Ho letto il thread con interesse e forse a qualcuno può interessare qualche altro punto di vista, dunque ecco i miei due cents.
Innanzitutto un accenno di metodologia. Va bene, anzi benissimo, fare il punto sul consensus negli studi moderni. Lo facciamo sempre e continueremo a farlo, per notare magari che su alcune
vexatae quaestiones alla fine assistiamo spesso a dei cicli vichiani per cui opinioni considerate
démodé, dopo qualche decennio ritornano in auge, e viceversa. Ciò che sembra un po’ in ombra, per non dire assente, invece, è l’esegesi patristica. Eppure i grandi intellettuali dei primi secoli del Cristianesimo avevano alcune armi che noi non abbiamo, ad esempio:
- Una comprensione trasmessa attraverso l’oralità e il culto, dalle prime generazioni dei cristiani. Naturalmente mon è detto che si tratti del
sensus auctoris, ma questo “senso ecclesiale” è troppo spesso sottovalutato, salvo poi quando ci ricordiamo che il NT è un testo scritto
dalla Chiesa,
nella Chiesa e
per la Chiesa;
- un testo del NT con qualche secolo in meno di pasticci in fase di trasmissione;
- una comprensione linguistica “da madrelingua”, almeno per i greci, cioè quasi tutti quelli che avevano qualcosa da dire.
In altri termini, tra cosa ne pensa Romano Penna (con tutto il rispetto, eh) e chessò… Origene, sono vagamente più interessato al secondo, o almeno gli darei lo stesso peso.
Secondo punto metodologico, ma che si ricollega in parte al primo: non sono affatto d’accordo nel sostenere che il culto non ci dice nulla su «le modalità con cui questo “status divino” viene concretamente concepito e rappresentato». Non lo sono in primo luogo perché tutti i brani significativi (i cd. “inni” di Fil e Col, 1Cor 8,6 e probabilmente anche la dossologia di Rm) sono elementi nati proprio in ambito cultuale. Ma non solo: il culto è la prima manifestazione della comprensione teologica, molto prima che questa venga digerita, assimilata e codificata:
legem credendi lex statuat supplicandi, dicono quelli bravi.
Fatte queste doverose premesse, veniamo alla ciccia.
Sulla dossologia di Rm 9,5 mi risulta che per l’esegesi teologica siano solo Diodoro di Tarso e Fozio (qui il "solo" mi pesa un po' lo ammetto), mentre la maggior parte degli antichi autori ecclesiastici sia piuttosto per la lettura cristologica: Ireneo, III, 16,3; Ps-Ippolito,
Adv. Noet., 6; Novaziano,
Fid, 13;
De Trin., 13; Tertulliano,
Adv.Prax., XIII, 9 e XV, 7; Cipriano,
Ad Quir., II, 6; Atanasio,
Adv. Ar., 1,10; 4,1; ID.,
Ad Epict. 10; Agostino,
De Trin., II, 13,23; ID.,
Conf., VII, 18; Basilio,
Adv. Eun., 4; Epifanio,
Pan., 57; Gregorio di Nissa,
Adv. Eun., 11; Ilario di Poitiers,
De Trin., 8,37; Ambrogio,
De Fide, 4,6; ID.,
De S.Spir., 1,3,46; Giov.Crisostomo,
In Roman., 17,3; Teodoro di Mopsuestia,
In Roman.; Girolamo,
Ep. 121,2; Cirillo di Alex.,
Adv Iul., 10.
Insomma, non venite a dirmi che questa sfilza di cristiani grecofoni dei secoli II e III non abbiano nulla da dire. Giusto a titolo di esempio, lo ps.Ippolito:
Consideriamo la parola dell’apostolo «dai patriarchi venne Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli». Queste parole dichiarano il mistero della verità giustamente e chiaramente. Colui che è sopra ogni cosa, è Dio; per questo egli parla audacemente e dice: «tutto mi è stato dato dal Padre mio». Colui che è sopra ogni cosa, Dio benedetto, è nato, è divenuto uomo. Egli è quindi il Dio per sempre.
Se proprio vogliamo essere più realisti del re, da Agostino apprendiamo che addirittura gli ariani attribuivano la dossologia al Figlio:
se è Dio anche il Figlio, come essi debbono ammettere, sia pure con- trovoglia, in forza delle parole dell’Apostolo: Egli è al di sopra di tut- te le cose, Dio benedetto nei secoli. (De Trin., II, 13,23)
In conclusione, e senza voler arrivare ad un giudizio definitivo, credo che almeno sia necessario tenere in considerazione l’esegesi antica.
Se poi qualcuno fosse interessato alla mia opinione personale, è in fondo al post
Veniamo ora a Colossesi. La mia posizione è riassunta in questo articolo (
LINK ad Academia), cui rimando. Limito il
cutpaste solo una parte delle conclusioni:
«…una dottrina del mediatore della creazione era trasversalmente presente, a vario titolo e con modalità diverse, praticamente in tutto il Mediterraneo orientale, sia nel mondo pagano che in quello ebraico. Tuttavia, la forma che tale dottrina assume nell'epistola ai Colossesi sembra maggiormente aderente al modello in voga presso circoli giudaici "marginali" (come quelli rappresentati, ad esempio, dai testi qumranici e dal ciclo enochiano) in cui il filone apocalittico/sapienziale era particolarmente fiorente. È in quest'ambito, più che nella cultura tardo-ellenistica, che bisogna guardare per rintracciare le fonti della dottrina del mediatore della creazione nell'Inno di Colossesi, come pure è dallo scostamento dagli stereotipi nei quali si era cristallizzata in tali circoli che si può trovare l'originalità cristiana, rappresentata in primo luogo dal tema della risurrezione, compimento di quello già presente in nuce (ad es. in Enoc) dell'incarnazione del logos.»
Sulla base di quanto riassunto in questo piccolo studio, non mi pare ardito ritenere che la lettura – pur affascinante – di 1Cor 8,6 in chiave escatologica possa non rappresentare la via esegetica più economica, specialmente in relazione a ciò che nella redazione del NT c’è prima (Filippesi) o dopo (Colossesi). Per pensare, cioè ad una nuova creazione nello Spirito dovremmo avere almeno altri contesti in cui è manifesta una simile “pneumatologia escatologica” realizzata nella persona di Gesù Cristo. Ma, poiché né a me ve vengono in mente, né Kuschel li menziona (nessuno degli esempi che offre è veramente calzante a mio avviso), mi sembra più semplice rintracciare la storia dell’idea in un tema – quello del mediatore della creazione – che vediamo in maniera pressoché ubiquitaria nella letteratura intertestamentaria e che certo gli agiografi avevano in qualche modo – magari anche solo indirettamente – masticato.
In altri termini, se non c’è nessun problema a intendere la figura del Cristo esaltato come una riconciliazione tra il creatore e l’uomo, trasformare 1Cor 8,6 in un’espressione di una pneumatologia della nuova creazione (un po’ in stile… Gioacchino da Fiore?) mi pare eccessivo e un po’ anacronistico.
Con ciò, peraltro, non sto dicendo che Paolo i i primi cristiani avessero una teologia consapevole di Cristo come
sophia-
logos-mediatore della creazione, ma che questa idea non fosse incompatibile con il loro retroterra culturale. Nel culto, si sa, a volte si esagera, come già si è detto, e questa in fondo è la mia linea.
In conclusione, visto che il thread parla di “cristologia originaria” e non “cristologia paolina” posso permettermi di ritenere che Paolo non avesse tra i suoi obiettivi quello di sviluppare il concetto di Cristo come mediatore della creazione ma allo stesso tempo di affermare che la cosa non fosse per lui inconcepibile (magari lo riteneva un po’ troppo “spinto”?) e di certo non lo era per la prima comunità orante.
Ecco i miei two cents. Se valgono solo uno, voglio il resto