Studi sul Cristianesimo Primitivo

Sui limiti dell’apprendimento dell’ebraico moderno in vista di quello biblico.

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Polymetis
view post Posted on 22/2/2014, 13:25 by: Polymetis     +1   -1
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Stavo leggendo un pamphlet di Shlomo Sand, storico israeliano professore a Tel Aviv e a Parigi, e vi ho trovato questa disincantata pagina sulle discontinuità e le differenze tra l'ebraico antico e l'israeliano parlato oggi. M'è tornata in mente questa discussione, e dunque ve ne rendo partecipi:

"Si calcola che prima della Seconda guerra mondiale oltre dieci milioni di persone parlassero uno dei dialetti yiddish. In questo primo scorcio di ven-tunesimo secolo si sono ridotti a qualche centinaio di migliaia, quasi tutti charedim («Timorati di Dio», cioè ortodossi di stretta osservanza). Si può insomma parlare della scomparsa di un’intera cultura popolare. La cultura yiddish è stata annientata, ed è una pia illusione pensare di poterla richiamare in vita, perché è impossibile resuscitare una lingua e una cultura. Il sionismo si è illuso di aver riportato in auge l’ebraico antico e la cultura del «popolo della Bibbia», ma si è trattato più che altro di una mitica ricerca di radici nazionali e di una leggenda inculcata a generazioni di israeliani e sionisti in tutto il mondo.
Molti dei primi teorici dell’idea sionista erano uomini di cultura tedesca, ma la colonizzazione della Palestina è avvenuta soprattutto per mano di pionieri di cultura yiddish giunti dall’Europa dell’Est: la loro lingua madre era il «dialetto marginale» tanto vilipeso dagli israeliti tedeschi, ebrei askenaziti. I coloni che parlavano yiddish non tardarono a mettere da parte la loro tanto disprezzata lingua madre. Innanzitutto occorreva una lingua comune, capace di federare gli ebrei di tutto il mondo, e si dà il caso che né Theodor Herzl né Edmond de Rothschild parlassero una parola di yiddish. In secondo luogo, i primi sionisti aspiravano a forgiare un ebreo di tipo nuovo, totalmente emancipato dall’universo popolare della cultura dei loro genitori e dei loro avi, e quindi immemore dei miserabili villaggi in cui quegli antenati erano vissuti.
Sulla base dei pionieristici esperimenti di alcuni eruditi russi che avevano cercato di modernizzare il testo della Bibbia e delle preghiere, alcuni linguisti di area sionista tentarono di dare vita a una nuova lingua. Il nucleo principale del suo lessico era desunto dai libri della Bibbia, ma si scriveva con caratteri aramaici e assiri (cioè ispirati alla tradizione della Mishnah) di origine non ebraica. La sintassi era fortemente influenzata dallo yiddish e dalle lingue slave e aveva poco a che spartire con la grammatica dell’ebraico biblico. Questa lingua è oggi impropriamente detta «ebraico» (in mancanza di una terminologia migliore dovrò chiamarla così anch’io), ma secondo alcuni linguisti controcorrente, sarebbe più corretto parlare di «israeliano».
La nuova lingua ha preso piede molto prima della fondazione ufficiale dello Stato di Israele, tanto da affermarsi nel giro di breve tempo come la lingua d’uso quotidiano della comunità sionista trapiantata in Palestina. I figli dei pionieri, da cui sarebbe emersa l’élite culturale, militare e politica di Israele nei suoi primi anni di esistenza come stato, crebbero parlando e scrivendo in quella lingua. " (Slomo Sand, Come ho smesso di essere ebreo, Milano, 2013, Rizzoli, pp. 66-67)
 
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