| Punto (1) - Sono d'accordo con Frances. Peraltro in base alla sintassi greca, l'espressione κατα την του Πετρου εν Πωμῃ διατριβην rende lo stato in luogo εν Πωμῃ una caratteristica della διατριβη di Pietro, quindi non si può tradurre: "Marco, appunto, a Roma mise per iscritto i fatti (πραξις) del Signore in occasione del soggiorno di Pietro" nè si potrebbe tradurre: "Marco, appunto, a Roma mise per iscritto i fatti (πραξις) del Signore in accordo alla predicazione di Pietro". Pertanto, εν Πωμῃ è una caratteristica strettamente legata a διατριβη e quale migliore ipotesi si può fare che intendere questa parola come "soggiorno", anche in considerazione che il senso di "lezione", "insegnamento" è più tipico delle scuole filosofiche, specialmente stoiche e neostoiche, che non della predicazione cristiana (da verificare se Clemente usa questa parola nelle sue opere per la predicazione o l'insegnamento cristiano). Comunque per denotare una contemporaneità temporale (un fatto che avviene durante o mentre si svolge un altro fatto) in greco vi sono altri costrutti, frequentissimo il genitivo assoluto ma anche il costrutto εν τω + infinito, oppure, banalmente, subordinate introdotte da οτε (= "quando") o, ancora, frasi basate su ως ("come" con senso di "quando", un uso non di rado rintracciabile in Plutarco, ho visto). Sinceramente, non so con che frequenza Clemente di Alessandria utilizzi κατα + acc.vo con senso temporale, conosco pochissimo il greco di questo autore, so che non è frequente nel greco neotestamentario (comunque cfr. ad es. il κατα εορτην in occasione della passione di Gesù, espressione peraltro appunto variamente interpretata) nè nel greco di altri autori del I-II sec. d.C. (es. Musonio Rufo, Epittèto/Arriano e Plutarco) che in genere predilidigono appunto i costrutti di cui ho detto prima, specialmente l'utilizzatissimo genitivo assoluto.
Punto (2) - Avevo pensato a τα κατεψευσμενα come a un participio sostantivato (neutro plurale) che potrebbe essere: (i) oggetto del participio προτεινουσι da cui, in base all'uso predicativo di ειμι, la resa: "Non bisogna concedere loro, [se/quando] (costoro) mettono davanti le (cose) che sono state falsificate (τα κατεψευσμενα), che esista il vangelo mistico di Marco". Peraltro se non mi sbaglio τα κατεψευσμενα è usato come participio sostantivato (neutro pl.) nella stessa lettera di Clemente (Plate II, folio I, verso, l. 20) quando appunto dice: τα κατεψευσμενα ελεγχων, cioè "respingendo le (cose/frasi) che sono state falsificate (dai carpocraziani)". Se considero κατεψευσμενα come participio congiunto, con chi sarebbe concordato? A parte queste questioni puramente sintattiche, pensavo che tutto il discorso successivo di Clemente fosse appunto legato al fatto che bisogna negare la verità con i carpocraziani. Che il vangelo falsificato da Carpocrate fosse un falso è evidente per Clemente mentre il negare la verità sarebbe appunto riferito al negare l'esistenza dello stesso vangelo mistico di Marco che Clemente sa che esiste: negando la sua esistenza, si nega la possibilità che Carpocrate lo possa avere consultato e quindi falsificato: le falsità di Carpocrate non avrebbero dunque alcuna base su cui appoggiarsi. Del resto secondo Clemente pochissimi erano a conoscenza di questo vangelo mistico di Marco quindi al grande pubblico non era noto ed era perfettamente possibile continuare a mantenere il segreto. E' anche interessante osservare che Clemente parla di una "copia" presa da Clemente di Alessandria, quindi esistevano "copie" di questo vangelo mistico, che sembra in contraddizione col fatto che fosse un oggeto così segreto e per pochissimi adepti. Se circolano "copie" che segreto è?
Edited by Hard-Rain - 21/4/2011, 08:34
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