Studi sul Cristianesimo Primitivo

Sui limiti dell’apprendimento dell’ebraico moderno in vista di quello biblico.

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Polymetis
view post Posted on 8/2/2012, 16:26 by: Polymetis     +1   -1
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Stavo leggendo una serie di racconti di S.Y. Agnon, grande romanziere ebreo nato in Ucraina nel 1888 e morto in Israele nel 1970, uno dei Padri della rinascita dell’ebraico, lingua in cui scrisse e che gli fece ottenere un nobel per la letteratura.
La lettura di questo racconto mi ha confermato un problema invalicabile che sta alla base di tutti coloro che vogliono resuscitare una lingua morta, che si tratti dell’ebraico o del latino, cioè l’assenza di madrelingua che possano insegnare l’idioma, e la necessità dunque di apprendere la lingua da dei libri, o comunque da persone che a loro volta l’hanno appresa da libri e mai da un madrelingua, come invece avviene quando il bambino impara la lingua dei genitori.
Se infatti non esistono più madrelingua, come non ne esistono più del latino, per scoprire il significato di una parola, cosa essa regga sintatticamente, ecc. occorre rifarsi alla letteratura antica. Col continuo trovare un verbo, si può cioè in base ai contesti in cui lo si trova stilare una lista dei suoi significati, e dei costrutti sintattici in cui viene usato. Il problema però è che questo procedimento non permette di sentire la parola come la intende un madrelingua, ma solo di ricavare un significato che noi desumiamo dallo studio dei testi antichi. E non serve a nulla che una lingua rimanga viva in certe enclavi tra dei non madrelingua: il latino ad esempio è stato sempre parlato, perché lo usava il clero di tutta Europa per comunicare, era la lingua dei dotti, la lingua in cui si faceva lezione nelle università, della liturgia, ecc.
Sicché c’è sempre stato qualcuno che ha trasmesso la conoscenza del latino ad un altro, il problema è che ad un certo punto non c’è stato più nessun madrelingua. Un monaco romano del IV secolo poteva certo aver evangelizzato i germani, creato un clero cristiano locale a cui aveva insegnato il latino e lasciato libri da leggere, ma nella generazione successiva, inevitabilmente, per addestrare i nuovi monaci ci sarebbe stato un madrelingua germanico che insegna il latino a delle altre persone senza essere un madrelingua. Il problema è che non è possibile trasmettere tutto: anche insegnando una lingua a qualcun altro non è possibile farlo integralmente, né è possibile trasportare nella foresta nera tedesca l’ambiente romano in cui il latino si parlava. Sicché se deve spiegare ad un barbaro germanico che cos’è un console, o un senatore, puoi per l’appunto solo cercare di farglielo capire a parole, ma questa comprensione rimarrà sempre inadeguata perché il germano non abita nell’ambiente che ha generato l’idioma latino e dunque non può cogliere esattamente i riferimenti. E’ lo stesso che accade quando per spiegarci che cosa fosse uno shogun in Giappone ci dicono che è come un feudatario medievale, e Dio solo sa quando dev’essere fuorviante questo parallelo… In realtà noi non sappiamo niente di cosa voglia dire essere uno shogun, esattamente come non sappiamo niente di cosa volesse dire per il 7 re di Roma essere dei “re”, perché questa carica assume diecimila valenze diverse a seconda del contesto culturale e geografico.
Un medesimo problema, dovuto alla delocalizzazione geografica e storica, nonché al fatto che vennero a mancare dei madrelingua per trasmettere la parlata, s’è prodotto nella trasmissione dell’ebraico, così come è avvenuto per il latino. I rabbini hanno sempre mantenuto vivo lo studio dei testi sacri ebraici, ma non c’era nessun rabbino madrelingua che potesse illuminarli insegnando loro la lingua, e dunque l’ebraico è stato insegnato da dei non madrelingua, che magari avevano come primo idioma lo yiddish, a degli altri non madrelingua, in maniera del tutto simile a dei monaci medievali che magari parlavano latino tra di loro al monastero, nelle occasioni di studio, nella liturgia, nelle università, ma nessuno di loro era più madrelingua.
Il fatto che nella letteratura latina, così come nella Torah, ci siano così tante parole di significato incerto si deve proprio a questo: la trasmissione della lingua tra dei cultori che non sono più madrelingua perde inevitabilmente dei pezzi.
Dunque che cos’è l’ebraico moderno? E’ esattamente la stessa cosa di un ipotetico latino resuscitato. Non è più la lingua parlata da Cicerone, ma è la ricreazione artificiale di quello che i latinisti moderni capiscono della lingua di Cicerone. Similmente l’ebraico moderno è una creazione operata in base a quello che i grammatici responsabili della rinascita dell’ebraico capivano dei testi sacri ebraici del passato. Ma è questo il punto: le sfumature originali sono andate inevitabilmente perse, e ciò che sta sui dizionari di ebraico attuali non è qualcosa di paragonabile a ciò che De Mauro scrive su un dizionario di italiano, non si tratta cioè dell’interpretazione che un madrelingua dà di una parola, ma del significato che dei grammatici ebrei non più madrelingua hanno ricavato dallo studio dei loro testi sacri.
Il rischio ovviamente è che se la tradizione interpretativa rabbinica ha assegnato ad un hapax legomenon del testo biblico un significato x, e poi nell’iniziare a scrivere in ebraico romanzi inediti s’è usata quella stessa parola biblica attribuendole quel significato x che le era stato dato dall’interpretazione rabbinica, allora l’israeliano moderno abbinerà automaticamente quella parola al significato x, ignorando che il significato x era solo l’interpretazione data dalla tradizione rabbinica a quella parola. V’è cioè il rischio di un’interferenza tra i significati che una parola ha in ebraico moderno, e lo studio dei significati di una parola nel testo biblico, che potrebbe avere un significato parzialmente diverso da quello immaginato dai grammatici che hanno resuscitato l’ebraico.
Mi si permetta un esempio. Supponiamo che ci sia la terza guerra mondiale, che l’olocausto nucleare distrugga gran parte dell'Europa e con essa gran parfte della letteratura italiana, e che gli italiani sopravvissuti siano pochissimi. Dopo essersi trasferiti in un’altra zona della Terra non contaminata dalle radiazioni, ad es. l’Australia, questi italiani alla 40° generazione avranno dei discendenti che parlano l’inglese come prima lingua, anche se sulla base dei testi italiani superstiti s’è continuato a studiare l’italiano. Supponiamo pure che siano sopravvissute solo 3 occorrenze nell’antica letteratura italiana superstite della parola “tesoro”, e tutte in frasi del tipo: “tesoro ti amo”, “Vincenzo sei proprio un tesoro”, ecc.
Questi grammatici, dediti allo studio dell’italiano, deducono che “tesoro” vuol dire “amore”, cosa che in effetti è vera, ma non hanno più notizia che tesoro indichi un mucchio di denaro, una cosa preziosa, e che proprio a causa di questo significato base le persone amate sono definite metaforicamente “tesoro”.
Questo è esattamente quello che è successo col latino, con l’ebraico, e con molte altre lingue. L’assenza di parlanti madrelingua, l’impossibilità di trasmettere l’intera conoscenza di un idioma ad un non-madrelingua, e la scomparsa del mondo cui quelle parole appartenevano, ha fatto sì che il significato originario si perdesse. E se qualcuno avesse voluto resuscitare l’italiano nell’Australia del 30° secolo, creando uno Stato chiamato Nuova Italia, avrebbe creato una lingua basata sulla comprensione dei grammatici, una lingua finta in cui “tesoro” vuol dire solo “amore”. Col rischio poi che, se venissero trovati nuovi testi dell’italiano antico scampati al disastro dove la parola “tesoro” è usata in senso diverso, un locutore del neo-italiano verrebbe depistato nel leggerli dai significati che la tradizione dei grammatici e dei lessicologi ha attribuito a quella parola.
L’infinità di parole dal significato incerto in Lucrezio come nel Tanach testimoniano questo processo di deperimento nella conoscenza semantica di una lingua.
L’unico modo in cui si potrebbe sfuggire a tale degrado sarebbe conservare dei madrelingua lungo tutta la trasmissione di una lingua (sebbene permarrebbe l’effetto distorsivo del dislocamento rispetto al contesto in cui quelle parole nacquero, e dunque l’impossibilità di collocare esattamente le parole).
Questa continuità dei madrelingua sfortunatamente non c’è stata per l’ebraico come non vi fu per il latino, ed è stato proprio un testo di Agon, scritto tra il 1908 e il 1938, cioè prima della creazione dello stato di Israele a darmene la conferma. Com’è noto a inizio ‘900, e anche prima, si iniziavano a fare i primi esperimenti di scrittura in ebraico per opere profane, operazione tra l’altro difficile perché mancavano le parole per esprimere la realtà moderna. Ecco che Agon in un brano di un racconto intitolato “Il senso dell’odorato” si scaglia contro i suoi correligionari ebrei che non scrivono in ebraico ma nelle loro lingua madri:

CITAZIONE
Contro i saggi di questa generazione che scrivono in tutte le lingue tranne che nella lingua santa

Qualcuno potrebbe dire, come fanno alcuni stolti d’Israel: è mai possibile parlare in una lingua che da mille anni e più è stata sradicata dalla bocca? Perfino la maggior parte dei sapienti di questa generazione non ha la forza di misurarsi con essa: o commettono errori grossolani o scrivono in qualunque altra lingua, ma non nella lingua santa. Chi dice così non ha riflettuto sulla questione essenziale: nonostante sia caduta in disuso nel parlato, la lingua non è stata abbandonata nella scrittura, ed è a disposizione di chiunque la cerchi. In che modo? Basta leggere la Torà, studiare la Mishnà, approfondire la Ghemarà e subito si svelano tutti i tesori della lingua santa che il Santo, benedetto Egli sia, ha messo in serbo per coloro che ama. E in particolare di Shabbat, quando ci è concessa un’anima supplementare che conosce la lingua santa come la conoscono gli angeli.
Perché allora certi sapienti si esprimono male? Perché attribuiscono la massima importanza ai discorsi mondani e ritengono le parole di Torà un elemento accessorio. Se invece ponessero la Torà al primo posto essa verrebbe loro in soccorso. Quanto a coloro che scrivono le proprie opere in ogni sorta di idiomi ma non nella lingua santa, perfino un goy che si esprima nella lingua santa è preferibile a loro, purché non scriva sciocchezze. Sappi che così è, infatti il malvagio Balaam, che quanto a malvagità non ebbe rivali, consigliò agli uomini d’Israel di fornicare con le figlie di Moab, causando la morte di quindici miriadi e ottomilaseicento di loro. Ma come ricompensa per aver usato la lingua santa per cantare le lodi d’Israel, meritò che gli fosse intitolata una porzione settimanale della Torà e inoltre che ogni mattina tutto Israel cominci la preghiera con il versetto « Quanto sono belle le tue tende, Giacobbe, le tue dimore Israel» con il quale egli lodò il nostro popolo.
Qualcuno potrebbe ribattere che alcuni saggi dell’antichità scrissero parte dei loro libri in arabo. Il caso di quegli antichi maestri però è diverso, perché i loro contemporanei erano stanchi dell’esilio, lontani dalla luce del Messia, e per questo essi scrissero loro lettere di consolazione nell’idioma d’uso comune, così come si calma un bambino parlandogli in una lingua a lui comprensibile. La lingua d’Ismaele inoltre è un caso particolare perché a lui fu data in pegno la terra d’Israel. E perché la terra d’Israel fu affidata a Ismaele? Perché ebbe il merito di toglierla di mano a Edom. Essa rimarrà in suo possesso fino a che tutti gli esuli si riuniranno, allora la restituirà loro.” (S.Y Agnon, La leggenda dello scriba e altri racconti, Milano, 2009, Adelphi, 126-127)

Questo piccolo brano insegna delle cose molto interessati: l’ebraico era caduto in disuso nel parlato, anche i sapienti avevano difficoltà ad esprimersi in questa lingua (similmente chiedete ad un professore di latino con 40 anni di esperienza di parlarvi nella lingua dei Cesari, e la maggior parte di essi vi riderà in faccia), e si afferma altresì che il modo per conoscere l’ebraico passava dallo studio dei testi dell’antichità, cioè esattamente lo stesso che fanno i grammatici odierni col latino.
L’ebraico moderno risuscitato da costoro non è dunque la lingua di Mosè, ma la comprensione che questi grammatici avevano della lingua di Mosè. Il premio nobel Agnon dedica questo raccontino alle sue peregrinazioni, di sapiente in sapiente, dovute al dubbio sul costrutto di un verbo, non era infatti sicuro che la costruzione da lui usata per un romanzo fosse possibile, e a parlare è uno di quelli che l’ebraico moderno l’hanno fondato!
Sicché chi parla oggi ebraico moderno, in realtà si basa sulle interpretazioni sintattiche e lessicologiche di come funzionasse l’ebraico antico date dai grammatici, le quali sono ovviamente fallibili, e non si basa su una catena di madrelingua che si trasmettono un idioma.
Lo studio dell’ebraico moderno dunque, sebbene abitui pregevolmente alla lettura senza vocali, ha quest’effetto di interferenza, causato dalla lettura del testo biblico coi significati dell’ebraico moderno, i quali possono ottenebrare la lettura con dei preconcetti lessicali.
Spero di essere stato chiaro e sarebbe interessante sapere se altri trovano questi miei ragionamenti sensati, o se invece ci sono altri fattori da considerare.
Da ultimo, per chi fosse curioso, metto il spoiler il racconto di Agnon integrale (sono 10 pagine), per chi fosse interessato a leggerlo (non garantisco l'assenza di errori perché il testo è stato ottenuto con un OCR):


IL SENSO DELL’ODORATO

1. L’eccellenza della lingua santa

Non come tutte le altre lingue è la lingua santa, poiché tutte le altre lingue non sono che il frutto di convenzioni stabilite da ogni singola nazione sul pro-prio idioma, mentre la lingua santa è quella in cui fu data la Torà e con essa il Santo, benedetto Egli sia, creò il Suo mondo. Nella lingua santa è lodato dai serafini, dagli ofannim e dalle sante khayyot, e anch’Egli, quando vuole lodare Israel, lo fa nella lin-gua santa, poiché è scritto: come sei bella amica mia, come sei bella. Quale lingua parla la Scrittura? la lingua santa, ovviamente. E quando Egli viene preso dal desiderio di udire la preghiera d’Israel, di quale lingua ha desiderio? della lingua santa, infatti dice: fammi udire la tua voce, perché la tua voce è gradevole. Quale voce gli è gradevole? la voce di Giacobbe che prega nella lingua santa. Nella lingua santa Egli ricostruirà Gerusalemme e vi riunirà coloro che sono dispersi nell’esilio. E nella lingua santa Egli si prende cura degli affranti in lutto per Sion, il cui cuore è spezzato a causa della rovina, e fascia le
loro piaghe, com’è detto: il Signore ricostruisce Gerusalemme, riunisce i dispersi d’Israel, risana chi ha il cuore spezzato e fascia le sue ferite. Perciò tutto Israel è tenuto a coltivare la propria lingua adoperandosi perché sia chiara e precisa, e a maggior ragione le ultime generazioni che sono vicine alla redenzione, affinché il nostro giusto Messia, possa Egli rivelarsi presto ai nostri giorni, intenda le nostre parole e noi intendiamo le sue.

2. Contro i saggi di questa generazione che scrivono in tutte le lingue tranne che nella lingua santa

Qualcuno potrebbe dire, come fanno alcuni stolti d’Israel: è mai possibile parlare in una lingua che da mille anni e più è stata sradicata dalla bocca? Perfino la maggior parte dei sapienti di questa generazione non ha la forza di misurarsi con essa: o commettono errori grossolani o scrivono in qualunque altra lingua, ma non nella lingua santa. Chi dice così non ha riflettuto sulla questione essenziale: nonostante sia caduta in disuso nel parlato, la lingua non è stata abbandonata nella scrittura, ed è a disposizione di chiunque la cerchi. In che modo? Basta leggere la Torà, studiare la Mishnà, approfondire la Ghemarà e subito si svelano tutti i tesori della lingua santa che il Santo, benedetto Egli sia, ha messo in serbo per coloro che ama. E in particolare di Shabbat, quando ci è concessa un’anima supplementare che conosce la lingua santa come la conoscono gli angeli.
Perché allora certi sapienti si esprimono male? Perché attribuiscono la massima importanza ai discorsi mondani e ritengono le parole di Torà un elemento accessorio. Se invece ponessero la Torà al primo posto essa verrebbe loro in soccorso. Quanto a
coloro che scrivono le proprie opere in ogni sorta di idiomi ma non nella lingua santa, perfino un goy che si esprima nella lingua santa è preferibile a loro, pur-ché non scriva sciocchezze. Sappi che così è, infatti il malvagio Balaam, che quanto a malvagità non ebbe rivali, consigliò agli uomini d’Israel di fornicare con le figlie di Moab, causando la morte di quindici miriadi e ottomilaseicento di loro. Ma come ricompensa per aver usato la lingua santa per cantare le lodi d’Israel, meritò che gli fosse intitolata una porzione settimanale della Torà e inoltre che ogni mattina tutto Israel cominci la preghiera con il versetto « Quanto sono belle le tue tende, Giacobbe, le tue dimore Israel» con il quale egli lodò il nostro popolo.
Qualcuno potrebbe ribattere che alcuni saggi del-l’antichità scrissero parte dei loro libri in arabo. Il caso di quegli antichi maestri però è diverso, perché i loro contemporanei erano stanchi dell’esilio, lontani dalla luce del Messia, e per questo essi scrissero loro lettere di consolazione nell’idioma d’uso comune, così come si calma un bambino parlandogli in una lingua a lui comprensibile. La lingua d’Ismaele inoltre è un caso particolare perché a lui fu data in pegno la terra d’Israel. E perché la terra d’Israel fu affidata a Ismaele? Perché ebbe il merito di toglierla di mano a Edom. Essa rimarrà in suo possesso fino a che tutti gli esuli si riuniranno, allora la restituirà loro.

2. Il segreto di come si scrivono le storie

Per amore della nostra lingua e per l’affetto verso ciò che è santo mi consumo nello studio della Torà, mi struggo per le parole dei saggi e le custodisco dentro di me affinché siano pronte sulle mie labbra.
Se il Tempio esistesse ancora prenderei posto sul palco con i miei fratelli cantori per intonare ogni giorno il canto che solevano intonarvi i leviti. Ma poiché il Tempio è tuttora in rovina e non abbiamo sacerdoti impegnati nel servizio divino né leviti che inneggino, mi dedico alla Torà, ai Profeti, agli Agiografi, alla Mishnà, ai testi prescrittivi e morali, ai commenti, alle sottili interpretazioni e alle norme stabilite dai saggi. Quando rifletto sulle loro parole e vedo che di tutte le delizie da noi possedute nei tempi antichi ci resta soltanto il ricordo, mi colmo di tristezza. La tristezza mi fa fremere il cuore e spinto da quel fremito scrivo storie, come un uomo che allontanatosi esule dal palazzo di suo padre si edifica una piccola capanna dove siede e racconta le meraviglie della sua dimora avita.

3. Tutto ciò che accadde all’autore per colpa di un grammatico e tutta la pena, le sofferenze e la fatica che ne derivarono

Poiché ho menzionato la capanna, dirò qualcosa a questo proposito. Una volta mi capitò di scrivere un racconto sulla capanna della festa, e per esprimermi in modo semplice e comprensibile a tutti scrissi: la capanna odora. Mi si scatenò contro un grammatico e con la sua penna tagliente obiettò che non si dice «la capanna odora», infatti non è la capanna che odora, ma è l’uomo che odora il profumo della capanna. Ne fui profondamente afflitto poiché pensavo di essermi allontanato dal corretto uso della lingua e di averne guastata la bellezza. Mi misi a scartabellare i manuali di sintassi ma non trovai conferma alla mia opinione. Infatti la maggior parte dei manuali o ti insegna quello che già sai o non ti insegna nulla. Visitai i sapienti della nostra generazione, ma non seppero rispondermi. I sapienti conoscono tutto tranne quell’unica cosa che stai cercando. Alla fine mi imbattei in un erudito di Gerusalemme che portò a sostegno della mia tesi una prova dal libro “Lo scritto perfetto “dell’antico maestro Rabbi Moshe Taku, sia il suo ricordo in benedizione. Mi sentii un po’ più tranquillo, ma non abbastanza. Ero ancora in cerca di un’ulteriore conferma. Quando capitavo in compagnia di cultori della lingua santa domandavo loro: avete forse udito se è permesso scrivere «la capanna odora»? Alcuni sostenevano che fosse permesso, altri che fosse proibito. Gli uni e gli altri non offrivano alcuna motivazione, ma lo dicevano in modo vago, come un uomo che stende il pollice verso un altro e dice: così la penso io, o come un uomo che si lecca le labbra e dichiara: questa è la mia impressione. Alla luce di ciò ero sul punto di cancellare le due parole contestate dal grammatico. Quando mi accinsi a farlo la capanna mi si presentò davanti e il suo profumo salì a me, finché mi persuasi che veramente essa odora, così lasciai tutto com’era.

5. I giusti del giardino di Eden vengono in aiuto all’autore

Una volta venne da me un uomo per chiedermi un favore. Parlando con lui scoprii che era un di-scendente di Rabbi Yaakov di Lissa. Subito mi liberai da tutte le mie occupazioni, gli resi il dovuto onore e mi diedi un gran da fare: gli offrii una torta al miele e un bicchiere di acquavite e esaudii la sua richiesta con gioia in onore di suo nonno, quel som-
mo maestro di cui studiamo la dottrina e sul cui siddur preghiamo. Dopo che l’ebbi accompagnato alla porta mi si presentò uno studioso con un libro sotto il braccio. Che cos’hai in mano, gli domandai, il siddur del Maestro di Lissa? Sorrise e rispose: a volte l’eccessiva acutezza d’ingegno fa scordare una pre-scrizione elementare e bisogna consultare il libro. Replicai che tra i pregi del vero maestro questo era particolarmente grande: dopo aver scritto nuove in-terpretazioni e commenti con acume e competenza, egli si prese la briga di ordinare in breve le norme relative alla preghiera e altre questioni teoriche e pratiche utili a tutti, in modo che ciascuno trovi la regola e la sua fonte insieme alla formula della pre-ghiera. I nostri santi maestri ci hanno lasciato in eredità numerosi libri di preghiera, sia semplici sia arcani, compilati con precisione e saggezza, arricchiti da formule di intenzione, commenti, combinazioni mistiche, segreti e allegorie per risvegliare il cuore degli oranti quando giungono al palazzo del Re. Ma se il rispetto per gli antichi non mi trattenesse, direi che il siddur del Maestro di Lissa è il migliore di tutti, perché la gran parte dei libri di preghiera emana troppa luce per il vasto pubblico, mentre questo è adatto a ogni occhio.
Mentre parlavo il mio cuore si entusiasmò, così cominciai a raccontare aneddoti di quel maestro i cui insegnamenti si diffusero in tutta la diaspora d’Israel. Riferii poi di ciò che avevo udito da uomini degni di fede o avevo trovato nei libri in merito alle sue eccelse qualità morali.
Alla fine ci separammo. Lui con il suo libro di preghiere in mano e io con i miei pensieri nel cuore. Tornato a casa, mi distesi sul letto e sprofondai in un dolce sonno. L’aver fatto un favore a un mio prossimo e l’essermi coricato dopo una conversazione sui giusti resero gradevole il mio riposo.
Sentii che qualcuno cercava di svegliarmi. Mi im-pigrii e non mi alzai. Il tentativo fu ripetuto. Mi girai dall’altra parte. Alla terza volta mi destai e vidi un vecchio in piedi davanti a me, con il libro di preghiere La via della vita aperto in mano. I suoi occhi brilla-vano e il suo viso risplendeva di una grande luce. Anche se non avevo mai visto un ritratto di Rabbi Yaakov di Lissa, lo riconobbi subito. Non assomigliava a nessuno dei membri della sua famiglia, infatti i grandi d’Israel non assomigliano ai loro parenti: è la dottrina a conferire loro lo splendore del volto, poiché il Santo, benedetto Egli sia, dona splendore e luce al volto di chi si consuma nello studio della Torà.
Mentre ero intento a guardare il libro si chiuse, il vecchio scomparve e seppi che si trattava di un sogno. Benché avessi compreso che era stato un sogno mi dissi: ci deve essere un motivo. Mi lavai le mani, scesi dal letto, andai alla libreria ed estrassi La via della vita. Vi trovai un pezzo di carta posto a guisa di segno. Lessi quanto segue: «e usano in abbondanza certi fiori che odorano, rallegrando il giorno festivo ». A quanto pare una volta avevo letto quella pagina e vi avevo lasciato un pezzo di carta come segno.
Pensai in cuor mio, questa espressione non l’ha inventata lui, certo proviene dai testi sacri. A ogni buon conto presi il libro di preghiere Le colonne del cielo di suo zio, il Maestro Yaakov ben Yizhak, sia il suo ricordo in benedizione, e anche là ritrovai la medesima frase. Mi rallegrai di non essere caduto in errore e di non avere guastato la nostra santa lingua, infatti se due pilastri del mondo scrivono così, significa che così deve essere scritto, e il grammatico che aveva sproloquiato contro di me ne avrebbe dato conto.


6. Recitazione dei Salmi: Rashi, sia il suo ricordo in benedizione, spiega all’autore un versetto dei Salmi e ne allieta lo spirito

Avrei potuto tornare a dormire ma la notte volgeva al termine, e non era ancora giunto il tempo stabilito per recitare la preghiera del mattino. Allora presi il Libro dei Salmi. La recitazione dei salmi si addice a ogni momento, e in particolare alle ore del mattino, quando l’animo è ancora puro e le labbra non si sono insudiciate con maldicenze. Mi sedetti e lessi alcuni salmi: ciò che capivo capivo e ciò che mi era oscuro me lo spiegava Rashi, sia il suo ricordo in benedizione, fino a che terminai tutto il primo libro. Ma la mia anima ne voleva ancora. Cedetti al desiderio e lessi un altro salmo e poi un altro ancora, finché non giunsi al salmo «Al direttore del coro, su gigli», un canto di lode che si suole recitare in onore degli studiosi, i quali sono delicati e graziosi come gigli, per accrescere il loro amore verso la Torà.
Bella fu quell’ora di lettura dei salmi. La lampada era accesa sul tavolo e con la sua luce incoronava ogni parola e ogni lettera, ogni vocale e ogni accento. Di fronte ad essa vi era una finestra aperta verso il Sud, e fuori spiravano le brezze del primo mattino. Le brezze non spegnevano il lume, non ne facevano oscillare la fiamma, ma danzavano insieme agli alberi e ai cespugli del giardino da cui si diffondeva un aroma di alloro e rugiada, di miele selvatico e olio fragrante.
La luce della lampada cominciò a impallidire. A quanto pare la notte era finita. Forse in quell’ora il Santo, benedetto Egli sia, aveva già appeso il sole nel firmamento per fare luce alle persone semplici che non sono esperte del rituale mattutino e pregano leggendo dal libro.
Dall’alto di un albero si udì un suono, la voce di un uccello che intonava un canto. Una voce simile ha il potere di distogliere l’uomo dal suo studio. Tuttavia non deposi il libro per ascoltare il canto dell’uccello, anche se era dolce all’orecchio e gradito al cuore. Mi dissi, è mai possibile che interrompa la lettura dei salmi per ascoltare la conversazione dei volatili?
In quel mentre si udì un’altra voce, più soave della prima. Un uccello era stato preso da invidia per il suo compagno e voleva vincerlo nel canto. O forse non era invidioso e nemmeno si era accorto del compa-gno, ma spontaneamente si era messo a cantare di-nanzi al proprio Creatore, e la sua voce era più ama-bile di quella del primo. Alla fine fecero la pace: cia-scuno accompagnò la melodia dell’altro e intonarono gorgheggi nuovi che nessun orecchio aveva mai udito. Una simile musica e simili voci hanno il potere di distogliere dallo studio qualsiasi uomo. Ma io feci finta di non udire. E non vi è qui motivo di meravi-glia e di lode, infatti come un’arpa a molte corde il salmo suonava un canto d’amore, un canto di fronte al quale tutti gli altri si annullano, e io gli rispondevo parola per parola, melodiosamente.
«Nel mio cuore freme una parola buona ... la mia lingua è la penna di uno scriba veloce ... cavalca si-curo per difendere verità, umiltà e giustizia, e la tua destra t’insegni azioni formidabili». Ciò che capivo capivo e ciò che mi era oscuro me lo spiegava Rashi, sia il suo ricordo in benedizione. Quando giunsi al versetto «mirra e aloe [e cassia] sono tutte le tue vesti» e non ne capii il significato, consultai il commento di Rashi, sia il suo ricordo in benedizione e vi lessi: « tutte le tue vesti » - tutti i tuoi vestiti odorano come spezie fragranti, e, secondo l’interpretazione
dei maestri, tutti i tuoi tradimenti e le tue colpe sono espiati e odorano di un gradevole profumo. In quel momento mi si presentò dinanzi la capanna in tutta la sua fragranza. Subito mi sentii appagato come un uomo che odora fiori che odorano.

7. Così come avevo cominciato con una lode concludo con una lode

Vedi quanto è grande la lingua santa: per una sola parola un giusto così eccelso si prese il disturbo di lasciare l’Accademia celeste, il Giardino di Eden per mostrarmi il suo libro, e il concatenarsi degli eventi fece sì che mi alzassi di notte a recitare i salmi e tro-vassi ciò per cui avevo a lungo faticato. (S.Y Agnon, La leggenda dello scriba e altri racconti, Milano, 2009, Adelphi, 123-132)


Ad maiora

Edited by Polymetis - 8/2/2012, 19:24
 
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