Pet. 1:3). (2) Nowhere else does Paul use θεός to refer to Christ, and thus it is antecedently improbable he would do so here. (3) The abnormal word order—with εὐλογητός following θεός—is due to Paul’s desire to emphasize God’s lordship over all, a typical Jewish theme (cf. Ps. 67:19–20 LXX). (4) No doxologies to Christ exist in the indisputable Pauline letters. (5) The closest parallel is in Eph. 4:6, and there the Father is said to be ὁ ἐπὶ πάντων (ho epi pantōn, the one who is over all). (6) A closing reference to God is typical of Jewish writing. (7) The doxology in Rom. 11:33–36 does not refer to Christ, suggesting that the same is true in 9:5.
The above reasons, although diverse, boil down to one fundamental objection: it is improbable that Christ would be called θεός since this is uncharacteristic of Paul elsewhere.

Despite the strength of that argument, there are a number of reasons for believing that Paul departs from his usual practice and refers to Christ as θεός here.
(1) Although not demanding an explicit contrasting phrase, the phrase τὸ κατὰ σάρκα fits more smoothly if a contrasting phrase is included. The climactic nature of the series comes to a stunning conclusion, for though Christ descended from Israel in terms of his ethnic identity, he transcends that identity since he also shares the divine nature.
(2) The natural antecedent to ὁ ὢν is Χριστός, for doxologies are virtually always attached to the preceding word and asyndetic doxologies do not exist (cf. Rom. 1:25; 11:36; 2 Cor. 11:31; Gal. 1:5; Eph. 3:21; Phil. 4:20; 1 Tim. 1:17; 2 Tim. 4:18; Heb. 13:21; 1 Pet. 4:11; 2 Pet. 3:18). Second Corinthians 11:31 is a particularly striking parallel: ὁ θεὸς καὶ πατὴρ τοῦ κυρίου Ἰησοῦ οἶδεν, ὁ ὢν εὐλογητὸς εἰς τοὺς αἰῶνας (ho theos kai patēr tou kyriou Iēsou oiden, ho ōn eulogētos eis tous aiōnas, the God and father of the Lord Jesus knows, who is blessed forever). The participle ὁ ὤν in this instance naturally refers back to ὁ θεὸς καὶ πατήρ, and the same principle applies in Rom. 9:5, with the result that ὁ ὤν refers back to Χριστός.
(3) If this were an independent doxology to God, then the word εὐλογητός would occur first, as it does in every other instance in the LXX and NT, for the forms εὐλογητὸς ὁ θεός, εὐλογητὸς κύριος ὁ θεὸς, and εὐλογητὸς κύριος are standard in doxologies.[20] The only apparent exception is Ps. 67:19–20, but even in this case it is doubtful that the exception is legitimate (cf. Dwight 1881: 32–33; Harris 1992: 161–62; Fitzmyer 1993c: 549).
(4) To break off and utter praise to God in a context in which Paul grieves over Israel sits awkwardly in the context since the flow of the argument is that Paul laments over Israel’s separation from Christ even though they have received divine privileges. To ascribe blessedness to Christ after identifying him with θεός fits more naturally into the context since the Messiah sharing the divine nature is the consummation of Israel’s privileges. Indeed, an ascription of deity to Christ heightens the profundity of Paul’s grief. Not only have the Jews rejected the Messiah, who is ethnically related to them, they also are spurning one who shares the divine nature with the Father.
(5) That Paul would call Christ “God” is also credible given Phil. 2:6, where Jesus is said to be “in the form of God” (ἐν μορϕῇ θεοῦ, en morphē theou) and “equal to God” (ἴσα θεῷ, isa theō); Col. 1:15, where he is “the image of the invisible God” (εἰκὼν τοῦ θεοῦ τοῦ ἀοράτου, eikōn tou theou tou aoratou; cf. also 1 Cor. 8:6; Col. 1:19; 2:9); and the application to Christ of OT texts that refer to “Yahweh” (cf. Rom. 10:13; Phil. 2:10–11). Although the authenticity of the Pastorals is debated, as is the meaning of Titus 2:13, it is quite probable that the letters are genuine and that Paul refers to Christ as “God” there as well (cf. Harris 1992: 173–85).
The notion that the ascription of θεός to Christ is incompatible with Pauline thought should therefore be rejected. I should note that Paul does not say that Christ is θεός in an exhaustive sense, for the distinction between Christ and the Father must also be maintained (1 Cor. 15:28). The implication here is that Christ shares the divine nature with the Father.
Having concluded that the reference is to Christ, should we understand the verse to say that Christ “is over all, God blessed forever,” or that Christ “is God over all, blessed forever”? The latter option is less likely since it could imply that Christ exercises universal sovereignty even over the Father (despite the view of Alford 1976: 405; Nygren 1949: 358; Michel 1966: 229; Fitzmyer 1993c: 539). Thus one should prefer the former option, which speaks of the universal sovereignty of Christ as Lord (cf. Rom. 1:3–4; 10:12; 14:9; Eph. 1:20–23; Phil. 2:9–11; Col. 1:15, 17–18; so Sanday and Headlam 1902: 238; Murray 1965: 248; Cranfield 1979: 451, 469; Harris 1992: 166). The idea communicated is one of universal sovereignty over all things, not merely his lordship over history (Käsemann 1980: 260) or over other creatures (Reicke, TDNT 5:889). Indeed, given the argument of Romans, “all” especially includes the Gentiles. The Messiah from Israel is the God over all, both Jews and Gentiles. He is not merely the God of the Jews; he is also the God of the Gentiles (Rom. 3:29–30). The paragraph concludes by highlighting the stunning nature of the Jews’ rejection of Jesus as Messiah, for the Jews are separated “from the Messiah” (9:3), who is not merely ethnically descended from them but also the Lord of all and who even shares the divine nature.


Antonio Pitta, Lettera ai Romani, LBNT, Milano, Paoline, 2001, 338-339. [T]
A favore dell’interpretazione teologica bisogna riconoscere che nell’epistolario paolino, a eccezione del passo deuteropaolino di Tt 2,13, Gesù Cristo non è mai definito come Dio. Anche le dossologie paoline sono principalmente volte a Dio e non a Gesù Cristo, soprattutto quelle introdotte dal termine eulogētos (cfr. Rm 1,25; 2 Cor 1,3; 11,31; Ef 1,3). Lo stesso vale per le dossologie che si chiudono con l’espressione “per i secoli, amen”: hanno sempre, come ultimo referente, Dio e non Gesù Cristo (Rm 1,25; 11,31; 16,27; 2 Cor 11,31; Gal 1,5; Fil 4,20).
A favore dell’interpretazione cristologica, è necessario rilevare che questo tipo di dossologia finale si riferisce sempre al soggetto della formulazione precedente e non è a sé stante: il soggetto che precede la dossologia del v. 5b è il Cristo e non Dio. Se il soggetto della dossologia fosse stato Dio, la prima posizione sarebbe stata occupata da “Dio benedetto” e non da “il quale è su tutte le cose”.
A sostegno della valenza cristologica, alcuni adducono anche la relazione tra il v. 5 e Rm 1,3-4, ossia con la formula prepaolina dei due livelli della cristologia, quello della relazione “secondo la carne” con Davide e quello della “costituzione di Figlio di Dio in potenza, secondo lo Spirito di santificazione”. Così ora, da una parte, Paolo riconoscerebbe che il Cristo, secondo la carne, è in definitiva il privilegio fondamentale del popolo ebraico, dall’altra preciserebbe che è egli è anche Dio benedetto per i secoli [ndr: in quest’ottica, tuttavia, la dossologia esprimerebbe la divinità di Cristo in senso funzionale/adottivo, come appunto in Rm 1,3-4, senza quindi implicare necessariamente la sua preesistenza]. D’altro canto, anche se Paolo non dice mai esplicitamente che Gesù è Dio, come invece nella cristologia giovannea (cfr. Gv 1,1.18; 20,28), lo riconosce come ‘Signore’ e nell’inno prepaolino di Fil 2,61-11 sottolinea la sua uguaglianza con Dio (v. 6).
Tuttavia proprio questi paralleli in cui Paolo pone in particolare risalto la natura divina di Gesù Cristo, permettono di propendere leggermente per l’interpretazione teologica: Gesù è di “natura divina” (Fil 2,6), “figlio di Dio” (Rm 1,4), “icona di Dio” (2 Cor 4,4) ma Paolo non lo chiama mai direttamente Dio; e questo denominatore comune del suo pensiero, dovuto al solido monoteismo giudaico, così articolato, va rispettato. Per questo preferiamo separare il v. 5a dal v. 5b, attribuire anche questa dossologia a Dio e rinviare tutti i privilegi degli israeliti, compreso quello del Messia secondo la carne, alla origine divina.


Simon Légasse, L’epistola di Paolo ai Romani, Brescia, Queriniana, 2004 [2002], 452-454. [C]
La frase ho ōn epi pantōn theos euloghētos eis tous aiōnas ha ricevuto almeno sei interpretazioni. Possono essere, comunque, ripartite in tre categorie, a seconda della scelta sintattica che si effettua: o si riferisce la frase citata a Christos, o soltanto il suo inizio (ho ōn epi pantōn), essendo il resto una dossologia a parte; oppure tutta la frase è considerata come una dossologia, indipendente da Christos.
È chiara la posta in gioco cristologica della scelta. Mentre nella prima lettura il Cristo è confessato come Dio (theos), nelle due altre non è più così. L’obiezione essenziale contro la prima esegesi sta nel fatto che in nessun’altra parte delle sue lettere Paolo designa mai il Cristo come “Dio”.
Ma per quanto riguarda le altre interpretazioni, si scontrano anch’esse con delle difficoltà. Separare tutta la frase da quanto precede costringe a fare di frase ho ōn epi pantōn il soggetto della frase, con theos come apposizione a detto soggetto (“Colui che è al di sopra di tutti [o di tutto] Dio, [sia] benedetto nei secoli”). In questo caso, però, Paolo si sarebbe espresso come non fa mai, perché in lui le dossologie fanno sempre corpo con quanto precede a cui si collegano mediante una connessione grammaticale.
Questa osservazione vale anche per la lettura che taglia la frase in due, considerando theos euloghētos ktl., come una dossologia a parte. A tutto questo bisogna poi aggiungere che nelle dossologie bibliche, con una eccezione (Sal 67 [ebr. 68],20), l’aggettivo euloghētos (traduzione dall’ebraico bârûk) sta sempre all’inizio, un uso che anche il Nuovo Testamento segue.
Resta la prima interpretazione, tutto sommato la più ovvia da ogni punto di vista, se non fosse per la riluttanza a vedere Paolo attribuire al Cristo un titolo che, come tale, non appare in nessun’altra parte dei suoi scritti, e che si prova ancora più difficoltà a leggere in una formula cultuale a lui anteriore.
Ma se si lascia da parte la formula in se stessa, non c’è alcun dubbio che per Paolo, e già nella elaborazione cristologica che egli eredita, il Cristo è collocato nella sfera divina. Lo sappiamo grazie all’inno incorporato nell’epistola ai Filippesi, dove l’uguagliana con Dio (isa theō) è riconosciuta come un diritto naturale del Cristo. Paolo stesso, se si prescinde dalle epistole di cui è dubbia l’autenticità, o da passi dalle formule equivoche, ne dice abbastanza quando attribuisce al Cristo il titolo di “Signore” (kyrios), titolo di cui la Bibbia dei Settanta fa l’equivalente del Tetragramma sacro e che Paolo usa d’altra parte per Dio.
Quella costituita dal nostro passo, quindi, è solo relativamente un’eccezione e i primi lettori di Paolo vi avranno compreso ciò che scaturisce dall’insieme delle sue formule cristologiche: una partecipazione del Cristo alla divinità del “Padre”, di cui Gesù è il “Figlio” ad un titolo veramente unico.
Precisare il valore del sostantivo theos non è tutto in questa frase. In questa participiale sovraccarica, a che cosa bisogna collegare le parole epi pantōn e qual è il loro significato esatto? La cosa più facile è rispondere alla seconda domanda facendo una scelta tra il maschile e il neutro a favore del neutro. In effetti il Cristo glorificato, lo sappiamo da altri scritti, è diventato il padrone del mondo; gli viene affidato un regno che abbraccia non soltanto l’umanità, ma anche “tutte le cose” (ta panta) (1 Cor 15,28). La prima domanda è la più imbarazzante e si ha la scelta tra il collegamento di epi pantōn o a ho ōn (“colui che è al di sopra di tutto, Dio benedetto nei secoli”) oppure a theos (“colui che è Dio al di sopra di tutto, benedetto nei secoli”). Possiamo anche considerare le parole epi pantōn come un inciso (“colui che è, al di sopra di tutto, Dio benedetto nei secoli”). È comunque preferibile evitare una lettura che attribuisca al Cristo, in quanto Dio, un impero universale, cosa che risulta ovvia. Resta quindi la scelta tra la prima e la terza possibilità, senza che peraltro il testo venga influenzato dall’esegesi adottata.


Charles H. Talbert, Romans, SHBC, Macon, Smyth & Helwys, 2002, 248-249. [C]
Two options distill the essence of the possibilities. Either the words refer to Christ or they refer to God. If they refer to God, then one would translate: “from them comes the Messiah. The One being over all, God, be blessed into the age, Amen” (Nestle-Aland 26 ; REB; RSV; TEV; NAB). If they refer to Christ, then one’s rendering would be: “from them comes the Messiah, the one being over all, God, blessed into the age, Amen” (UBS 1; NIV; NRSV; NJB; NASV). The linguistic arguments favor the latter option. The natural antecedent of “the one being” is Christ because doxologies are virtually always attached to a preceding word (cf. Rom 1:25; 2 Cor 11:31; Gal 1:5; Eph 3:21; Phil 4:20; 1 Tim 1:17, 4:18; Heb 13:21; 1 Pet 4:11;
2 Pet 3:18). Moreover, if this were an independent doxology to God, then the word eulogētos would be expected to occur first (e.g., LXX Gen 9:26; 14:20; 24:27, 31; Exod 18:10; Ruth 4:14; 1 Sam 25:32; 2 Sam 6:21; 18:28; 1 Kgs 1:48; 8:15, 56, etc.; Luke 1:68; 2 Cor 1:3; Eph 1:3; 1 Pet 1:3; one possible exception = LXX Ps 67:19 [68:19], which reads: “The Lord, the God be blessed”). The major obstacle to a reference to Christ is theological. Would Paul call Jesus “God”? Those favoring the reading of Christ as God contend that it would not be out of step with Paul’s thought. The apostle applied LXX passages intended for Yahweh to Christ (e.g., Rom 10:13; Phil 2:10-11), invokes Christ in prayer (Rom 10:12-14; 1 Cor 16:22), refers to Christ and the Father together (Rom 1:7b; 8:35, 39; 2 Cor 13:13), and spoke of Christ as “in the form of God” (Phil 2:6). Also noted is that in the Deuteropauline Titus 2:13 Christ is likely referred to as God. Probably v. 5 should be translated as in the NRSV, with God referring to Christ. If so, then Paul would not have been referring to Christ as God in an exhaustive sense. What was intended is the claim that Christ shares the divine nature with the Father (cf. John 1:1-2,18; 20:28).


N.T. Wright, “The Letter to the Romans” in: L.E. Keck, ed., The New Interpreter's Bible. Vol. 10, Nashville, Abingdon, 2002, 629-631. [C]

Eduard Lohse, Der Brief an die Römer, MKEKNT, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 2003. [T]

Romano Penna, Lettera ai Romani. Vol. 2: Rm 6-11, SdOC, Bologna, EDB, 2006. [T]
[Non consultato direttamente – vedi però Penna 1999 sotto “Studi di cristologia del NT”]


Robert Jewett, Romans, Hermeneia, Fortress, Minneapolis, 2007, 566-568. [C]
The participle ὤν makes excellent sense in reference to Christ, with the connotation ‘who is really God,’ reflecting the controversial point.” […] “If salvation results from calling on the ‘name of the Lord’ (10:13), then the salvation of ‘all Israel’ in 11:26 would entail their recognition that Jesus is ‘really God over all things’ (9:5).
[non consultato direttamente – citazioni trovate online –. In ogni caso l’opzione di Jewett per C è certa]


Frank J. Matera, Romans, PCNT, Grand Rapids, Baker Academic, 2010, 221-222. [C – ex]
Although Paul does not otherwise predicate theos of Christ (but see Titus 2:13), it is not inconceivable that in this instance he is drawing a distinction between the earthly descent of the Messiah and his exalted status, much as he does in Rom 1:3-4. In predicating theos of Christ, then, Paul is not confusing Christ with God the Father (ho theos, ho patēr), but affirming that the one who is kyrios (Lord) shares in and enjoys the status of theos. [ndr: quindi, anche presa in senso cristologico, la dossologia non implica la preesistenza di Cristo, appunto perché riferita al Kyrios esaltato].


Arland J. Hultgren, Paul’s Letter to the Romans: A Commentary, Grand Rapids, Eerdmans, 2011, 353-355. [T]
The fact that the Christ is never spoken as “God” elsewhere in the undisputed letters of Paul speaks against any translation that would do so here, particularly in a portion of Romans where the Apostle uses theological expressions… [fine anteprima di Google Libri. In ogni caso Hultgren traduce: “…and from them, according to the flesh, is the Christ. May he who is God over all be blessed forever”].


Richard N. Longenecker, The Epistle to the Romans, NIGTC, Grand Rapids, Eerdmans, 2015, 788-795. [C]


COMMENTI BREVI

Joseph A. Fitzmyer, “La lettera ai Romani” in: R.E. Brown – J.A. Fitzmyer – R.E. Murphy, Nuovo Grande Commentario Biblico, Brescia, Queriniana, 1997 [1990], 1120-1121. [T]
Vedi Fitzmyer 1999 [1993] sotto “Commentari recenti” – più sintetico, ma sostanzialmente identico.


Paul W. Meyer, “Romans” in: J.L. Mays, ed., Harper Collins Bible Commentary. Revised Edition, Harpers San Francisco, 2000, 1061. [T]
The thought moves Paul to a Jewish formula of thanksgiving and praise to “the God who is over all” (v. 5b) and who is the real subject of chaps. 9-11. (Although some translators punctuate so as to make the formula refer to Christ, this fits neither the context nor Paul’s Christology; cf. 1 Cor 15:28).


Craig C. Hill, “Romans” in: J. Barton – J. Muddiman, eds., The Oxford Bible Commentary, Oxford-New York, OUP, 2001, 1100. [T]
Despite Paul’s generally high Christology, it is very unlikely that he would have referred to Christ as “God over all”. Some commentators note by way of contrast 1 Cor 15:24-28, in which Paul states that Christ himself “will also be subjected to the one who put all things in subjection under him, so that God may be all in all”.


ALTRE PUBBLICAZIONI SU “Rm 9,5” E SU PAOLO IN GENERALE


Murray J. Harris, Jesus as God: The New Testament Use of Theos in Reference to Jesus, Baker Book House, 1992. [C]

James D.G. Dunn, The Theology of Paul the Apostle, Grand Rapids, Eerdmans, 1998, 255-257. [T – considerando però anche la possibilità di C-cas]
Does Paul speak of Jesus as "God/god"? The debate here revolves round one text in particular — Rom. 9.5. […] What is at issue is whether the final clause would be more fairly translated: "from them, according to the flesh, comes the Messiah, who is over all, God blessed for ever. Amen" (NRSV). This is stylistically the most natural reading,1 1 5 and it accords with Paul's style elsewhere. And in an independent doxology we would expect "Blessed" to come first. On the other hand, the theology implied in referring the benediction to the Messiah would almost certainly jar with anyone sensitive to the context. The list is a sequence of Israel's blessings and would naturally end with a benediction to the God of Israel (cf. Rom. 1.25), just as the whole discussion (Romans 9-11) climaxes with a doxology to God alone (11.33-36). Similarly, the juxtaposition of "the Messiah" and "he who is over all, God" would most obviously suggest different referents, rather than the same person in different status.1 1 8 To be sure, Paul later in the same section speaks of Jesus as "Lord of all" (10.12). But "Lord," as we have seen, is not to be equated simpliciter with "God." And it is equally notable that it is precisely the other Pauline benedictions which bless "the God and Father of our Lord Jesus (Christ)."
In other words, to infer that Paul intended Rom. 9.5 as a benediction to Christ as "God" would imply that he had abandoned the reserve which is such a mark of his talk of the exalted Christ elsewhere. And this would be no insignificant matter. For it would not allow any of the qualification outlined above in terms of God sharing his sovereignty with the exalted Christ. For "he who is over all, God" can hardly be other than the one God, the Creator, elsewhere described by Paul (in his benedictions!) as "the God and Father of our Lord Jesus Christ."
Paul's formulation is certainly loose, and a construal of the text as a benediction to Christ can hardly be disallowed as a reading legitimated by the wording. It is even possible that Paul's own reserve on the issue slipped at this point [C - cas]. But if so, in terms of reconstructing Paul's theology, we would be wiser to hear the benediction as a moment of high exultation (for Israel's blessings) and not as a considered expression of his theology. We need not discuss other possible references in the Pauline corpus. They either depend on contentious or little supported readings of the text, or are later. So far as Paul's own theology is concerned, the issue hangs on Rom. 9.5.


Hans Dieter Betz, “Geschichte und Selbstoper: Zur Interpretation von Römer 9,1-5”, 76-87, in: C. Auffahrt – J. Rüpke, hrsg., ᾿Επιτομή τῆς οἰκουμένης: Studien zur Römischen Religion in Antike und Neuzeit, Stuttgart, Franz Steiner, 2002. [T]

Hans-Christian Kammler, ―Die Prädikation Jesus Christi als ‘Gott‘ und die paulinische Christologie: Erwangungen zur Exegese von Röm 9,5b”, ZNW 94 (2003) 164-80. [C]

Udo Schnelle, Apostle Paul: His Life and Theology, Grand Rapids, Baker Academic, 2005 [2003], 395-396. [C]
Paul does not reflect on the relation of God to Jesus Christ in the conceptual-ontological categories of later doctrinal developments, but two lines of thought are nonetheless obvious. On the one hand, there is a clear tendency toward subordination in Pauline Christology […] At the same time, the Pauline formulations can be seen as the beginning of thinking of God and Christ as equals. In Phil 2:6 the pre-existent one is termed ἴσος θεῷ (equal with God), and in Rom 9:5 Paul apparently identifies the Christ descended from Israel with God […] A coordination of God and Christ appears in 1 Cor 8:6 and 1 Thess 3:13 […] [ndr: non è chiaro il modo in cui Schnelle intende l’identificazione di Gesù come Dio in Rm 9,5, e quindi se nella sua lettura il passo implichi la preesistenza, come forse suggerisce l’accostamento a Fil 2,6 nella stessa frase].


Gordon Fee, Pauline Christology: An Exegetical-Theological Study, Peabody, Hendrickson, 2007, 272-77. [T]
Pauline emphases both in Romans as a whole and in the present passage in particular (9-11) are so thoroughly theocentric that one would seem to need more than simply a single grammatical option to overturn that emphasis in this letter [...] It would seem strikingly strange for Paul, as a climax to this list of Jewish privileges in a very Jewish context to bless the Messiah as God when a doxology to God for all these privileges seems to be much more fitting.


James A. Waddell, The Messiah: A Comparative Study of the Enochic Son of Man and the Pauline Kyrios, London-New York, T&T Clark, 2011, 172-177. [C]
[Un apposito excursus viene dedicato al nostro problema: "A Closer Look at Romans 9:5 - Did Paul Refer to Jesus as Theos?", concludendo affermativamente. Ho il dubbio che potrei avere questo lavoro da qualche parte, nel qual caso segnalerò gli argomenti]


George Carraway, Christ is God Over All: Romans 9:5 in the Context of Romans 9-11, LBNT, London, Bloomsbury, 2013. [C]
[Revisione di una tesi di dottorato interamente dedicata al nostro versetto, sostenendo la lettura [C]. La tesi è scaricabile qui: http://digital.library.sbts.edu/bitstream/...0207D_10066.pdf. ]



STUDI DI CRISTOLOGIA DEL NUOVO TESTAMENTO

Marinus De Jonge, Christology in Context: The Earliest Christian Response to Jesus, Philadelphia, Westminster, 1988, 122-123. [T]
Paul speaks very highly of Jesus Christ, the living Lord, who, as supreme agent of God’s saving work and as central authority for all who serve him, stands very near to God in the experience of those who believe in him […] Yet it is clear that Jesus Christ remains subordinate to God […] In Rom 9:5, therefore, the translation “and of their race, according to the flesh, is the Christ. God who is over all be blessed forever” […]is to be preferred to “…Christ, who is God over all, blessed for ever” […].

Maurice Casey, From Jewish Prophet to Gentile God, Cambridge, James Clarke, 1991, 135, 167-168. [C – cas]
The first of these two views [C] is perhaps to be regarded as the more probable. The grammatical structure of the sentence favours it, and it is intelligible that a figure with all the functions of Paul’s Jesus, and the three major titles [Christ, Lord, Son] should be termed “God” by him in one passage. This description does not however recur, and this must be seen in the light of similarly occasional descriptions of other Jewish figures, as well as in the context of Pauline theology. It was when Melchizedek was presented as the final redeemer of Israel that he had scriptural passages containing two of the Old Testament words for “God” interpreted as him (11Q Melch). Likewise, it is at a climactic point of his “Life of Moses” that Philo call Moses “God and king of the whole nation”, an expression which he nowhere repeats. Again, Philo refers to the logos as “the second God”, but he does so no more than twice. This is one context in which Paul’s possible description of Jesus as God should be seen. Romans 9.5 is a climactic point, and if Paul called Jesus “God” here, it is also important that he did not repeat this description in the extant epistles.
[…] It is possible that Jesus is called God here, and if it be true it is comprehensible. But again, occasional terminology of this kind does occur in the Judaism of this period. One uncertain use of the term “God” does not take us up to the ontology of the Johannine community. Still less should we take one possible interpretation of Romans 9.5 and read the deity of Jesus from it into the Christological hymn of Philippians 2.6ff.


Karl-Josef Kuschel, Generato prima di tutti i secoli?, Brescia, Queriniana, 1996 [1990], 407-410. [T]
In Paolo Gesù Cristo è essenzialmente il Signore elevato, insediato da Dio nella sua dignità divina dopo la risurrezione; Gesù Cristo è il giudice atteso, il cui arrivo, il cui “giorno” Paolo attende; Cristo è il Figlio di Dio […] per mezzo del quale Dio ha fondato la nuova esistenza dell’uomo. Ma Cristo è uguale a Dio? Come si armonizzerebbe una tale affermazione con la sottomissione di Cristo a Dio, che Paolo in 1 Cor 15 aveva presentato tanto enfaticamente? Giù il contesto più ampio della cristologia paolina rende probabile un’interpretazione teologica di Rm 9,5 in luogo di una cristologica.
A ciò si aggiunge che sarebbe piuttosto inverosimile che Paolo, in questo contesto immediato in cui si prefigge, da giudeo, di giustificare di fronte ai giudei il suo essere cristiano, abbia parlato di Cristo come “Di”. Appare anzi impensabile che l’Apostolo, proprio in questo passo, “anticipando con estrema paradossalità la successiva dottrina delle due nature, abbia potuto designare in questo modo proprio il Messia terreno appartenente a Israele”, osserva con una certa ragione Ernst Käsemann. Per quale motivo? Perché la “singolarità di un appellativo diretto” di fatto “dissimulerebbe il peso del contesto… Tutto qui ruota intorno alle benedizioni di Israele” [ndr: sempre Käsemann].


Raymond E. Brown, Introduzione alla cristologia del Nuovo Testamento, Brescia, Queriniana, 1995 [1994], 178-179. (C – ex?)
Il problema può essere formulato in termini di varie punteggiature possibili, tra le quali due sono dominanti.
1) Un punto fermo (fine della frase) può essere messo dopo “carne”, come nel codice Efrem rescritto, così che le parole seguenti costituiscano una frase separata, una benedizione di Dio che è sopra tutte le cose per sempre – un riferimento a Dio Pare. Perché Paolo avrebbe dovuto interrompere a questo punto la concatenazione del suo pensiero e introdurre una dossologia al Padre non è chiaro, poiché 9,1-5 riguarda Cristo e ci si aspetterebbe la lode di Cristo, non del Padre. Tuttavia, se si considera l’intero contesto di Rm 9,1-5, Paolo potrebbe lodare Dio per i privilegi di Israele che vengono elencati, specialmente per il dono del Messia (Cristo). L’ordine delle parole in greco presenta una considerevole difficoltà per l’interpretazione. In dossologie indipendenti, “benedetto” normalmente viene prima, in frasi formulate in greco (2 Cor 1,3; Ef 1,3); qui è la sesta parola della frase. La presenza del participio, tradotto “colui che è”, è pure difficilmente risolvibile per questa interpretazione, in quanto superfluo. Una tale costruzione è normale solo quando c’è un antecedente nella frase precedente (2 Cor 11,31; Rm 1,25).

2) Un punto fermo può essere messo alla fine, dopo “per sempre” e una virgola dopo “carne”. Tutte le parole dopo “carne” quindi costituiscono una proposizione relativa, riferita a “Cristo”, così: “… il Cristo secondo la carne, il quale è sopra ogni cosa Dio benedetto per sempre”. Quest’interpretazione significherebbe che Paolo chiama Gesù “Dio”. Da un punto di vista grammaticale questa è la migliore lettura. Anche la sequenza contestuale è eccellente; infatti, dopo aver parlato della discesa di Gesù secondo la carne, Paolo ora enfatizza la sua posizione come Dio [ndr: parlando di “posizione”, anche Brown sembra quindi intendere che la lettura cristologica qualifica Cristo come Dio in quanto Kyrios esaltato, nell’ottica di Rm 1,3-4. Se è così, nessuna implicazione di preesistenza]. L’obiezione più forte a quest’interpretazione è che mai altrove Paolo parla di Gesù come Dio.
Studiosi famosi sono allineati su entrambi i fronti della questione. Personalmente sono incline, per la prova grammaticale, a favorire l’interpretazione 2, secondo la quale il titolo “Dio” è dato a Gesù. Non si può però rivendicarne più che la plausibilità.


Martin Karrer, Gesù Cristo nel Nuovo Testamento, Brescia, Paideia, 2011 [1998], 164. [T+C]
La consapevolezza che l’Unto proviene da Israele induce alla lode: “il Dio che è sopra ogni cosa, (sia) benedetto in eterno” (Rom 9,5). Questo versetto è un capolavoro teologico. Paolo, infatti, lo formula con una costruzione della frase che resta in sospeso. Ascoltiamo un’eulogia dell’unico Dio, il Dio d’Israele [T]. Ma dal punto di vista sintattico l’espressione “il Dio che è al di sopra di ogni cosa” si riferisce al tempo stesso anche all’“Unto” [C]. Paolo non esclude che, considerate le loro tradizioni sull’unzione, i suoi destinatari etnicocristiani colgano una sovranità divina di Cristo. Quella che gli preme è solamente la corretta successione dell’eventuale associazione: solo a partire dalla divinità dell’unico Dio d’Israele ci si può azzardare a considerare l’inclusione di Cristo nella lode divina [ndr: questa singolare comprensione di Karrer di Rm 9,5 come dossologia “all’unico Dio ma estesa a Gesù” non sembra in ogni caso implicare l’idea della preesistenza di Cristo).


Romano Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo. Vol. 2: Gli sviluppi, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1999, 192-193. [T]
Grammaticalmente è possibile riferire a Cristo la qualifica di “Dio”. Ma se, invece di isolare il testo assolutizzandolo, lo si considera all’interno di tutto il linguaggio paolino e in specie della sua cristologia, la cosa migliore da fare è di disgiungere il v. 5a (“dai quali proviene il Cristo secondo la carne”) dal v. 5b (σάρκα ὁ ὢν ἐπὶ πάντων θεὸς εὐλογητὸς εἰς τοὺς αἰῶνας), così da vedere in quest’ultima frase una normale dossologia a Dio (non a Cristo!), che conclude la serie delle prerogative di Israele enumerate nel v. precedente (cfr. anche Rm 1,25). Il testo allora si dovrebbe leggere così: “il quale è sopra ogni cosa. Dio (sia) benedetto nei secoli. Amen”; o forse meglio: “colui che è sopra ogni cosa, Dio, (sia) benedetto nei secoli. Amen” (così Thüsing, Kuss, Käsemann, Wilckens, Dunn, Stuhlmacher, Schmithals, de Jonge, Byrne; tra le versioni, la RSV e la cattolica New American Bible). L’Apostolo, infatti, non solo non attribuisce mai altrove a Cristo la qualifica secca di “dio”, ma in 1 Cor 8,6 distingue chiaramente tra “un solo Dio” (= il Padre) e “un solo Signore” (= Gesù Cristo); con ciò egli non nega affatto la divinità a Gesù, ma la afferma in altri modi, alludendovi piuttosto con i titoli di Kyrios, di Figlio e di Immagine.


Christopher Tuckett, Christology of the New Testament: Jesus and His Earliest Followers, Edinburgh, EUP, 2001, 64-64. [T]
In one way it is perhaps easier syntactically to read the text as implying that “the Messiah” is indeed “God”. If the final phrase were an independent benediction one might expect the word “blessed” to come at the start of the clause (cf. 2 Cor 1:3). However, one has to say that if this is a reference to Jesus as God, it is unique in the genuine Pauline corpus. That on its own perhaps gives pause before adopting such an interpretation. So too one may note that there is nothing explicitly about Jesus as such in the verse. Paul is talking about the blessings enjoyed by Israel and seems to be talking in quite general terms about the benefits Israel has enjoyed (the covenant, the law) as well as the things that can be expected to materialise in the future, including the realisation of the promises, and the coming of “the Messiah”. He therefore seems to be talking about Jewish messianic expectations in general, and not specifically about Jesus. Further, there is really nothing in the background material of Jewish messianic expectations of this time that we know to suggest that Jews thought of the Messiah as “God”. It would therefore probably be dangerous to build too much on the basis of this single verse. It is probably more likely therefore that the reference to God here is part of the final benediction that is independent of the reference to the Messiah.


Larry W. Hurtado, Signore Gesù Cristo. Tomo 1, Brescia, Paideia, 2006 [2003], 109, 158 n. 1. [T]
[Non affronta direttamente la questione ma lascia intendere che considera il v. 5b una benedizione autonoma rispetto al v. 5a, dal momento che menziona Rm 9,5 in un paragrafo su “Gesù come Cristo” in cui sottolinea che “La connotazione regale messianica di christos sembra essersi conservata nel quadro paolino di Gesù intronizzato per nomina divina onde assicurare la supremazia assoluta di Dio (1 Cor 15,23-28)”. Quindi, più esplicitamente, in un altro punto dell’opera in cui osserva che le dossologie paoline sono solitamente indirizzate a Dio “padre”, scrive in nota: “cf. Rom 9,5, dove una forma correlata di lode attribuisce “benedizione” al “Dio che è sopra tutto”, tipo di discorso devozionale proveniente, a sua volta, dalla pratica giudaica (la berakah, in cui l’adoratore benedice Dio)”, p. 158 n. 1.
Ciò trova ulteriore conferma nel saggio di Hurtado “Paul’s Christology” in: J.D.G. Dunn, The Cambridge Companion to St Paul, Cambridge, CUP, 2003, 191, dove cita Rm 9,4-5 come testo che esprime la relazione di Gesù a Dio come suo eletto, e non certo la sua identità con Dio: “To speak of Jesus as ‘Christ’ is to claim that he is God’s uniquely anointed/chosen one through whom the promises of eschatological redemption are fulfilled (Rom 9:4-5)].


James D.G. Dunn, Did the First Christians Worship Jesus? The New Testament Evidence, London, SPCK, 2010, 132-133. [T]
Did the first Christians think of Jesus as god/God? If Paul is the clearest, perhaps the only, spokesman for the first generation of Christians still available to us, the question draws our attention to Romans 9.5. On synctatical grounds a strong case can be made for reading the text as a doxology to Christ as God […] And a good many commentators on Romans take this to have been Paul’s intention – to pronounce a doxology to Jesus as God. But the punctuation, which was not indicated in the original letter, can be arranged differently […] And there is more to be said for this latter reading [T] than is often appreciated. Above all there is the fact that the passage is a catalogue of Israel’s privileges, where it is likely that Paul was enumerating the blessings that Israel claimed for itself and in the language that Israel would recognize and affirm: “to them belongs the adoption, the glory, the covenants, the giving of the law, the worship and the promises… the patriarchs… the Messiah”. It would be entirely fitting after such a listing of God’s goodness towards Israel to utter a doxology in praise of this God, rather as Paul does in Romans 1.25 and 11.33-36. So it remains finally unclear and open to question as to whether Paul here, exceptionally for him, spoke of Jesus as god/God.


Bart D. Ehrman, How Jesus Became God: The Exaltation of a Jewish Preacher from Galilee, New York, HarperOne, 2014, 268-269 [C – ang]
My view for many years was that the second translation [T] was the right one and that the passage does not call Jesus God. My main reason for thinking so, though, was that I did not think that Paul ever called Jesus God anywhere else, so he probably wouldn’t do so here. But that, of course, is circular reasoning, and I think the first translation [C] makes the best sense of the Greek, as other scholars have vigorously argued. It is worth stressing that Paul does indeed speak about Jesus as God, as we have seen. This does not mean that Christ is God the Father Almighty. Paul clearly thought that Jesus was God in a certain sense – but he does not think that he was the Father. He was an angelic, divine being before coming into the world; he was the Angel of the Lord; he was eventually exalted to be equal with God and worthy of all God’s honor and worship. And so I now have no trouble recognizing that in fact Paul could indeed flat-out call Jesus God, as he appears to do in Romans 9:5. If someone as early in the Christian tradition as Paul can see Christ as an incarnate divine being, it is no surprise that the same view emerges later in the tradition. Nowhere does it emerge more clearly or forcefully than in the Gospel of John.


Edited by JohannesWeiss - 22/3/2016, 18:34
 
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JohannesWeiss
view post Posted on 23/3/2016, 04:39     +1   +1   -1




Precisazioni metodologiche. "Questa discussione ha senso?"

@ Askerella

CITAZIONE
Molto più attendibili e aderenti alla realtà forse sono i comportamenti popolari, gli accadimenti, le concretizzazioni nel culto, l'arte, gli stili di vita delle comunità credenti - e sempreché ne possiamo avere oggi delle buone cronache.
Domanda: è possibile fare "storia" della cristologia attenendosi solamente e strettamente agli scritti (canonici) del Nuovo Testamento …
Non vedo perché nella cristologia non debbano entrare le teologie rabbiniche, le espressioni cultuali, l'AT, i Talmud, la tradizione orale cristiana e quant'altro ci possa servire per un'analisi completa......
Quinto: non vedo perché si debba distinguere necessariamente tra un Prima e un Dopo quando si considera uno spazio di soli 40 anni (mi pare, circa) tra gli scritti di Paolo e Giovanni (Non eravamo mica in èra internet e neanche èra carta stampata!).
Non è più sensato pensare a macchie di leopardo e a scopi diversi degli scritti , a destinatari diversi, e/o a linee catechetiche diverse degli autori?

Purtroppo non ho tempo per rispondere ai vari punti del tuo post precedente, ma cercherò comunque di rispondere a quelle che mi sembrano essere le obiezioni fondamentali – obiezioni che vertono sulla fondatezza metodologica della discussione stessa, così come l’ho impostata.

Mi chiedi dunque se sia possibile fare storia della cristologia basandosi principalmente (meglio che “solamente”) sulle testimonianze letterarie del Nuovo Testamento…

[lasciamo perdere qui la distinzione tra scritti canonici ed extra-canonici che qui è fuori luogo non per ragioni confessionali, ma perché semplicemente ci stiamo occupando delle forme cristologiche più antiche, e purtroppo non abbiamo molte testimonianze letterarie extra-canoniche antiche quanto possono esserlo le lettere di Paolo ma anche gli stessi vangeli… il vangelo di Tommaso è senz’altro successivo, per quanto si possa cercare di isolarne una redazione più antica, mentre dei vangeli giudeo-cristiani possediamo purtroppo solo qualche brandello… in ogni caso non è di per sé affatto off-topic affrontare le concezioni cristologiche che troviamo nella Didaché, o nel presunto kernel originario del Vangelo di Tommaso o in quel che ci resta dei vangeli giudeo-cristiani – fine parentesi]

…Beh, sinceramente sì, è possibile, ed è una cosa anche abbastanza normale. I libri di cristologia del NT (o anche di teologia del NT) non li ho certo inventati io, e francamente non vedo proprio che cosa avrebbero di illegittimo. Si tratta di studiare i testi neotestamentari in prospettiva propriamente esegetica, concentrandosi sugli aspetti letterari e teologici.
Questo poi non significa affatto che vengano ignorati fattori di tipo storico e sociale, quando siamo così fortunati da avere notizie al riguardo (possiamo conoscere diverse cose sulla vita delle varie comunità paoline, e questo è molto importante per fare una buona esegesi di Paolo – ma brancoliamo nel buio su quale sia il concreto background storico-sociale di un inno che Paolo riporta prendendolo da chissà dove, come può essere il caso di Fil 2,6-11).

L’esegesi storico-letteraria dovrà senz’altro tenere presente i fattori di ordine storico-sociale rilevanti per quel dato testo: ad es. non è possibile fare un’esegesi soddisfacente di Matteo, nemmeno in una prospettiva puramente letteraria e narrativa, se non si tiene in qualche modo presente la situazione particolare di conflitto tra la comunità matteana e la sinagoga farisaica nella delicata fase storica che vede il giudaismo intento a riorganizzarsi dopo la catastrofe del 70.
Ma non è detto che tali aspetti debbano necessariamente essere tematizzati… o meglio, dipende dallo spazio che uno si dà… se devo scrivere un capitolo sulla cristologia di Matteo, nel migliore dei casi dirò qualcosa in nota, mentre se devo scrivere una monografia sulla cristologia di Matteo, allora potrò dedicarci un capitolo, oppure interagirci pagina dopo pagina, a seconda dell’impostazione che darò al mio studio.

In ogni caso, attenzione: non è che per interpretare un certo testo uno possa servirsi disinvoltamente e indiscriminatamente di conoscenze storico-sociali relative al cristianesimo dei secoli I-II ev. Per il nostro ipotetico studio su Matteo, dovrò fare attenzione in primo luogo alle notizie che ricavo dal testo stesso. Dopodiché dovrò selezionare e tenere presente le fonti esterne che possono offrire informazioni rilevanti: ad es. se si ritiene che Matteo sia stato scritto ad Antiochia di Siria, si potrà senz'altro tenere conto delle notizie ricavabili da altre fonti cristiane, ad es. le lettere di Ignazio, circa la comunità antiochena nei decenni successivi (oppure Atti e Paolo rispetto alla comunità 40-50 anni prima di Matteo). Come anche si potrà prestare attenzione agli sviluppi storico-sociali che Matteo sembra presupporre rispetto alla realtà che possiamo evincere dalla fonte Q (attraverso il confronto con i passi non-marciani che Matteo ha in comune con Luca).

Proseguiamo con l’esemplificazione: il modo in cui Mt modifica le beatitudini di Q mi rivela che la sua comunità aveva problematiche almeno in parte differenti da quelle dei cristiani tradenti di Q, e lo stesso dicasi di altri piccoli dettagli rivelativi, ad es. quando in Mt 23,34 aggiunge “e scribi” ai “profeti e sapienti” di cui si parlava in Q, il che a prima vista potrebbe sembrare insignificante, mentre dice moltissimo alla luce di altri passi redazionali di Matteo in cui viene valorizzata la figura dello scriba, ad es. Mt 13,51-52, e ancor più alla luce della peculiare esegesi midrashica dei passi dell’AT che troviamo continuamente in Matteo, e di cui non c’è invece quasi traccia in Q. Da tutte queste cose si può lecitamente inferire che nella comunità in cui e per cui Matteo scrive c’è qualcosa come una sorta di “scuola scribale”, il che è un dato sicuramente significativo sotto il profilo sociale, laddove il mondo della fonte Q ha tutta l’aria di essere un mondo di carismatici itineranti.
Ma si può ben capire che non è opportuno fondare la nostra comprensione storico-letteraria di Matteo su quello che sappiamo della vita delle comunità cristiane a cui scrive Paolo!!

Per concludere questa digressione metodologica, ho l’impressione che si stia inoltre facendo confusione tra lo studio delle concezioni cristologiche neotestamentarie e lo studio delle forme di venerazione o di culto tributate a Cristo nel cristianesimo primitivo. I due oggetti di studio certamente si sovrappongono o comunque si incrociano a livello “materiale”, ma sono ben distinti dal punto di vista “formale”. Un libro di cristologia del NT è diverso dai libri di Hurtado sulla devozione a Gesù.
E sia tu che Sant’Atanasio sembrate essere interessati soprattutto alla questione del culto cristiano nei confronti di Gesù. Ed è un interesse più che rispettabile, solo che non è il tema di questo thread.
Un conto è cantare inni a Cristo come a un Dio, invocarlo nel culto come Kyrios, battezzare nel suo nome e chi più ne ha più ne metta; un altro conto è cercare di capire le modalità con cui questo “status divino” viene concretamente concepito e rappresentato.

Lo ripeto per l’ennesima volta: è perfettamente possibile venerare Cristo accanto a Dio, in relazione a Dio, come Dio, includerlo nello Shema e tutto quello che volete senza tuttavia “visualizzarlo” come un essere preesistente incarnato. Quello che si vuole studiare in questo topic sono le forme in cui il “Cristo venerato” veniva concepito e rappresentato: come Messia e/o Figlio di Dio esaltato alla destra di Dio? Come il Figlio dell’uomo della visione di Daniele o di altri scritti apocalittici? Come l’angelo di YHWH? Come il nuovo Adamo? Come la Sapienza divina o il Logos preesistente?

E una volta chiarito sotto quale profilo un certo testo rappresenta la figura di Cristo (che è l’obiettivo propriamente esegetico), non vi è ragione di vietarsi interrogativi di tipo storico: possiamo affermare che alcune di queste concezioni sono verosimilmente più antiche di altre? E’ possibile istituire qualche rapporto di parentela e di sviluppo tra una concezione e l’altra?
Perché se è vero che le idee cristologiche esistono sulla terra e non nell’iperuranio, nondimeno anch’esse, come tutte le idee, hanno pur sempre un certo margine di sviluppo proprio: appaiono, vengono approfondite, s’incrociano con altre, vengono abbandonate e poi a un certo punto rinascono etc. Il fatto che la storia sociale possa avere il primato sulla storia delle idee non credo che renda illegittimo occuparsi di quest’ultima.

Quanto, infine, alla domanda se nella storia della cristologia non debbano forse entrare “l’Antico Testamento, il Talmud e la teologia rabbinica, la tradizione orale cristiana”… la domanda è un po’ confusionaria, ma credo di averne inteso il senso e perciò l’aggiusto e ti rispondo: Naturalmente sì. Certo che devono entrare l’AT (e ci mancherebbe altro!) come anche la letteratura intertestamentaria giudaica e gli scritti di Qumran.
Più sfumato è invece il discorso circa la rilevanza della letteratura rabbinica, essendo di gran lunga successiva al nostro periodo (oltre al banale fatto che gran parte di quei testi sono di natura squisitamente halakica e quindi perfettamente inutili al nostro scopo), però anche dal quel versante possono venire spunti rilevanti (ad es. la polemica verso chi parla di “due potenze in cielo”). Riguardo poi alla tradizione orale… boh… non so bene cosa intendi: la tradizione orale delle parole di Gesù soggiacente e parallela ai vangeli e/o le formule kerygmatiche orali che qua e là affiorano nelle lettere di Paolo? Se si tratta di questo, è assolutamente ovvio che entrano pienamente nel nostro discorso (sempre ammesso che riusciamo ad isolarle).

Ok, spero che questi chiarimenti siano stati sufficienti per “giustificare” l’oggetto e l’impostazione della presente discussione. Altrimenti bisogna aprire un thead apposito di meta-discussione sulla discussione.
:1051.gif:

P.S. Sì, Mark Nanos è uno studioso autorevole, nello specifico uno dei principali esponenti/prosecutori della cosiddetta "new perspective on Paul" avviata da E.P. Sanders e battezzata da James Dunn, che valorizza molto l'ebraicità di Paolo.

Edited by JohannesWeiss - 23/3/2016, 08:07
 
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Sant'Atanasio
view post Posted on 23/3/2016, 07:09     +1   -1




CITAZIONE (JohannesWeiss @ 22/3/2016, 04:17) 
Si può dire che tutti riconoscono che la lettura cristologica è la più soddisfacente dal punto di vista sintattico; al che si suole obiettare che essa è scarsamente compatibile con il resto della cristologia paolina, e – secondo vari esegeti – anche con l’argomentazione di Paolo nel contesto immediato.

Perdonami, caro Johannes, per la battuta, ma che l'attribuzione della dossologia al Padre non sia corretta sintatticamente lo dimostra una cosa, a mio avviso: il fatto che la Traduzione del Nuovo Mondo, in tal caso, ne avrebbe azzeccata una, il che, come sappiamo, è aprioristicamente impossibile. :D

CITAZIONE (JohannesWeiss @ 22/3/2016, 04:17) 
A dirla tutta, però, buona parte del “fronte cristologico” è composta da esegeti evangelici conservatori

Questa però non è una buona argomentazione. Il fatto che determinate persone abbiano interesse a difendere una certa interpretazione non rende di principio la loro interpretazione più soggetta alla possibilità di errore di chi sostiene l'interpretazione opposta, anche perché pure in campo "liberale" ci possono essere determinate agende (anzi, ci sono indubbiamente) che orientano le interpretazioni dei testi.
Pertanto non ritengo che le argomentazioni del fronte liberale siano da considerarsi più cogenti in linea di principio.

"Si tratta quindi di decidere cosa sia “meno peggio”: una buona teologia paolina espressa in una forma infelice, oppure un momento di semi-infermità teologica di Paolo, immortalato in una frase ineccepibile?"

Questo discorso sulla "semi-infermità" teologica di Paolo lo trovo completamente gratuito, al pari della seguente uscita sul suo presunto "momento di febbre", poichè asserire che il riferirsi di Paolo a Cristo come Dio sia attribuibile a quei fattori (momento di febbre o bipensiero orwelliano poco importa) comporterebbe ignorare volutamente tutti i passi che, nell'At, si riferivano al Signore YHVH, Dio Padre, che Paolo ha applicato al Signore Gesù Cristo, ovvero Dio Figlio per i cristiani. E verrebbe da chiedersi perché Paolo abbia fatto questo se davvero la sua cristologia e quella degli altri apostoli (ho aggiunto "quella degli altri apostoli" perché non abbiamo tracce di tensioni relative alla cristologia, pertanto assumere che la cristologia paolina fosse coerente con quella degli altri apostoli è la tesi più economica, fino a prova contraria naturlich ;) ) fosse stata così irrimediabilmente votata a marcare un'inferiorità ontologica di Cristo rispetto al Padre.

Pertanto ribadisco che trovo completamente gratuite queste affermazioni, senza offesa naturalmente.

Ciò detto, ti ringrazio davvero per la mole di citazioni che hai fatto (il più 1 è proprio per questa ragione ;) ), sto cominciando a leggerle ora, e ho cominciato "dal basso", l'occhio mi è caduto su Erhman.

"My view for many years was that the second translation [T] was the right one and that the passage does not call Jesus God. My main reason for thinking so, though, was that I did not think that Paul ever called Jesus God anywhere else, so he probably wouldn’t do so here. But that, of course, is circular reasoning, and I think the first translation [C] makes the best sense of the Greek, as other scholars have vigorously argued. It is worth stressing that Paul does indeed speak about Jesus as God, as we have seen. This does not mean that Christ is God the Father Almighty. Paul clearly thought that Jesus was God in a certain sense – but he does not think that he was the Father. He was an angelic, divine being before coming into the world; he was the Angel of the Lord; he was eventually exalted to be equal with God and worthy of all God’s honor and worship. And so I now have no trouble recognizing that in fact Paul could indeed flat-out call Jesus God, as he appears to do in Romans 9:5. If someone as early in the Christian tradition as Paul can see Christ as an incarnate divine being, it is no surprise that the same view emerges later in the tradition. Nowhere does it emerge more clearly or forcefully than in the Gospel of John."

E devo ammettere che le sue argomentazioni sono -per usare un eufemismo molto gentile, il più gentile che mi viene in mente- realmente risibili.

Lui inizia, in questa sua citazione, dicendo una cosa pienamente sensata, ovvero che non attribuire la dossologia al Figlio sfruttando il fatto che mai altrove Paolo Lo ha chiamato Dio è un ragionamento circolare e quindi non è un ragionamento valido. Nulla da eccepire su questo.

Il "bello" viene dopo. Erham infatti scrive "This does not mean that Christ is God the Father Almighty. Paul clearly thought that Jesus was God in a certain sense – but he does not think that he was the Father." al che la prima reazione che mi viene sarebbe dire qualcosa del tipo "WOW, notiziona!".

Cioè, seriamente Erhman ritiene che il fatto che Paolo non ritenesse Gesù il Padre sia un'argomentazione cogente per sostenere che per Lui Gesù non fosse Dio? Eppure -guarda i casi strani della vita- nemmeno io ritengo che Gesù sia il Padre, ciononostante ritengo che sia Dio, e non Lo ritengo un secondo Dio (visto che, come Paolo di Tarso, ho il viziaccio di essere un incallito monoteista) equipollente al Padre o inferiore al Padre. Lo ritengo, semplicemente, Dio.

Perciò, dico davvero, mi sfugge in che modo il fatto che Paolo ritenesse che Gesù non fosse l'incarnazione del Padre dovrebbe, in qualche modo, convincermi che per Lui Gesù fosse un angelo incarnato in pieno Tdg style.
Parimenti, siccome "ex falso sequitur quodlibet", le sue successive asserzioni " If someone as early in the Christian tradition as Paul can see Christ as an incarnate divine being, it is no surprise that the same view emerges later in the tradition. Nowhere does it emerge more clearly or forcefully than in the Gospel of John." sono totalmente arbitrarie, perché non c'è nessuna prova, in effetti, del fatto che Paolo ritenesse Cristo un angelo, perciò che il "senso" secondo il quale Paolo ritenesse Cristo Dio fosse quello di un angelo preesistente e inferiore ontologicamente al Padre rimane gratuitamente affermato e può essere gratuitamente negato.

Anche perché Giovanni stesso, ritornando al macroscopico errore Erhmaniano, ha cura di distinguere Gesù dal Padre, lo vediamo nel Prologo "In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio"

Qua, a meno di non aggiungere il celeberrimo "un" della fantascientifica Tnm, vediamo chiaramente che Giovanni si premura di dirci che il Verbo è dal principio, che era presso Dio e che era Dio, ovvero ci dice che il Figlio è Dio, che NON è il Padre ma che, allo stesso tempo, non è un deuteros theos.

Questo concetto ritorna in maniera ancora più chiara alla fine del prologo, quando Giovanni scrive " Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato."

Devo ammettere che quella citazione di Erhman coi suoi non sequitur grandi quanto lo stade de France mi ha lasciato...... Come dire...... Basito, ecco non mi veniva il termine.
Vado avanti a leggere le citazioni, nell'attesa che il prossimo libro di Erhman ci spieghi con dovizia di particolari che Gesù era ritenuto l'arcangelo Michele.

Scusatemi ma certe argomentazioni da Erhman non me le aspetterei, visto che non stiamo parlando di un arpiolide. Ma vabbè..... Paulo maiora canamus!

CITAZIONE (JohannesWeiss @ 23/3/2016, 04:39) 
Quello che si vuole studiare in questo topic sono le forme in cui il “Cristo venerato” veniva concepito e rappresentato.

Precisamente. Ma può essere fatto, questo, analizzando i singoli passi estrapolati dal contesto come se avessero vita propria?

Ad esempio, dire che per Paolo era possibile che Cristo non fosse preesistente, significa dire che per Lui e per gli Apostoli era una creatura, che ha iniziato ad esistere nel tempo, e che quindi, come disse Ario, gli apostoli pensassero che "c'è stato un tempo in cui (Cristo) non era".

Niente di male, se storicamente ci fossero buone ragioni per affermare che la Fede primigenia degli apostoli fosse questa sarei prontissimo ad accettarlo. Ma il punto è: queste "buone ragioni" ci sono oppure le stiamo creando noi dopo 2000 anni, pensando di sapere di più riguardo al pensiero paolino e apostolico riguardo al Cristo di quanto ne sapessero i successori degli apostoli e i successori dei successori degli apostoli, ovvero i Padri della Chiesa?

Ma comunque, il punto della questione è: se davvero Paolo ha chiamato Cristo Dio per via di un "momento di febbre" o di una "seminfermità teologica", per quale ragione:

1) Contrapponi la cristologia del l'esaltazione a quella della preesistenza e ancora di più alla visione secondo la quale, per Paolo, non solo Gesù era esistito ma era Dio? Non è affatto vero, come scrivevi tu in un post più sopra (forse proiettando la tua visione su Bauckam) che La forma cristologica dell'esaltazione comporti un conflitto con quella della preesistenza nè, tantomeno, con quella dell'appartenenza piena di Gesù alla piena identità di Dio.

Riporto parole tue, con le quali non mi trovo affatto d'accordo

[/SPOILER]
"L'argomento di Bauckham (ora nel primo spoiler) sul fatto che se Gesù appartiene integralmente all'identità di Dio, allora le cose devono essere così da sempre bla bla... non è affatto applicato da Bauckham indiscriminatamente a tutte le forme cristologiche nt.rie, incluse quelle dell'esaltazione, bensì riguarda specificamente i passi cristologici in cui a Gesù viene attribuita una dimensione protologica, ovvero: prologo giovanneo, Colossesi 1, Ebrei 1."
[SPOILER]


Infatti Bauckam, qui sotto, spiega non solo che in Filippesi c'è una chiara preesistenza del Cristo, tesi sostenuta dalla maggioranza degli storici, come già detto, ma anche che secondo Paolo e gli apostoli Gesù fu sempre pienamente Dio e non cominciò ad esserlo dopo la Sua esaltazione, in altre parole non solo era preesistente, ma era ben di più di un angelo.


[/SPOILER]
Therefore" it does not mean that Christ only begins to belong to the divine identity at his exaltation. Rather only one who already belonged to the divine identity could occupy this position of eschatological supremacy. It is part of the function of the opening words of the passage (2:6), which I understand, with the majority of scholars, as depicting the pre-existence of Christ, to make clear his identity with the one God from the beginning"[SPOILER]

www.forananswer.org/Top_JW/Richard_Bauckham.pdf

2) Se Paolo ha davvero avuto un "momento di febbre" o di "infermità teologica" nell'attribuire la dossologia al Figlio, allora perché nelle sue lettere ritroviamo questo?

[/SPOILER]
(1) YHWH texts with Jesus Christ as referent:8 (1a) Five quotations including kuvrio"

Rom 10:13 1 Cor 1:31
1 Cor 2:16
1 Cor 10:269 2 Cor 10:17

Joel 2:32
Jer 9:24 (= 1 Kdms 2:10) Isa 40:13
Ps 23(24):1
Jer 9:24 (= 1 Kdms 2:10)

(1b) One quotation to which Paul adds levgei kuvrio" Rom 14:11 Isa 45:23

(1c) One quotation not including kuvrio"10 Rom 9:33 Isa 8:1411

(1d) Nine allusions including kuvrio"12

1 Cor 8:6
1 Cor 10:22 2 Cor 8:21 Phil 2:10-11

Deut 6:4
Deut 32:21 (kuvrio" not in LXX)
Prov 3:4 (kuvrio" in LXX, μyhla in MT) Isa 45:23



1 Thes 3:13 2 Thes 1:7 2 Thes 1:9 2 Thes 1:12 2 Thes 3:16

Zech 14:513
Isa 66:15
Isa 2:10, 19, 21 Isa 66:5
Num 6:26

(1e) Six stereotyped OT phrases including kuvrio" 'to call on the name of the Lord'14

1 Cor 1:2 (cf. Rom 10:13)
Joel 2:23; Zeph 3:9; Zech 13:9; Jer 10:25 etc.

'the day of the Lord'15
1 Cor 1:8; 5:5; 2 Cor 1:14; 1 Thes 5:2; 2 Thes 2:2

Joel 1:15; 2:1, 11, 31; Amos 5:18; Isa 13:6, 9 etc.

'to serve the Lord'
Rom 12:11; 16:18

1 Kdms 12:20; Pss 2:11; 99(100):2; 101(102):22 etc.

'the word of the Lord'
1 Thes 1:8; 2 Thes 3:1

Isa 2:3 etc.

'the Lord be with you'
2 Thes 3:16 Ruth 2:4; 1 Kdms 17:37; 20:13 etc.

'the fear of the Lord'
2 Cor 5:11 Isa 2:10, 19, 21 etc.

(2) YHWH texts with God as referent:
(2a) Nine quotations including kuvrio"

Rom 4:7-8 Rom 9:27-28 Rom 9:29 Rom 10:16 Rom 11:3 Rom 11:34 Rom 15:11

1 Cor 3:20 2 Cor 6:18

Ps 31(32):1-2
Hos 2:1 + Isa 10:22-2316
Isa 1:9 (kuvrio" sabawvq)
Isa 53:1 (kuvrio" in LXX, no equivalent in MT)17
3 Kdms 19:10 (kuvrio" not in LXX, no equivalent in MT)18 Isa 40:13
Ps 116(117):1
Ps 93(94):11
2 Kdms 7:14, 8 (kuvrio" pantokravtwr)

(2b) Three quotations to which Paul adds levgei kuvrio"

Rom 12:1919 1 Cor 14:21 2 Cor 6:17

Deut 32:35
Isa 28:11-12
Isa 52:11 + Ezek 20:34



(2c) Twelve quotations in which the speaker ('I') is identified as YHWH in the OT context

Rom 4:17
Rom 9:9
Rom 9:13
Rom 9:14
Rom 9:17
Rom 9:25
Rom 9:33
Rom 10:19
Rom 10:20
Rom 10:21
Rom 11:26-27 Isa 59:20-21 2 Cor 6:2 Isa 49:8

Gen 17:5 Gen 18:14 Mal 1:2-3 Exod 33:19 Exod 9:16 Hos 2:25
Isa 28:16 Deut 32:2120 Isa 65:1

Isa 65:2
[SPOILER]



Lo stesso Bauckam si chiede "How are these phenomena of Paul's usage to be understood?"

E la sua domanda è pienamente legittima: se, infatti, davvero Paolo e gli apostoli erano così fermamente (non fare caso al lessico che userò adesso per favore, so che è anacronistico ma è per semplificare) subordinazionisti, adozionisti, ariani, e che più ne ha più ne metta, come si spiega tutto ciò, anche qualora la dossologia in Rom 9,5 andasse attribuita al Padre?

Ma continuiamo con la risposta che ci da Bauckam

[/SPOILER]
It is clear from our summary of the evidence that more often than not Paul took the referent of YHWH to be God and less frequently took it to be Christ. It is indeed noteworthy that Paul seems never to take 'God' (la, μyhla, oJ qeov") in the text to refer to Christ, and we shall return to this point. But it is equally significant that he clearly does not simply equate YHWH with Christ, but can take the divine name to designate either God or Christ, occasionally even in the same text cited on different occasions (Rom 11:34; 1 Cor 2:16: Isa 40:13). "

" The texts about YHWH that Paul applies to Jesus rather than to God are quite diverse and cannot all be explained by one principle. But what has rarely been noticed is that most of these texts are (or would have been read by Paul as) expressions of eschatological monotheism. We can certainly claim that a major factor in Paul's application of texts about YHWH to Jesus is his christological reading of the eschatological monotheism of the Jewish Scriptures".
[SPOILER]



Riguardo al monoteismo escatologico Bauckam cita

[/SPOILER]
Joel 2:32 [Rom 10:13; cf. 1 Cor 1:2]: A standard monotheistic formula occurs in 2:27: 'You shall know ... that I the Lord (YHWH) am your God, and that there is no other besides me.'

Isa 40:13 [1 Cor 2:15; cf. Rom 11:34]: This verse is a monotheistic denial that in the creation of the world YHWH needed or received any advice from any other being. It was the source of a standard Jewish way of claiming that God created the world alone and denying any polytheistic notion of creation as a collaborative project of several gods (Isa 40:13 is echoed in this sense in Sir 42:21; 2 Enoch 33:4aJ; Philo, Opif. 23; cf. also 4 Ezra 6:6; Josephus, C. Ap. 2.192). In its own context in Isaiah 40, verse 13 belongs to that chapter's lengthy exposition of the incomparability of YHWH, which in turn relates to the eschatological monotheism of the following chapters: the expectation that, since YHWH is the one and only Creator and Lord, YHWH will come to be acknowledged by all the nations as the incomparable one.

Jer 9:24 [1 Cor 1:31; 2 Cor 10:17]: This verse is implicitly monotheistic in the sense that it makes YHWH the only proper subject of boasting and counters the self- deification of the arrogant who boast of their own wisdom, power or wealth (9:23; cf. Isa 2, discussed below). In Jeremiah 9:23-24 there is no indication of an eschatological context, but this passage also occurs, inserted into the song of Hannah, in 1 Kingdoms 2:10 in connexion with words that would certainly have been read as messianic in early Judaism ('he will judge the ends of the earth ... and will exalt the horn of his Messiah').

Isa 45:23 [Rom 14:11; Phil 2:10-11]: The accumulation of monotheistic assertions in Isaiah 45:18-25 ('I am the Lord and there is none besides'; 'I am God and there is no other besides me'; 'there is none but me'; 'I am God and there is no other') make it the most insistently monotheistic passage in Isaiah 40-55. Moreover, verses 22-23 are the most explicit assertion of eschatological monotheism in these chapters. The accumulation of monotheistic rhetoric climaxes in YHWH's oath that all will in the end acknowledge him as the only righteous and saving God.



Deut 32:21a [1 Cor 10:22]: This half-verse is itself a monotheistic assertion that the idols are 'no gods' (appropriately to the context in which Paul alludes to it; cf. 1 Cor 8:4), but it also belongs to a passage that leads up to the solemn divine self- declaration: 'Behold, behold, I am he, and there is no god besides me' (32:39). The whole Song of Moses (Deut 32) was read in early Judaism as an eschatological prophecy of God's coming deliverance of his people from pagan oppression. Paul's several quotations and allusions (Rom 10:19 [Deut 32:21b]; Rom 12:19 [Deut 32:35]; Rom 15:10 [Deut 32:43]; 1 Cor 10:19 [Deut 32:21a]) show that he also read it holisticly and understood it as eschatological prophecy.

Zech 14:5b [1 Thes 3:13; cf. 2 Thes 1:7]: The coming of YWH of which this verse speaks leads to the following result: 'And the Lord (YHWH) will become king over all the earth; and in that day the Lord (YHWH) will be one, and his name one' (14:9). This puts the Shema‘ into eschatological form: YHWH will be one - the only God in the eyes not just of Israel, but of all - when his rule is acknowledged by all.

Isa 2:10, 19, 21 [2 Thes 1:9]: Alongside this repeated refrain ('from the presence of the terror of the Lord [YHWH] and from the glory of his might'), referring to the fate of the arrogant when the Lord comes in judgment in the last days, there is another repeated refrain: 'and the Lord (YHWH) alone will be exalted in that day' (2:11, 17).

Isa 66:5, 15 [2 Thes 1:7, 12]: These references to eschatological judgment by YHWH on his enemies occur in a prophetic sequence that climaxes in the recognition and worship of YHWH by all (66:18, 23).

By contrast, only a relatively small proportion of the scriptural texts in which Paul takes YHWH to be God can arguably be related to eschatological monotheism (Isa 10:22-23; Isa 40:13; Deut 32:35; Isa 52:11; Deut 32:21b; Isa 59:20-21), and few of these have a clear monotheistic assertion in their context (Isa 40:13; Deut 32:35; Deut 32:21b), whereas almost all of the texts just discussed, in which YHWH is taken to be Jesus, do have such a monotheistic assertion in their context.

Escathological monotheism is not explicit in all of the contexts in which Paul places his quotations of and allusions to these passages, but it is prominent in some of those contexts and it may be assumed to lie behind Paul's christological reading of most or all of these passages. This means that it is very often in scriptural texts that refer to the final and universal manifestation of the unique identity of the one God that Paul understands Jesus to be YHWH. Jesus himself is the eschatological manifestation of YHWH's unique identity to the whole world, so that those who call on Jesus' name and confess Jesus as Lord are acknowledging YHWH the God of Israel to be the one and only true God. It becomes clear that Paul's purpose is to include Jesus in the unique identity of the one God, not to add Jesus to the one God as a non-divine agent of God, for Jesus can manifest the unique identity of the one God and receive the universal acknowledgement of that God's sole lordship only if he himself belongs to the unique identity of God.
[SPOILER]


3) Perchè Paolo ha assegnato un ruolo a Gesù Cristo nella Creazione, se non per evidenziare il Suo essere l'unico Dio, l'incarnazione dell'unico Dio nel quale Paolo ha sempre creduto?
Qua sotto infatti Bauckam spiega con la massima chiarezza che esisteva un solo Creatore del mondo, Dio, è che includere Gesù nell'atto creativo di Dio significava inappellabilmente qualificarLo come Dio e Signore.

[/SPOILER]
In early Jewish theology eschatological monotheism was closely connected with creational monotheism. That YHWH alone created all things is the basis for his sole lordship over all things, which must finally be fulfilled in the universal acknowledgement of him as only Creator and Lord. Among the biblical sources of early Jewish monotheism, this is especially clear in Isaiah 40-55 and appears in the context of the two passages from these chapters that were discussed in the last section. Isaiah 40:13 is most immediately a statement of creational monotheism, declaring YHWH to be unique in that he created the world without any collaborators or assistants. This incomparability as the sole Creator of all things is closely related, in the rest of Isaiah 40-55, to the eschatological monotheism that expects him to make his unique deity known to all the nations. The passage of divine speech to which Isaiah 45:23 belongs (45:18-25) is probably the best example of this close relationship between creational and eschatological monotheism. While verse 23 is a strong assertion of exchatological monotheism, the passage begins with a statement creational monotheism ('Thus says the Lord [YHWH] who made the heaven, this God who set forth the earth and made it... I am the Lord and there is none besides') on which all the monotheistic rhetoric of the following verses is based. Thus it was no great step, exegetically at least, from the inclusion of Jesus in the identity of God as sole eschatological Ruler to the inclusion of Jesus in the identity of God as sole Creator. These two aspects of the unique divine identity were inseparable.
[SPOILER]


4) La domanda delle domande, quella che potrebbe essere definita a ragion veduta "the question above all questions", se Paolo, realmente, riteneva il Cristo un essere non preesistente, quindi creato, quindi per forza di cose subordinato al Padre, Dio increato per definizione, perché la cosiddetta "scuola paolina", nelle lettere pastorali, avrebbe frainteso in maniera così grossolana la sua dottrina, il suo Vangelo, come lo chiamava lui? E, soprattutto, se il pensiero paolino ed apostolico era così "ermetico" da non essere capito e da portare a sviluppi che, probabilmente, secondo una certa corrente di pensiero, gli apostoli stessi avrebbero giudicato eretica e blasfema, da parte dei loro diretti (degli apostoli) successori, come pensiamo noi, dopo 2000 anni, di poterci capire qualcosa di più? In Tito 2,13 infatti troviamo scritto "nell'attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo" (του μεγαλου θεου και σοτηρος ημων Ίησου Χριστου) .

5) Perché la Chiesa avrebbe accolto nel Nuovo Testamento dei testi che davano agio a dottrine eretiche? Se, davvero, ci fosse quello iato, quel "grande e brutto fossato" tra ciò che credevano gli apostoli originariamente e ciò che crederà poi la Chiesa "tradendo" Gesù, perché accogliere quei testi? Forse perché sono testi scritti non per essere vivisezionati passo per passo creando una ventina di cristologie confliggenti tra loro non solo nel corpus di lettere paolino ma addirittura nella stessa lettera (!!!) ma, invece, erano testi scritti esplicitamente per comunità già catechizzate, che conoscevano già bene la dottrina apostolica, e quindi certi modi di analizzarli, escludendo del tutto la Traditio (quando non addirittura bollandola come fuorviante), ovvero il modo in cui la Chiesa li ha letti e interpretati, sono sbagliati con tutto ciò che ne consegue, visto che da premesse errate seguono conclusioni errate?

Edited by Sant'Atanasio - 23/3/2016, 07:41
 
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JohannesWeiss
view post Posted on 23/3/2016, 07:36     +1   -1




CITAZIONE (Sant'Atanasio @ 23/3/2016, 04:58) 
Questa però non è una buona argomentazione. Il fatto che determinate persone abbiano interesse a difendere una certa interpretazione non rende di principio la loro interpretazione più soggetta alla possibilità di errore di chi sostiene l'interpretazione opposta, anche perché pure in campo "liberale" ci possono essere determinate agende (anzi, ci sono indubbiamente) che orientano le interpretazioni dei testi. Pertanto non ritengo che le argomentazioni del fronte liberale siano da considerarsi più cogenti in linea di principio.

Hai letto distrattamente. La mia non era un'argomentazione circa la plausibilità o meno della lettura cristologica di Rm 9,5, bensì un rilievo in ordine a una più precisa valutazione di quanto le due opzioni, che nel campione da me esaminato stanno a 50-50, siano effettivamente rappresentative del panorama accademico. Su questioni di diretta rilevanza teologica, gli studiosi evangelici (specialmente americani) tendono assai più dei loro colleghi ad allinearsi sull'opzione teologicamente più confacente (a ciò si potrebbe aggiungere anche il fatto che gli esegeti evangelici scrivono mediamente più commentari rispetto ai loro colleghi, mentre magari importanti studiosi "liberal" di Paolo - penso ad es. a E.P. Sanders, John Gager, Philip Esler, Terence Donaldson - scrivono monografie nei quali citano Rm 9,1-5 o 9,4-5 fermandosi a "Cristo secondo la carne", omettendo quindi la dossologia che viene considerata riferita a Dio, ma, non trattandosi di commentari, possono permettersi di non affermare esplicitamente la cosa, per cui il loro "voto" non può essere contato). Per cui, un'ipotetica opinione X sostenuta da quattro esegeti evangelici americani non ha lo stesso "peso rappresentativo" dell'opinione contraria Y sostenuta da un protestante liberal, due cattolici e un ebreo.

CITAZIONE
Questo discorso sulla "semi-infermità" teologica di Paolo lo trovo completamente gratuito, al pari della seguente uscita sul suo presunto "momento di febbre", poichè asserire che il riferirsi di Paolo a Cristo come Dio sia attribuibile a quei fattori (momento di febbre o bipensiero orwelliano poco importa) comporterebbe ignorare volutamente tutti i passi che, nell'At, si riferivano al Signore YHVH, Dio Padre, che Paolo ha applicato al Signore Gesù Cristo, ovvero Dio Figlio per i cristiani. E verrebbe da chiedersi perché Paolo abbia fatto questo se davvero la sua cristologia e quella degli altri apostoli (ho aggiunto "quella degli altri apostoli" perché non abbiamo tracce di tensioni relative alla cristologia, pertanto assumere che la cristologia paolina fosse coerente con quella degli altri apostoli è la tesi più economica, fino a prova contraria naturlich ;) ) fosse stata così irrimediabilmente votata a marcare un'inferiorità ontologica di Cristo rispetto al Padre.

Pertanto ribadisco che trovo completamente gratuite queste affermazioni, senza offesa naturalmente.

Lascia perdere il mio linguaggio colorito (che d'ora in avanti ti pregherei di non riutilizzare quando argomenti, perché non mi ci ritrovo - grazie), che era semplicemente un modo sciocchino di riferire l'obiezione seria e molto forte di quegli esperti di Paolo che ritengono che l'attribuzione del titolo "theos" a Cristo sia scarsamente compatibile con le modalità in cui Paolo si esprime relativamente a Cristo e a Dio in tutto il resto del suo epistolario.
Tali specialisti sanno benissimo, ovviamente, che Paolo applica a Gesù come Kyrios vari passi VT.ri su YHWH (così come conoscono gli altri aspetti notevoli ed elevati della sua cristologia), il che non rende di una virgola il presunto uso cristologico di "theos" in Rm 9,5 meno anomalo e in tensione con il resto della cristologia paolina. Ed è precisamente per questa ragione che Hurtado, che ha una comprensione molto più fine della cristologia paolina rispetto a quella che gli attribuisci, glissa elegantemente su Rm 9,5b.
Ma sinceramente credo che tu non sia nelle condizioni di valutare serenamente (e quindi essere disposto eventualmente ad accogliere) la portata di tali obiezioni incentrate sulla cristologia e teologia di Paolo, un po' perché ho la netta impressione che tu non abbia fatto letture sufficienti sul tema, ma soprattutto perché hai chiaramente un forte interesse che ti impedisce ti considerare con distacco le argomentazioni pro e contro, e ti fa propendere automaticamente per interpretazioni cristologiche massimaliste (una tendenza ermeneutica che investe anche il modo in cui leggi gli studiosi, nel caso specifico Hurtado, i cui argomenti tendi appunto a capire/riferire in modo esagerato e semplificante rispetto a quello che effettivamente scrive).
Da questo punto di vista, la battuta sul fatto che la dossologia di Rm 9,5 deve essere riferita a Cristo, altrimenti la TNM avrebbe ragione - pur essendo chiaramente una battuta - tradisce comunque il tuo forte interesse personale per la questione - non so se appunto per ragioni di polemica anti-TdG piuttosto che per una tua generale impostazione teologica apologetica (e non che "apologetica" sia una parolaccia, semplicemente non è la forma mentis ideale per fare esegesi storico-critica). Lo stesso dicasi del modo ostile e superficialotto con cui ti rapporti alla possibilità di una "cristologia angelica" (tirando in ballo sempre i TdG), di cui Ehrman è semplicemente un divulgatore, ma che ha sostenitori di alto livello e non è affatto peregrina, che la si accolga o meno.

Sia come sia, nel mega-post bibliografico io personalmente non ho offerto alcuna argomentazione circa la crux di Rm 9,5.
La sola cosa che ho argomentato - illustrandola appunto attraverso il sondaggio e le relative citazioni - è che, comunque lo si intenda, tale versetto non ha nessuna rilevanza per stabilire se in Paolo vi sia o meno una cristologia della preesistenza (il che, per la millesima volta, non equivale in nessun modo alla questione se agli occhi di Paolo Gesù fosse "divino" in un senso o in un altro), in quanto l'ipotetico "theos" riferito a Cristo non dice affatto che egli sia un essere preesistente.

Per cui proporrei di accantonare Rm 9,5 (o, per lo meno, io non intendo tornarci sopra).

Non sto a replicare al resto, perché a me qui interessa soltanto una cosa: fare esegesi, discutere i testi (e più tardi comincerò con i post sui passi paolini che ho annunciato).

Edited by JohannesWeiss - 23/3/2016, 08:00
 
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Sant'Atanasio
view post Posted on 23/3/2016, 08:13     +1   -1




[QUOTE=JohannesWeiss,23/3/2016, 07:36 ?t=72259111&st=30#entry589740996]
Ed è precisamente per questa ragione che Hurtado, che ha una comprensione molto più fine della cristologia paolina rispetto a quella che gli attribuisci, glissa elegantemente su Rm 9,5b.
[QUOTE]



Anche Bauckam non parla di Rom 9,5, nondimeno nel mio precedente post ho esposto perché, secondo lui, Paolo non solo riteneva Cristo preesistente, ma Lo riteneva Dio nel senso più pieno del termine.
Ho scritto, nel post precedente a questo, che quindi non è poi così importante attribuire la dossologia di Rom 9,5 al Figlio piuttosto che al Padre, le argomentazioni restano, e finora non le ho viste toccate.

[QUOTE=JohannesWeiss,23/3/2016, 07:36 ?t=72259111&st=30#entry589740996]
Da questo punto di vista, la battuta sul fatto che la dossologia di Rm 9,5 deve essere riferita a Cristo, altrimenti la TNM avrebbe ragione - pur essendo chiaramente una battuta - tradisce comunque il tuo forte interesse personale per la questione - non so se appunto per ragioni di polemica anti-TdG piuttosto che per una tua generale impostazione teologica apologetica
[QUOTE]

1) Io sono apologeticissimo. Confronto a me Messori figura come un Alfred loisy dell'ultim'ora.
2) Il fatto che la Tnm possa avere ragione su Rom 9,5 mi conforta in realtà, perché sarebbe un miracolo ben superiore alla ricrescita subitanea di un arto, sicchè sarebbe una prova dell'esistenza di Dio di fronte alla quale le cinque vie potrebbero giusto nascondersi per manifesta inadeguatezza.
Ironic mode off.

Appurato ciò, nel post precedente ho riportato numerose tesi di Hurtado nelle quali lui spiega il perché Paolo e gli apostoli ritenessero Gesù preesistente e Dio. Esistono argomentazioni cogenti per togliere credibilità a quell'interpretazione oppure il fatto che siano confacenti agli apologeti è sufficente per accantonarla?

Perché io sono prontissimo a cambiare idea, non sono certo uno di quelli che affermano che il Pentateuco sia stato scritto da Mosè, però chiedo delle argomentazioni cogenti per cambiare il mio pensiero.

La pre-supposizione "la cristologia del quarto Vangelo deve aver avuto tempo per svilupparsi perciò i documenti neotestamentari più antichi che abbiamo sono per forza di cose in contrasto con essa" non mi sembra un argomento cogente, perché fondato appunto su una pre-supposizione.

Per esempio, non ho nessun problema ad accettare che la maggior parte dei grandi discorsi gesuani del quarto Vangelo siano redazionali ma questo perché ci sono ottimi e sovrabbondanti motivi per pensare ciò, nonostante a me farebbe molto più comodo pensare il contrario.

CITAZIONE (JohannesWeiss @ 23/3/2016, 07:36) 
Non sto a replicare al resto, perché a me qui interessa soltanto una cosa: fare esegesi, discutere i testi (e più tardi comincerò con i post sui passi paolini che ho annunciato).

Anch'io. Perciò ti chiedo di spiegarmi, se puoi, perché dovrei ritenere l'esegesi di Bauckam sbagliata. Non ho alcun problema a cambiare idea, quando scrivo nei blogs cattolici riferendomi al Vangelo di Giovanni con le parole che ho usato prima vengo anatemizzato, perciò sono molto meno conservatore di quanto sembri.

La differenza è che io non giudico una tesi invalida perché conservatrice o liberale, e nemmeno dai "tituli" di chi la propugna, ma la giudico in base a ciò che mi sembra più sensato.

Sicchè: quali sono le ragioni per le quali dovrei credere che Paolo ritenesse Gesù un essere creato e/o subordinato ontologicamente al Padre?

CITAZIONE (JohannesWeiss @ 23/3/2016, 07:36) 
Lo stesso dicasi del modo ostile e superficialotto con cui ti rapporti alla possibilità di una "cristologia angelica" (tirando in ballo sempre i TdG), di cui Ehrman è semplicemente un divulgatore, ma che ha sostenitori di alto livello e non è affatto peregrina, che la si accolga o meno.

Per un giudeo-cristiano dell'epoca era concepibile pensare ad altri esseri divini oltre a Dio?

CITAZIONE (JohannesWeiss @ 23/3/2016, 07:36) 
"cristologia angelica" (tirando in ballo sempre i TdG), di cui Ehrman è semplicemente un divulgatore,

Altra domanda (ribadendo che mi sta bene accontonare Rom 9,5 come hai proposto): i sostenitori di quella tesi (la cristologia angelica) fanno gli stessi ragionamenti di Erhman? No perché tu hai criticato il mio modo di argomentare -e ne hai pienamenre diritto, ci mancherebbe- ma la tesi di Erhman secondo la quale il fatto Paolo non vedesse Gesù come un'incarnazione del Padre sarebbe un buon motivo per pensare che Lo ritenesse un "essere angelico preesistente" e quindi subordinato al Padre (tra l'altro ha fatto anche riferimento al Vangelo di Giovanni, senza capire il Prologo, evidentemente) è un'argomentazione che mi ha lasciato atterrito per la sua debolezza e soprattutto per la sua fallacia, dato che nessun cristiano ha mai ritenuto Gesù Cristo l'incarnazione del Padre, nondimeno Lo ritengono Dio nel senso più pieno del termine, come ritengono Dio il Padre.

Il fatto che per Erhman Paolo non potesse ritenere Gesù Dio in senso pieno in ragione del fatto che per lui non era l'incarnazione del Padre è un'argomentazione che lascia molto a desiderare da un accademico quotato come Erhman. Come ho detto, certe cose potrei aspettarmele da un Cascioli, non da uno come lui.

Edited by Sant'Atanasio - 23/3/2016, 08:35
 
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JohannesWeiss
view post Posted on 23/3/2016, 08:35     +1   -1




CITAZIONE (Sant'Atanasio @ 23/3/2016, 08:13) 
Anche Bauckam non parla di Rom 9,5, nondimeno nel mio precedente post ho esposto perché, secondo lui, Paolo non solo riteneva Cristo preesistente, ma Lo riteneva Dio nel senso più pieno del termine.
Ho scritto, nel post precedente a questo, che quindi non è poi così importante attribuire la dossologia di Rom 9,5 al Figlio piuttosto che al Padre, le argomentazioni restano, e finora non le ho viste toccate.

Perché questo non è un thread impostato sul discutere le tesi di Bauckham. Lo si può certamente fare, ma io non ho tutto questo tempo e quello che vorrei fare è continuare a discutere i testi (e lo starei già facendo se non dovessi perdere tempo in questo modo).

CITAZIONE
1) Io sono apologeticissimo. Confronto a me Messori figura come un Alfred loisy dell'ultim'ora.

Che quoto insieme ad alcune righe del post precedente:

CITAZIONE
5) Perché la Chiesa avrebbe accolto nel Nuovo Testamento dei testi che davano agio a dottrine eretiche? Se, davvero, ci fosse quello iato, quel "grande e brutto fossato" tra ciò che credevano gli apostoli originariamente e ciò che crederà poi la Chiesa "tradendo" Gesù, perché accogliere quei testi? Forse perché sono testi scritti non per essere vivisezionati passo per passo creando una ventina di cristologie confliggenti tra loro non solo nel corpus di lettere paolino ma addirittura nella stessa lettera (!!!) ma, invece, erano testi scritti esplicitamente per comunità già catechizzate, che conoscevano già bene la dottrina apostolica, e quindi certi modi di analizzarli, escludendo del tutto la Traditio (quando non addirittura bollandola come fuorviante), ovvero il modo in cui la Chiesa li ha letti e interpretati, sono sbagliati con tutto ciò che ne consegue, visto che da premesse errate seguono conclusioni errate?

E ora replico.
A parte il fatto che nessuno ha parlato di cristologie "confliggenti", ma semplicemente di cristologie diverse, il tuo modo di porti in queste righe "confligge" molto con l'impostazione di questo forum. Per risibile che ti possa sembrare, la pluralità di cristologie neotestamentarie (anche in Paolo, ed eventualmente anche in una singola lettera paolina) è un dato oggettivo che viene universalmente riconosciuto in ambito accademico.
Quello che invece non ha posto nell'esegesi scientifica è argomentare facendo ricorso alla Traditio per risolvere in un certo modo (pre-determinato) le varie problematiche. E siccome questo forum si basa sulla metodologia scientifica (vedi regolamento: 3) Il forum è inteso per favorire il dibattito e l’analisi di tesi improntate a criteri scientifici. Tale linea editoriale è condizione imprescindibile per la partecipazione attiva al forum), ho l'impressione che tu stia battendo una strada pericolosa...

CITAZIONE
Appurato ciò, nel post precedente ho riportato numerose tesi di Hurtado nelle quali lui spiega il perché Paolo e gli apostoli ritenessero Gesù preesistente e Dio. Esistono argomentazioni cogenti per togliere credibilità a quell'interpretazione oppure il fatto che siano confacenti agli apologeti è sufficente per accantonarla?
Perché io sono prontissimo a cambiare idea, non sono certo uno di quelli che affermano che il Pentateuco sia stato scritto da Mosè, però chiedo delle argomentazioni cogenti per cambiare il mio pensiero.
La pre-supposizione "la cristologia del quarto Vangelo deve aver avuto tempo per svilupparsi perciò i documenti neotestamentari più antichi che abbiamo sono per forza di cose in contrasto con essa" non mi sembra un argomento cogente, perché fondato appunto su una pre-supposizione.

Era Bauckham, non Hurtado. Comunque, se riesco a districarmi da questo dibattito sterile, avrai presto abbondanti argomenti esegetici per ritenere assente o comunque dubbia l'idea della preesistenza di Cristo in Paolo.

CITAZIONE
La differenza è che io non giudico una tesi invalida perché conservatrice o liberale, e nemmeno dai "tituli" di chi la propugna, ma la giudico in base a ciò che mi sembra più sensato.

Nemmeno io. Non distorcere e strumentalizzare quello che scrivo (e che ho già chiarito!), altrimenti iniziano a girarmi le balle.
 
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Sant'Atanasio
view post Posted on 23/3/2016, 08:48     +1   -1




CITAZIONE (JohannesWeiss @ 23/3/2016, 08:35) 
Era Bauckham, non Hurtado. Comunque, se riesco a districarmi da questo dibattito sterile, avrai presto abbondanti argomenti esegetici per ritenere assente o comunque dubbia l'idea della preesistenza di Cristo in Paolo.

Non mi risulta di aver distorto il pensiero di Bauckam (l'ho quotato direttamente, specie in risposta al fatto che, secondo te, Bauckam non vedesse la piena appartenenza di Gesù all'identità di Dio nella cristologia dell'esaltazione cosa che, riprendendo il suo pensiero, si è rivela inesatta).

Ad ogni modo aspetto gli argomenti, grazie. :)

CITAZIONE (JohannesWeiss @ 23/3/2016, 08:35) 
A parte il fatto che nessuno ha parlato di cristologie "confliggenti", ma semplicemente di cristologie diverse, il tuo modo di porti in queste righe "confligge" molto con l'impostazione di questo forum. Per risibile che ti possa sembrare, la pluralità di cristologie neotestamentarie (anche in Paolo, ed eventualmente anche in una singola lettera paolina) è un dato oggettivo che viene universalmente riconosciuto in ambito accademico.
Quello che invece non ha posto nell'esegesi scientifica è argomentare facendo ricorso alla Traditio per risolvere in un certo modo (pre-determinato) le varie problematiche. E siccome questo forum si basa sulla metodologia scientifica (vedi regolamento: 3) Il forum è inteso per favorire il dibattito e l’analisi di tesi improntate a criteri scientifici. Tale linea editoriale è condizione imprescindibile per la partecipazione attiva al forum), ho l'impressione che tu stia battendo una strada pericolosa...

Guarda che io non no mai negato il fatto che, secondo gli storici, siano presenti diverse cristologie nel NT, e nemmeno ho scritto che la Traditio vada invocata per pre-determinare certe questioni, pertanto qua sono io ad aver l'impressione che ciò che ho scritto sia stato distorto e strumentalizzato.

Io ho fatto un'altra domanda: se i diretti successori di Paolo e degli apostoli hanno travisato completamente la loro dottrina, come possiamo pensare noi, dopo 2000 anni, di capire qualcosa di più del pensiero paolino se nemmeno i discepoli della "scuola paolina" lo hanno capito?

Ma aldilà di questo, il riferimento alla Traditio non era inerente il fatto che essa dovrebbe avere la preminenza sull'esegesi odierna, ma era inerente ai paradossi che genera il farne totalmente a meno, prescindendo quindi dall'interpretazione che veniva data a quei testi a pochissimi anni dalla loro stesura.

La mia forma mentis sarà sicuramente sbagliata, ma pensare che i diretti discepoli degli apostoli abbiano interpretato il pensiero apostolico in modo sbagliato -tutti o quasi- mi sembra abbastanza improbabile storicamente.

Tutto li.

CITAZIONE (JohannesWeiss @ 23/3/2016, 08:35) 
Nemmeno io. Non distorcere e strumentalizzare quello che scrivo (e che ho già chiarito!), altrimenti iniziano a girarmi le balle.

Cosa ne pensi di Erhman e della sua tesi secondo la quale il fatto che Paolo non identificasse Gesù col Padre significherebbe che -secondo Erhman- Paolo potesse anche vedere Gesù preesistente ma certo non come il Dio creatore, come se questa fosse un'argomentazione seria (e a confutarla basta il solo Vangelo di Giovanni da lui citato)?

Hai criticato la mia critica ad Erhman ma non mi hai detto cosa ne pensi di questo svarione, abbastanza inaspettato da un accademico quotato come lui. Non è mia intenzione, dopo la tua critica della mia critica, fare la critica della critica della critica, ma chiederti il perché di questa tua omissione.
 
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