Studi sul Cristianesimo Primitivo

Esaltazione senza preesistenza: la cristologia originaria

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JohannesWeiss
view post Posted on 23/3/2016, 09:00     +1   -1




CITAZIONE (Sant'Atanasio @ 23/3/2016, 08:48) 
Non mi risulta di aver distorto il pensiero di Bauckam (l'ho quotato direttamente, specie in risposta al fatto che, secondo te, Bauckam non vedesse la piena appartenenza di Gesù all'identità di Dio nella cristologia dell'esaltazione cosa che, riprendendo il suo pensiero, si è rivela inesatta).

Ad ogni modo aspetto gli argomenti, grazie. :)

E io non stavo dicendo che avevi distorto Bauckham...ufff... avrei da ridire sul resto, ma - diamine - non voglio discutere di Bauckham!

CITAZIONE
Guarda che io non no mai negato il fatto che, secondo gli storici, sono presenti diverse cristologie nel NT, e nemmeno ho scritto che la Traditio vada invocata per pre-determinare certe questioni, pertanto qua sono io ad aver l'impressione che ciò che ho scritto sia stato distorto e strumentalizzato.

Io ho fatto un'altra domanda: se i diretti successori di Paolo e degli apostoli hanno travisato completamente la loro dottrina, come possiamo pensare noi, dopo 2000 anni, di capire qualcosa di più del pensiero paolino se nemmeno i discepoli della "scuola paolina" lo hanno capito?

Ma aldilà di questo, il riferimento alla Traditio non era inerente il fatto che essa dovrebbe avere la preminenza sull'esegesi odierna, ma era inerente ai paradossi che genera il farne totalmente a meno, prescindendo quindi dall'interpretazione cne veniva data a quei testi a pochissimi anni dalla loro stesura.

La mia forma mentis sarà sicuramente sbagliata, ma pensare che i diretti discepoli degli apostoli abbiano interpretato il pensiero apostolico in modo sbagliato -tutti o quasi- mi sembra abbastanza improbabile storicamente.

Hai ironizzato inequivocabilmente su chi trova "venti cristologie confliggenti" bla bla bla... Quindi non girarci intorno.
E i ragionamenti sulla Traditio, sui paradossi che ne deriverebbero se ce ne sbarazziamo, su come possiamo noi pretendere di capire Paolo meglio delle deuteropaoline o degli apostoli o del magistero infallibile della Chiesa, sono tutte considerazioni INFALLIBILMENTE OFF-TOPIC (e direi anche off-forum). Per cui insisto: meglio cambiare registro.
 
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Sant'Atanasio
view post Posted on 23/3/2016, 10:10     +1   -1




CITAZIONE (JohannesWeiss @ 17/3/2016, 07:29) 
Certo che è minoritaria (se ‘ampiamente’ o no, bisognerebbe verificarlo con uno spoglio della letteratura in merito),

Fui io a dire che la lettura dell'inno di Filippesi che hai proposto in questo topic portando citazioni di diversi autori è ampiamente minoritaria, ma se non ti fidi di me spero che ti fiderai di Hurtado, che qua https://books.google.it/books?id=k32wZRMxl...ajority&f=false scrive, con la massima chiarezza "Though scholarly majorities can sometimes be wrong, we should note that the overwhelming majority of scholars in the field agree that there are at least a few passages in Paul's undisputed letters that reflect and presuppose the idea of Jesus' preexistence. Philippians 2:6-11 is usually considered the most explicit attestation."

Dopodiché Hurtado passa ad esaminare gli altri passi riferenti alla preesistenza nonché gli argomenti dei minoritari sostenitori della tua tesi. Per Hurtado la maggioranza che sostiene che Paolo avesse ben chiara la cristologia della preesistenza è addirittura SCHIACCIANTE, quando io mi ero limitato a definire la tua tesi "ampiamente minoritaria".

Credo che quel link sia pienamente in topic, visto che qui si parla della preesistenza di Cristo secondo Paolo e gli altri discepoli di Gesù.

CITAZIONE (JohannesWeiss @ 23/3/2016, 07:36) 
tale versetto non ha nessuna rilevanza per stabilire se in Paolo vi sia o meno una cristologia della preesistenza (il che, per la millesima volta, non equivale in nessun modo alla questione se agli occhi di Paolo Gesù fosse "divino" in un senso o in un altro)

Come ho già detto mi sta benissimo, accantoniamo pure Rom 9,5, ma il fatto che per Paolo Gesù fosse preesistente non è affatto una cosa irrilevante. La preesistenza è la condizione necessaria anche se non sufficente (perché c'è chi dice -anche se pure qui si tratta di correnti molto minoritarie- che fosse un angelo) per dire che Paolo considerasse Cristo Dio in senso pieno, tolta quella tolto tutto, e lo stato pienamente e definitivamente creaturale di Gesù, nella primigenia visione apostolica, sarebbe acclarato.

Mi spiego: una volta assunto il fatto che Paolo e i primi apostoli ritenessero Gesù preesistente, rimarrebbe comunque da argomentare sul fatto se Lo considerassero Dio nel senso più pieno del termine o solo un angelo. La questione quindi non è risolta dalla sola cristologia della preesistenza, ma va innanzitutto chiarito se per i discepoli Gesù appartenesse pienamente all'identità di Dio creatore e fosse coeterno al Padre oppure no (e in questo Hurtado e Bauckam fanno un lavoro eccellente), ma è chiaro che se assumiamo che gli apostoli non avessero elaborato alcuna cristologia della preesistenza andrebbe tutto a ramengo, perché taglierebbe il tutto alla radice.


Tuttavia ritengo che il fatto che la schiacciante maggioranza degli storici e degli esegeti affermi che quel passo sia sicuramente riferente alla preesistenza di Cristo sia molto importante e significativo.

Questo ci fa capire che, qualora la schiacciante maggioranza degli esegeti non stia prendendo un granchio colossale, dal momento che l'inno di Filippesi risale agli anni '40 in forma scritta dovremmo retrodatare la coscienza dei discepoli di Cristo della Sua preesistenza come minimo a fine anni '30.

Edited by Sant'Atanasio - 23/3/2016, 11:14
 
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JohannesWeiss
view post Posted on 23/3/2016, 13:54     +1   +1   -1




CITAZIONE (Sant'Atanasio @ 23/3/2016, 10:10) 
Fui io a dire che la lettura dell'inno di Filippesi che hai proposto in questo topic portando citazioni di diversi autori è ampiamente minoritaria, ma se non ti fidi di me spero che ti fiderai di Hurtado, che qua https://books.google.it/books?id=k32wZRMxl...ajority&f=false scrive, con la massima chiarezza "Though scholarly majorities can sometimes be wrong, we should note that the overwhelming majority of scholars in the field agree that there are at least a few passages in Paul's undisputed letters that reflect and presuppose the idea of Jesus' preexistence. Philippians 2:6-11 is usually considered the most explicit attestation."
Dopodiché Hurtado passa ad esaminare gli altri passi riferenti alla preesistenza nonché gli argomenti dei minoritari sostenitori della tua tesi. Per Hurtado la maggioranza che sostiene che Paolo avesse ben chiara la cristologia della preesistenza è addirittura SCHIACCIANTE, quando io mi ero limitato a definire la tua tesi "ampiamente minoritaria".
Credo che quel link sia pienamente in topic, visto che qui si parla della preesistenza di Cristo secondo Paolo e gli altri discepoli di Gesù.

1. Ti rendi conto che è irritante (e anche un pochino inquietante) che tu vada a fare le pulci ad un mio avverbio ("ampiamente") in una frase scritta tra parentesi, in cui affermo semplicemente che bisognerebbe verificare con uno spoglio (tipo quello che ho fatto poi per Rm 9,5) quanto esattamente la lettura adamica di Fil 2,6-11 sia minoritaria, il tutto scritto non so quanti post indietro, comunque sei giorni fa? Cioè, ci rendiamo conto??? :555.gif:

2. In ogni caso, per la milionesima volta, fraintendi. Pare proprio che tu non riesca in alcun modo a leggere in modo appropriato una qualunque frase.
In quel post io stavo dicendo che la lettura adamica di Fil 2,6-11, sostenuta da Dunn, è certamente minoritaria, ma bisognerebbe verificare in dettaglio quanto. E tu riprendi quella frase mettendola in relazione a un'affermazione di Hurtado, in cui dice che ad essere "schiacciante" è la maggioranza degli studiosi che ritiene che ci sia almeno qualche passaggio paolino che riflette e presuppone l'idea della preesistenza di Gesù - di cui Fil 2,6-11 è considerato di solito il più esplicito.
Riesci a comprendere che le due cose non sono affatto identiche? E che uno può sostenere la lettura adamica del pre-paolino Fil 2,6-11 e tuttavia ritenere che altrove in Paolo ci sia la preesistenza (che so: 1 Cor 8,6)? [così Barrett] Oppure, al contrario, che il pre-paolino Fil 2,6-11 esprima l'idea preesistenza, ma che essa non appaia in nessun altro passo di Paolo? [così Kuschel].

In ogni caso, te lo confermo volentieri io stesso. La tesi "cristologia della preesistenza assente in Paolo" (non necex in Fil 2,6-11!!!) è overwhelmingly minoritaria. Tra gli studiosi che ho presente, è sostenuta di sicuro da Dunn, Kuschel e Murphy O'Connor... e anche Raymond Brown e Morna Hooker hanno, se non negato del tutto, di sicuro ridimensionato tale aspetto... e in effetti credo che il numero salirebbe (pur restando presumibilmente un'opinione minoritaria) se, anziché dire "assente", adottassimo formulazioni più sfumate tipo "vi sono qua e là degli accenni, ma nel complesso si tratta di un'idea marginale nel quadro del pensiero paolino".

CITAZIONE
Come ho già detto mi sta benissimo, accantoniamo pure Rom 9,5, ma il fatto che per Paolo Gesù fosse preesistente non è affatto una cosa irrilevante. La preesistenza è la condizione necessaria anche se non sufficente (perché c'è chi dice -anche se pure qui si tratta di correnti molto minoritarie- che fosse un angelo) per dire che Paolo considerasse Cristo Dio in senso pieno, tolta quella tolto tutto, e lo stato pienamente e definitivamente creaturale di Gesù, nella primigenia visione apostolica, sarebbe acclarato.
Mi spiego: una volta assunto il fatto che Paolo e i primi apostoli ritenessero Gesù preesistente, rimarrebbe comunque da argomentare sul fatto se Lo considerassero Dio nel senso più pieno del termine o solo un angelo. La questione quindi non è risolta dalla sola cristologia della preesistenza, ma va innanzitutto chiarito se per i discepoli Gesù appartenesse pienamente all'identità di Dio creatore e fosse coeterno al Padre oppure no (e in questo Hurtado e Bauckam fanno un lavoro eccellente), ma è chiaro che se assumiamo che gli apostoli non avessero elaborato alcuna cristologia della preesistenza andrebbe tutto a ramengo, perché taglierebbe il tutto alla radice.

Tale questione (se e in che senso gli apostoli considerino Gesù Dio o comunque partecipe dell'identità di Dio) e' OFF-TOPIC.
L'ho spiegato mille volte. Qui interessa distinguere e valutare i rapporti tra le varie cristologie. Punto.
Smettila di cercare di deviare il thread sull'argomento che ti preme. Hai già aperto un'altra discussione, parlane là.
Se non sei in grado di distinguere le due questioni, ti invito a smettere di scrivere in questo thread.

Edited by JohannesWeiss - 26/3/2016, 01:16
 
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Sant'Atanasio
view post Posted on 23/3/2016, 14:39     +1   -1




CITAZIONE (JohannesWeiss @ 23/3/2016, 13:54) 
1. Ti rendi conto che è irritante (e anche un pochino inquietante) che tu vada a fare le pulci ad un mio avverbio ("ampiamente") in una frase scritta tra parentesi, in cui affermo semplicemente che bisognerebbe verificare con uno spoglio (tipo quello che ho fatto poi per Rm 9,5) quanto esattamente la lettura adamica di Fil 2,6-11 sia minoritaria, il tutto scritto non so quanti post indietro, comunque sei giorni fa? Cioè, ci rendiamo conto??? :555.gif:

Addirittura inquietante? :D
Mi ha strappato un sorriso (non lo dico con ironia, ma in senso simpatico) questo tuo post, ed è il motivo del più 1.

CITAZIONE (JohannesWeiss @ 23/3/2016, 13:54) 
2. In ogni caso, per la milionesima volta, fraintendi. Pare proprio che tu non riesca in alcun modo a leggere in modo appropriato una qualunque frase.
In quel post io stavo dicendo che la lettura adamica di Fil 2,6-11, sostenuta da Dunn, è certamente minoritaria, ma bisognerebbe verificare in dettaglio quanto. E tu riprendi quella frase mettendola in relazione a un'affermazione di Hurtado, in cui dice che ad essere "schiacciante" è la maggioranza degli studiosi che ritiene che ci sia almeno qualche passaggio paolino che riflette e presuppone l'idea della preesistenza di Gesù - di cui Fil 2,6-11 è considerato di solito il più esplicito.
Riesci a comprendere che le due cose non sono affatto identiche? E che uno può sostenere la lettura adamica del pre-paolino Fil 2,6-11 e tuttavia ritenere che altrove in Paolo ci sia la preesistenza (che so: 1 Cor 8,6)? [così Barrett] Oppure, al contrario, che il pre-paolino Fil 2,6-11 esprima l'idea preesistenza, ma che essa non appaia in nessun altro passo di Paolo? [così Kuschel].

A dire il vero Hurtado scrive anche, come del resto hai correttamente riportato anche tu in questo tuo ultimo post che, appunto, " Philippians 2:6-11 is usually considered the most explicit attestation".

Da questo si evince due cose:

1) il fatto che la schiacciante maggioranza degli accademici ritenga che in Paolo esista una cristologia della preesistenza non significa sostenere che la schiacciante maggioranza adotti anche la lettura mia, di Bauckam e di Hurtado relativa all'inno di Filippesi.
2) in ragione del punto 1, quindi, direi che se non possiamo affermare che nello specifico la stragrande maggìoranza sostenga l'intepretazione della cristologia della preesistenza su Paolo per quanto riguarda l'inno di Filippesi, possiamo altresì dire che quello "usually" "Philippians 2:6-11 is usually considered the most explicit attestation" ci da modo di affermare che comunque la maggioranza degli esegeti considera quel passo come relativo alla preesistenza di Gesù prima dell'incarnazione, del resto questo lo ha ribadito anche Bauckam.

CITAZIONE (JohannesWeiss @ 23/3/2016, 13:54) 
In ogni caso, te lo confermo volentieri io stesso. La tesi "cristologia della preesistenza assente in Paolo" (non necex in Fil 2,6-11!!!) è overwhelmingly minoritaria. Tra gli studiosi che ho presente, è sostenuta di sicuro da Dunn e da Kuschel... e forse inclinano verso tale parere anche Morna Hooker e Raymond Brown (almeno in un certo periodo)... mentre il numero sicuramente salirebbe un po' - restando comunque minoritario - se modificassimo "assente" in "appena accennata" o "marginale".

Si, ma su questo siamo d'accordo, non intendevo negare l'esistenza dei pochi studiosi che adottavano questa chiave di lettura. Semmai sarebbe interessante sapere perché questa chiave di lettura pare ti abbia conquistato, ma di questo ne parlerai se vorrai, naturalmente. ;)
Io l'ho considerata ed esaminata e non mi convince, e come ti ho spiegato sul Vangelo di Giovanni (lo menzioni solo per farti un'analogia) non sono un fondamentalista che crede nell'inerranza biblica e che Gesù abbia detto nel Suo ministero prepasquale cose come "se non credete che Io sono morirete nei vostri peccati" o "io e il Padre siamo uno", perciò volevo solo chiarire che non sono quel fondamentalista di cui, forse, ho dato l'impressione.

Se una tesi è valida è valida a prescindere dal fatto che faccia comodo agli interessi confessionali oppure no.

Edited by Sant'Atanasio - 23/3/2016, 15:19
 
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askerella
view post Posted on 23/3/2016, 22:34     +1   +1   -1




Grazie Weiss. Bella spiegazione (quella relativa al mio post), come sempre.

Rispondo molto velocemente e poi per un pò vi seguo solo in lettura.

2 punti:
1) il linguaggio comune (cioè il mio) è per me chiarissimo e a prova di misunderstanding - mentre può risultare senza dubbio "confusionario" ad uno come te che usa e sa usare linguaggio specialistico. Quando me lo spieghi il fraintendimento e la confusione la vedo anch'io (ma faticherò comunque ad eliminarla dai miei discorsi). Vabbè, questo era giusto per chiarire i problemi che possono nascere tra specialisti e profani della materia.
2) mi hai fatto avvertire l'urgenza di andare a cercare la definizione di "cristologia" , bel tema anche quello...

Weiss: "Un conto è cantare inni a Cristo come a un Dio, invocarlo nel culto come Kyrios, battezzare nel suo nome e chi più ne ha più ne metta; un altro conto è cercare di capire le modalità con cui questo “status divino” viene concretamente concepito e rappresentato"

Weiss: " Quello che si vuole studiare in questo topic sono le forme in cui il “Cristo venerato” veniva concepito e rappresentato: come Messia e/o Figlio di Dio esaltato alla destra di Dio? Come il Figlio dell’uomo della visione di Daniele o di altri scritti apocalittici? Come l’angelo di YHWH? Come il nuovo Adamo? Come la Sapienza divina o il Logos preesistente?"

Proprio per questi motivi io nel post precedente avevo fatto un riferimento alla neurolinguistica (nota bene: NON come scienza delle patologie linguistiche neurologiche eh!!).
In pratica: la concezione, la rappresentazione, la visione non è facilmente rintracciabile quando fai riferimento alla sola (o prevalente) espressione linguistica-letteraria letta da filosofi/filologi/letterati/teologi/esegeti e compagnia bella. Perché praticamente vai ad applicare tout court (oltre che discipline fortemente settoriali) la tua radice simbolica/linguistica/filosofica/culturale ad espressioni di 2000 anni fa. Ora: è vero che si possono studiare tutte le concezioni/visioni/rappresentazioni dell'epoca e confrontarle (questo viene fatto però sempre e solo ad un livello letterario-filosofico-linguistico), ma secondo me l'analisi neurolinguistica fornirebbe molto aiuto. Solo che non credo che oggi sia considerata in questi vostri studi..... Potrebbe costituire un supporto in quanto scienza delle modalità di formazione ed espressione di un concetto che passa dall'immagine interiorizzata alla lingua parlata/scritta, si va proprio alla radice della formazione della lingua, radice che non è filosofica ma innanzitutto neuro - linguistica. Nel caso specifico di Paolo potrebbe essere (faccio solo un esempio) un elemento importante anche il fatto che non era di madrelingua greca, o mi sbaglio? Cioè, la domanda è: Paolo viene considerato dagli esperti un bilingue perfetto oppure un madrelingua aramaico/ebraico (in pratica già quello è bilinguismo ma in sistema semitico e non c'è problema) e un seconda lingua greco? Non è proprio ininfluente la questione. Motivo: andare troppo a fondo nelle etimologie e radici greche potrebbe non essere correttissimo per un soggetto non-madrelingua o non perfettamente bilingue.
(Tra parentesi, il lavoro che più si avvicina a questo tipo di analisi è nella storia la Tradizione cioè le interpretazioni che venivano date dai soggetti più vicini temporalmente, in quanto questi soggetti hanno appreso la lingua e i simboli/immagini soggiacenti in modo più similare del nostro, anche da un punto di vista psico-linguistico. Certo la Tradizione non deve essere l'unica via interpretativa, altrimenti ci fermiamo ai fossili... però neanche escludere che un fossile ci possa fornire fondamentali informazioni è posizione intelligente. Metaforicamente e sostanzialmente la Tradizione fa parte dell'ossatura "naturale" della cristologia. P.s. edit: intendo la tradizione cristiana, che oggi apprendiamo da diversi scritti, certo successivi a Paolo, e la intendo come uno, non certo l'unico, degli strumenti interpretativi)

Weiss: " Perché se è vero che le idee cristologiche esistono sulla terra e non nell’iperuranio, nondimeno anch’esse, come tutte le idee, hanno pur sempre un certo margine di sviluppo proprio: appaiono, vengono approfondite, s’incrociano con altre, vengono abbandonate e poi a un certo punto rinascono etc. "
Eh, ma questo rimanda di nuovo all'obiezione se non sia il caso di includere TUTTE le modalità (quindi anche, e non solo, cultuali) con cui un'idea "esiste sulla terra".
Non è il fatto di prediligere la storia del culto (A me l'esegesi pura piace tantissimo e troppissimo, mi ci perderei giorni e giorni). Ma se anche volessi escluderlo, il culto, ed attenerti allo scritto dovresti ad esempio spiegare (e quindi includere nella materia "cristologia") che cosa significhi per Paolo peccare/essere colpevoli contro Gesù Cristo. Che forse si era mai configurato prima (anche solo linguisticamente-letterariamente) un "peccato" contro Mosè o Elia...oppure contro Davide o Salomone... o contro Abramo.... o contro un Angelo... o contro la Sapienza? Magari sì e io sono ancora troppo ignorante. Esistevano, mi pare, dei peccati o colpe che consistevano nell'offendere oppure nel non dare ascolto ai vari messaggeri o profeti di Dio - in quanto mediatori/portavoce - ma NON esisteva un rendersi colpevoli "diretto". E questa, mi sembra, sarebbe pura analisi linguistica del testo..... (di Corinzi, dove parla della Cena del Signore).

"Il fatto che la storia sociale possa avere il primato sulla storia delle idee non credo che renda illegittimo occuparsi di quest’ultima."
Certo che no, anzi trattasi di lavoro prezioso. Ma se non chiarisci bene questa cosa...sembra che stai dicendo e affermando tutt'altro... e ti comprendono solo 2 gatti sul pianeta (cosa che io trovo davvero tristissima ma le soluzioni ci sono: spiegare più chiaramente quello che fa l'Accademia, inquadrare sempre l'oggetto di studio con un occhio al grande pubblico, il quale dovrebbe trarre vantaggio e non svantaggio dalla Scienza. Insomma sarebbe necessario, a mio parere, fare sempre presente dove va a parare uno studio, qualità e limiti dello stesso. D'altra parte credo che questo sia un dibattito annoso in diverse scienze...).

Comunque. A parte queste mie digressioni, grazie per i chiarimenti (ogni 2 righe che scrivi io necessiterei di googlare minimo una settimana e acquistare qualche libro... ma non lo posso fare, anche solo per questioni di tempo. Quindi è preziosissima l'opera di persone come te, Atanasio, Talità, Teodoro che ci fate sunti e ci "traducete" un pò di robe con cognizione di causa).
 
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JohannesWeiss
view post Posted on 24/3/2016, 02:39     +1   -1




CITAZIONE (askerella @ 23/3/2016, 22:34) 
1) il linguaggio comune (cioè il mio) è per me chiarissimo e a prova di misunderstanding - mentre può risultare senza dubbio "confusionario" ad uno come te che usa e sa usare linguaggio specialistico. Quando me lo spieghi il fraintendimento e la confusione la vedo anch'io (ma faticherò comunque ad eliminarla dai miei discorsi). Vabbè, questo era giusto per chiarire i problemi che possono nascere tra specialisti e profani della materia.

Ci tengo a precisare che quel "confusionario" si riferiva unicamente a quella particolare frase in cui venivano elencate allo stesso livello cose abbastanza diverse e per cui valgono considerazioni diverse (Antico Testamento, letteratura rabbinica, tradizione orale cristiana). Tutto qua. :)

CITAZIONE
Proprio per questi motivi io nel post precedente avevo fatto un riferimento alla neurolinguistica (nota bene: NON come scienza delle patologie linguistiche neurologiche eh!!).
In pratica: la concezione, la rappresentazione, la visione non è facilmente rintracciabile quando fai riferimento alla sola (o prevalente) espressione linguistica-letteraria letta da filosofi/filologi/letterati/teologi/esegeti e compagnia bella. Perché praticamente vai ad applicare tout court (oltre che discipline fortemente settoriali) la tua radice simbolica/linguistica/filosofica/culturale ad espressioni di 2000 anni fa. Ora: è vero che si possono studiare tutte le concezioni/visioni/rappresentazioni dell'epoca e confrontarle (questo viene fatto però sempre e solo ad un livello letterario-filosofico-linguistico), ma secondo me l'analisi neurolinguistica fornirebbe molto aiuto. Solo che non credo che oggi sia considerata in questi vostri studi..... Potrebbe costituire un supporto in quanto scienza delle modalità di formazione ed espressione di un concetto che passa dall'immagine interiorizzata alla lingua parlata/scritta, si va proprio alla radice della formazione della lingua, radice che non è filosofica ma innanzitutto neuro - linguistica.

Non saprei che dire. Temo di essere alquanto ἰδιώτης τῷ λόγῳ (2 Cor 11,6). Sembra una prospettiva interessante, anche se non so fino a che punto applicabile o comunque proficua in questo campo (magari molto... semplicemente non ne ho idea).
Comunque credo che l'applicazione delle scienze cognitive agli studi biblici abbia già iniziato a muovere i primi passi. Vedi ad es. qui: https://www.google.it/search?tbm=bks&hl=it...le+neurobiology - ma sono sicuro che esistono altri esempi.
 
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JohannesWeiss
view post Posted on 24/3/2016, 03:11     +1   -1




Ok. Si comincia... e si finisce. Ero indeciso se discutere un testo alla volta oppure mollarvi in blocco le osservazioni che ho buttato giù in questi giorni, e ho concluso che la soluzione più economica per me in termini di tempo sia quest'ultima (nelle prossime due settimane sono troppo indaffarato per impegnarmi a fondo in una discussione). Per cui vi chiedo scusa in anticipo per la sfilza di roba che troverete domani mattina. Leggete pure con calma (se non avete di meglio da fare), ed eventualmente risponderò alle obiezioni più avanti.


CRISTOLOGIA DELLA PREESISTENZA IN PAOLO?

Esame dei testi

1. 1 Cor 15,47

Il primo uomo, tratto dalla terra, è fatto di terra; il secondo uomo viene dal cielo.

ὁ πρῶτος ἄνθρωπος ἐκ γῆς χοϊκός, ὁ δεύτερος ἄνθρωπος ἐξ οὐρανοῦ

Per sorprendente che possa sembrare, questo versetto è senz’altro il primo da depennare dalla lista. Benché, a prima vista, possa sembrare un’affermazione palese della preesistenza celeste di Cristo, in realtà non è assolutamente così. In effetti tale comprensione rappresenta un fraintendimento piuttosto grossolano di quanto Paolo va dicendo. Per rendersene conto è sufficiente leggere il v. 47 nel suo contesto:

42 Così anche la risurrezione dei morti: è seminato nella corruzione, risorge nell'incorruttibilità; 43 è seminato nella miseria, risorge nella gloria; è seminato nella debolezza, risorge nella potenza; 44 è seminato corpo animale, risorge corpo spirituale. Se c'è un corpo animale, vi è anche un corpo spirituale. Sta scritto infatti che 45 il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l'ultimo Adamo divenne spirito datore di vita. 46 Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale. 47 Il primo uomo, tratto dalla terra, è fatto di terra; il secondo uomo viene dal cielo. 48 Come è l'uomo terreno, così sono quelli di terra; e come è l'uomo celeste, così anche i celesti. 49 E come eravamo simili all'uomo terreno, così saremo simili all'uomo celeste.

E’ evidente che Paolo sta dicendo che Cristo, quale “ultimo Adamo / secondo uomo”, è l’uomo “celeste” (ἐξ οὐρανοῦ) nel senso che con la sua risurrezione – che è il tema centrale del discorso – egli è divenuto celeste (ἐπουράνιος) ovvero “pneumatico” (πνευματικός ) [vedi anche l’idea antropologico-cosmica della nuova creazione inaugurata nel Cristo risorto (2 Cor 5,17; Gal 6,15)e sulla nuova vita secondo lo Spirito, e non più secondo la carne, in cui sono posti i credenti (Rm 8,1-13)].

Qui abbiamo un chiaro esempio di cristologia adamica corporativa: come il primo uomo, Adamo, è prototipo e rappresentante dell’umanità nella sua condizione terrestre misera e caduca, così il secondo uomo, Cristo, è prototipo e rappresentante della nuova umanità nella sua futura condizione celeste potente e gloriosa (cfr. l’altro grande passo adamico in Rm 5,12-21, le cui implicazioni corporative vengono alla luce subito dopo in 6,1-11 con il discorso sull’essere uniti e viventi in Cristo a partire dalla partecipazione, nel battesimo, alla sua morte e sepoltura).
L’argomento di Paolo in 1 Cor 15,42-49 fa leva precisamente sul fatto che la condizione celeste/spirituale viene dopo quella terrestre/animale; per cui non avrebbe alcun senso che, dopo aver insistito su tale successione, al v. 47 Paolo si mettesse a dire che il secondo uomo celeste (ὁ δεύτερος ἄνθρωπος ἐξ οὐρανοῦ) viene in realtà prima di quello terrestre, in quanto preesistente.

A questo riguardo è più che giustificato lo stupore di Dunn nella prefazione alla seconda edizione del suo Christology in the Making (London, SCM Press, 1989, xviii):
“This, I must confess, I find astonishing… if commentators can read such a clearly eschatological/resurrection text as a reference to Christ’s pre-existence it simply underlines the danger we run in this most sensitive of subjects of reading the text with the presuppositions of subsequently developed dogmas and of falling to let the context (in this case the context of the argument itself) determine our exegesis”.
Parole sante, che faremmo tutti bene a meditare con attenzione…

2. 2 Cor 8,9

Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà.

γινώσκετε γὰρ τὴν χάριν τοῦ κυρίου ἡμῶν Ἰησοῦ Χριστοῦ, ὅτι δι’ ὑμᾶς ἐπτώχευσεν πλούσιος ὤν, ἵνα ὑμεῖς τῇ ἐκείνου πτωχείᾳ πλουτήσητε

Anche questo è un proof-text assai poco convincente della dottrina della preesistenza. Chi è convinto di vederla qui, a mio avviso, la sta semplicemente importando da Fil 2,6-11, probabilmente anche alla luce di una certa affinità tra i due passi relativamente al motivo dello svuotamento/impoverimento di Cristo. Ma, a differenza di quello, il nostro testo non offre il minimo appiglio all’idea di una condizione pre-temporale di gloria. Come rimarca Kuschel, mettendo in guardia “da voli pindarici di natura cristologica”, “chi vuole lavorare con precisione sotto il profilo ermeneutico, non può semplicemente introdurre in un testo categorie estranee” (Generato prima di tutti i secoli, Brescia, Queriniana, 1996, p. 399).

Qual è dunque il significato di 2 Cor 8,9? Per intendere correttamente il versetto, è necessario anche in questo caso prestare attenzione al contesto:

… 6 cosicché abbiamo pregato Tito che, come l'aveva cominciata, così portasse a compimento fra voi quest'opera generosa (τὴν χάριν ταύτην) [la colletta per i poveri di Gerusalemme]. 7 E come abbondate (περισσεύετε) in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che proviene da noi e che è in voi (τῇ ἐξ ἡμῶν ἐν ὑμῖν ἀγάπῃ), così siate larghi anche in quest'opera generosa (ἐν ταύτῃ τῇ χάριτι περισσεύητε). 8 … 9 Conoscete infatti la grazia del Signore nostro (τὴν χάριν τοῦ κυρίου ἡμῶν) Gesù Cristo: da ricco che era (πλούσιος ὤν), si è fatto povero per voi (δι’ ὑμᾶς ἐπτώχευσεν), perché voi diventaste ricchi (πλουτήσητε) per mezzo della sua povertà (τῇ ἐκείνου πτωχείᾳ)…. 14… la vostra abbondanza (τὸ ὑμῶν περίσσευμα) supplisca alla loro indigenza (τὸ ἐκείνων ὑστέρημα), perché anche la loro abbondanza (τὸ ἐκείνων περίσσευμα) supplisca alla vostra indigenza (τὸ ὑμῶν ὑστέρημα)…

Il discorso è molto concreto: Paolo sta invitando i Corinzi a contribuire generosamente alla colletta per i poveri di Gerusalemme, e a tal scopo egli rimanda all’esempio di Cristo. Ma da che punto di vista? In che senso, cioè, Cristo era ricco e in che senso si è fatto povero?
Il contesto suggerisce che la ricchezza di cui Cristo godeva fosse del medesimo ordine di quella di cui ora beneficiano i Corinzi, ovvero: ricchezza di tipo spirituale, quale si esprime nella fede, nella parola, nella conoscenza, nello zelo e nella carità (v. 7); il che trova supporto anche in altri passi affini nella corrispondenza di 1-2 Cor, in riferimento sia ai Corinzi, sia alle chiese della Macedonia, sia a Paolo stesso:
- 1 Cor 1,4-5: “Rendo grazie continuamente al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio (ἐπὶ τῇ χάριτι τοῦ θεοῦ) che vi è stata data in Cristo Gesù, perché in lui siete stati arricchiti in ogni cosa (ἐν παντὶ ἐπλουτίσθητε ἐν αὐτῷ), d’ogni dono della parola e della conoscenza”;
- 2 Cor 9,11: “In ogni cosa sarete arricchiti per ogni generosità (ἐν παντὶ πλουτιζόμενοι εἰς πᾶσαν ἁπλότητα)”;
- 2 Cor 8,1: “Vogliamo rendervi nota, fratelli, la grazia di Dio (τὴν χάριν τοῦ θεοῦ) concessa alle chiese della Macedonia, perché… nella loro estrema povertà (ἡ κατὰ βάθους πτωχεία αὐτῶν) hanno sovrabbondato nella ricchezza della loro generosità (ἐπερίσσευσεν εἰς τὸ πλοῦτος τῆς ἁπλότητος αὐτῶν)”.
- 1 Cor 6,9-10: “viviamo [Paolo]… come poveri, ma capaci di arricchire molti” (ὡς πτωχοὶ πολλοὺς δὲ πλουτίζοντες).

In altre parole, quello che abbiamo in 2 Cor 8,9 – incentrata sull’idea di ricchezza e povertà – è una variante del motivo dello “scambio” che ricorre altrove in Paolo; cfr. 2 Cor 5,21: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio”; Gal 3,13: “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge, diventando lui stesso maledizione per noi, poiché sta scritto: Maledetto chi è appeso al legno”.
In questo caso, Cristo si è impoverito/svuotato della sua ricchezza spirituale affinché, tramite il suo essersi fatto povero, tale ricchezza passasse ai Corinzi.

Ma in che senso dunque si è svuotato di tale ricchezza, ovvero si è fatto povero?
Ci sono due possibilità, che tutto sommato non si escludono necessariamente.

Alla luce dei passi sopra citati, sembrerebbe che la πτωχεία abbracciata da Cristo sia di ordine materiale-economico: pur essendo ricolmo della ricchezza spirituale della sua comunione con Dio, Cristo ha voluto vivere una vita all’insegna della povertà. E al riguardo, a mio avviso, non si dovrebbe escludere categoricamente che Paolo stia facendo in parte leva su una conoscenza condivisa dello stile di vita che aveva caratterizzato il ministero storico di Gesù.

Dunn tuttavia osserva che quando Paolo parla della “grazia” o “grazia di Dio” in riferimento a quanto operato da Gesù, all’orizzonte c’è la sua morte e risurrezione (cfr. Rm 5,15.21; Gal 2,20-21); per cui è probabilmente più opportuno intendere la πτωχεία di Gesù come riferita principalmente alla croce, e quindi come una povertà “mista” di desolazione morale e di umiliazione sociale nel consegnarsi ad una simile morte.
E in tutto questo non è certo inappropriato scorgere anche una certa cristologia adamica, per cui la ricchezza spirituale di Cristo era quella propria del nuovo Adamo e il suo farsi povero nella morte di croce è lo svuotamento con cui il nuovo Adamo accetta di condividere il destino di morte frutto della disobbedienza del vecchio Adamo – e qui starebbe appunto il chiaro parallelismo con la dimensione adamica presente nell’inno di Filippesi, di cui dicevo all’inizio.

3. 1 Cor 10,4

… tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo.

καὶ πάντες τὸ αὐτὸ πνευματικὸν ἔπιον πόμα , ἔπινον γὰρ ἐκ πνευματικῆς ἀκολουθούσης πέτρας, ἡ πέτρα δὲ ἦν ὁ Χριστός

Anche questo versetto costituisce una base assai debole per attribuire a Paolo la credenza nella preesistenza di Cristo. Leggiamo anzitutto il passo nel suo contesto:

1 Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, 2 tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, 3 tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, 4 tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. 5 Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto. 6 Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono. 7 Non diventate idolatri come alcuni di loro... Non abbandoniamoci all'impurità… Non mettiamo alla prova il Signore… 10 Non mormorate… 11 Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. 12 Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere.

E’ evidente che Paolo qui sta facendo esegesi tipologica (lo dice lui stesso: Ταῦτα δὲ τύποι ἡμῶν ἐγενήθησαν) con un chiaro fine parenetico per scuotere i Corinzi dalle loro false sicurezze.
La lettura allegorica della roccia come Cristo è parte del tessuto complessivo di nessi tipologici tra la situazione presente dei Corinzi e quella passata del popolo d’Israele durante l’esodo: come i padri furono “battezzati” nel mare e nella nube, così i Corinzi sono stati battezzati in Cristo; come i padri hanno ricevuto cibo e bevanda spirituali, così i Corinzi nei banchetti eucaristici; come i padri avevano una roccia spirituale che li accompagnava sempre, così i Corinzi hanno la loro roccia spirituale in Cristo; come i padri sciuparono tutti questi doni e benefici spirituali abbandonandosi a comportamenti riprovevoli e venendo perciò distrutti per la maggior parte, così i Corinzi, che si sentono tanto sicuri, è meglio che guardino di non cadere…

E’ chiaro che l’affermazione secondo cui la roccia era Cristo non può essere intesa in senso letterale più di quanto si possa intendere l’attraversamento del mare come un battesimo! Data la chiara natura tipologica del passo, sarebbe esagerato voler intendere ricavare dal v. 4 l’idea della preesistenza di Cristo.

Secondo Dunn ci potrebbe essere qui una velata dimensione di cristologia della Sapienza (sul modo in cui essa viene intesa da Dunn, vedi sotto su Col 1,15-20), per cui la roccia prefigurerebbe tipologicamente Cristo in quanto Sapienza. Dunn propone questa lettura in quanto nella Sapienza di Salomone (4,11) l’episodio della roccia viene citato tra le opere compiute dalla Sapienza in soccorso di Israele, mentre l’identificazione roccia=Sapienza viene tracciata esplicitamente da Filone (Leg. All. 2,86: “La dura roccia è la Sapienza di Dio… dalla quale egli soddisfa le anime assetate che amano Dio”).
Personalmente, però, trovo ciò poco convincente, probabilmente perché in Paolo vedo meno cristologia della Sapienza di quanta ne trovi Dunn (ad es. 1 Cor 8,6, di cui parlerò dopo).
In ogni caso, anche volendo supporre che Paolo stia qui applicando a Cristo tale tradizione allegorica alessandrina sulla roccia/Sapienza (importata a Corinto da Apollo?), resta il fatto che in 1 Corinzi Cristo è “sapienza di Dio” precisamente in quanto crocifisso (1 Cor 1,23-24.30: “Cristo crocifisso, skandalon/pietra d'inciampo per i Giudei e stoltezza per i pagani, ma… potenza di Dio e sapienza di Dio”; “Cristo Gesù, il quale per noi è diventato sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione”) e non quindi come sapienza creatrice preesistente.

Ad ogni modo, che vi possa essere una velata dimensione sapienziale o meno, 1 Cor 10,4 non regge in ogni caso il peso dell’idea di preesistenza personale di Cristo. (del resto - buttandola un po’ nel superficiale – quanto più si vuole insistere sulla preesistenza reale a scapito della figura tipologica, tanto più “seriamente” si pone l’interrogativo se da ciò si debba dedurre che il Verbo si è fatto pietra prima di farsi carne…).

Edited by JohannesWeiss - 26/3/2016, 03:15
 
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JohannesWeiss
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4. Gal 4,4

4 Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo figlio, nato da donna, nato sotto la legge, 5 per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l'adozione a figli.

4 ὅτε δὲ ἦλθεν τὸ πλήρωμα τοῦ χρόνου, ἐξαπέστειλεν ὁ θεὸς τὸν υἱὸν αὐτοῦ, γενόμενον ἐκ γυναικός, γενόμενον ὑπὸ νόμον, 5 ἵνα τοὺς ὑπὸ νόμον ἐξαγοράσῃ, ἵνα τὴν υἱοθεσίαν ἀπολάβωμεν.

Qui, a prima vista, è senz’altro più comprensibile leggervi un riferimento all’incarnazione e alla preesistenza, data l’apparente affinità con le formule di invio giovannee (cfr. Gv 3,16-17; 1 Gv 4,9-10.14).
Ma è proprio togliendoci le lenti giovannee dagli occhi che possiamo sperare di fare un’esegesi corretta di Paolo. E se proviamo a levarcele, ci accorgiamo che il motivo dell’invio è tipico della tradizione profetica (cfr. Ger 1,7; 7,25; Ez 2,3; 3,5-6; Ag 1,12; Mal 3,1; cfr. Es 3,12-15), e come tale appare anche nei vangeli sinottici, dove Gesù parla del suo essere inviato da parte di Dio senza implicazione alcuna circa la propria preesistenza (cfr. Mt 15,24 “non sono stato mandato se non alle pecore perdute d’Israele”; Q 10,16 “chi disprezza me, disprezza colui che mi ha mandato”; Mc 9,37 “chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”; Lc 4,18 “…mi ha mandato a proclamare la liberazione…”).

Particolarmente rilevante per il nostro passo è il parallelo nella parabola dei vignaioli in Mc 12,2-5, dove Gesù allude a se stesso nella figura del “figlio diletto” il cui invio rappresenta il culmine della serie dei profeti (i servi) inviati e rifiutati (cfr. Q 11,49-51).
E così come il figlio diletto della parabola, pur essendo certamente speciale rispetto ai profeti che lo precedono, non è per questo un essere preesistente (e infatti non c’è praticamente nessuno che si avventuri ad affermare una cosa del genere), analogamente – una volta che ci siamo levati le nostre lenti giovannee – non vi è alcuna ragione particolare per ritenere che Paolo qui stia dicendo che Gesù è stato inviato da Dio a partire da una condizione di preesistenza.

Ciò non è affatto richiesto dal fatto che Gesù sia qualificato come “suo figlio” né dal fatto che l’invio del figlio abbia determinato l’adozione a figli dei credenti in Cristo, dal momento che: 1) la figliolanza di Dio è un dato escatologico, non protologico, come testimonia chiaramente la formula di Rm 1,3-4: “costituito figlio di Dio con potenza secondo lo spirito di santità mediante la risurrezione dei morti”; 2) e la figliolanza divina partecipata ai credenti è una realtà altrettanto escatologica, mediata dallo Spirito che i credenti hanno ricevuto e che abita in loro (Rm 8,9-11.15-16), e che è appunto lo Spirito che ha risuscitato Gesù dai morti (Rm 8,11).

E nemmeno bisogna lasciarsi trarre in inganno da quel “nato da donna”, perché tale espressione non implica affatto una nascita speciale, ma è semplicemente una locuzione semitica per denotare l’essere umano (cfr. Mt 11,11//Lc 7,28; Gb 14,1; 15,14; 25,4; 1QS 11,20-21; 1QH 13,14-15; 18,12-13; etc.)nella fragilità della sua condizione: “nascere da donna vuol dire semplicemente essere mortale, limitato, come tutti gli esseri umani” (A. Pitta, Lettera ai Galati, Bologna, EDB, 1996, 238. Pitta ritiene probabilmente esagerato voler rintracciare l’idea di preesistenza nel nostro passo, sebbene a suo avviso Paolo l’affermi altrove, cioè negli inni di Fil, Col, Ef).
Il senso della duplice precisazione “nato da donna, nato sotto la legge” è precisare le condizioni in virtù delle quali Gesù ha potuto riscattare rappresentativamente l’umanità dalla schiavitù della legge (per gli ebrei) e del peccato (per tutti): ossia la piena partecipazione di Gesù alla generale condizione umana decaduta e al particolare regime della Torah proprio del popolo ebraico.


5. Rm 8,3


3 Infatti ciò che era impossibile alla Legge, resa impotente a causa della carne, Dio lo ha reso possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e a motivo del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, 4 perché la giustizia della Legge fosse compiuta in noi, che camminiamo non secondo la carne ma secondo lo Spirito.

3 τὸ γὰρ ἀδύνατον τοῦ νόμου, ἐν ᾧ ἠσθένει διὰ τῆς σαρκός, ὁ θεὸς τὸν ἑαυτοῦ υἱὸν πέμψας ἐν ὁμοιώματι σαρκὸς ἁμαρτίας καὶ περὶ ἁμαρτίας κατέκρινε τὴν ἁμαρτίαν ἐν τῇ σαρκί, 4 ἵνα τὸ δικαίωμα τοῦ νόμου πληρωθῇ ἐν ἡμῖν τοῖς μὴ κατὰ σάρκα περιπατοῦσιν ἀλλὰ κατὰ πνεῦμα


Anche qui vale sostanzialmente quanto detto sopra sul motivo dell’invio (e le sue non-implicazioni circa la preeesistenza), ed è pertanto inutile che io stia qui a ruminare riflessioni mie sulle particolarità di questo passo, in particolar modo il significato della frase ἐν ὁμοιώματι σαρκὸς ἁμαρτίας.
Faccio prima a cedere direttamente la parola a Dunn:
“it denotes… flesh not sinful in itself, but flesh in its weakness and corruptibility, vulnerable to and in the event dominated by the enslaved by human desire, on the way to death. The phrase as a whole seems to be designed to stress closeness of identity with the human condition, which the power of sin so ruthlessly exploits and which ends in death, without implying that Jesus himself actually succumbed to that power. The theological logic is obviously that God could only deal with the problem of ‘sinful flesh’ by sending his Son in complete solidarity and identity with humankind in its existence under the powers of sin and death” (The Theology of Paul the Apostle, Grand Rapids, Eerdmans, 1998, pp. 202-203).

Edited by JohannesWeiss - 24/3/2016, 07:02
 
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JohannesWeiss
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6. 1 Cor 8,6


4 Riguardo dunque al mangiare le carni sacrificate agli idoli, noi sappiamo che non esiste al mondo alcun idolo e che non c'è alcun dio, se non uno solo. 5 In realtà, anche se vi sono cosiddetti dèi sia nel cielo che sulla terra - e difatti ci sono molti dèi e molti signori -,
6 per noi c'è un solo Dio, il Padre,
dal quale [proviene] tutto e noi [siamo] per lui;
e un solo Signore, Gesù Cristo,
in virtù del quale [sono] tutte le cose e noi [siamo] grazie a lui.

6 ἀλλ’ ἡμῖν εἷς θεὸς ὁ πατήρ, ἐξ οὗ τὰ πάντα καὶ ἡμεῖς εἰς αὐτόν,
καὶ εἷς κύριος Ἰησοῦς Χριστός, δι’ οὗ τὰ πάντα καὶ ἡμεῖς δι’ αὐτοῦ.


Ed eccoci infine al testo veramente decisivo. Non è esagerato affermare che qui sta o cade la possibilità di attribuire con sicurezza a Paolo una cristologia della preesistenza.
Quando ho iniziato a riflettere su tale problematica ero del parere che in questo testo grandioso (che sembra allargare in senso binitario lo Shemà in modo da ospitarvi il Signore Gesù Cristo, e questo a prescindere dalla preesistenza o meno) venisse attribuito a Cristo il ruolo di mediatore della creazione tradizionalmente assegnato alla Sapienza di Dio. Ed è chiaro che, in quest’ottica, le implicazioni circa la preesistenza di Gesù sarebbero altrettanto inevitabili di quanto lo sono nell’inno della Lettera ai Colossesi, nonostante tutti le sacrosante obiezioni e precisazioni al riguardo di James Dunn (il quale legge appunto in prospettiva sapienziale 1 Cor 8,6), che riferirò brevemente in seguito a proposito di Col 1,15-20.

A dirla tutta, però, mi era saltata in mente, in modo autonomo, un’idea alternativa. Avendo infatti chiaro che la prospettiva fondamentale della cristologia di Paolo è escatologica, e non protologica, e avendo altresì chiara l’importanza in Paolo del tema dell’ “essere nuova creazione in Cristo”, mi era venuto il dubbio che quel “in virtù/attraverso il quale sono tutte le cose” attribuito a Cristo potesse riferirsi non alla creazione originaria, ma appunto alla nuova creazione.
Non essendo tuttavia un esperto di Paolo, e non avendo incontrato tale interpretazione nelle letture a me note, mi dicevo “Boh, sarà una cazzata”… finché un bel giorno ho aperto il libro di Karl-Josef Kuschel (che giaceva da anni nei miei scaffali, senza praticamente essere mai stato sfogliato), e, meraviglia!!, ecco che trovo sviluppata precisamente quell’idea che io temevo essere peregrina… e invece funziona alla grande!
Stando così le cose, confido che mi perdonerete se, anziché fare una sintesi personale di tale interpretazione, riporto direttamente le argomentazioni di Kuschel, e anche con una certa ampiezza.

La parola dunque a Kuschel:

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«Un terzo argomento [i primi due li tralascio] concerne il Sitz im Leben di quest’affermazione. Che 1 Cor 8,6 non sia una professione di fede frutto di riflessione, bensì una predicazione o un’acclamazione, è patrimonio comune dell’attuale esegesi. Dove può essere risuonata, per la prima volta, questa acclamazione?
Gli esegeti concordano anche qui nel riconoscere, quale contesto originario della formula, una liturgical assembly, un’assemblea cultuale, verosimilmente essa veniva utilizzata in particolare nella liturgia battesimale. Si impone, di fatto, un’analogia tra questo testo e la teologia battesimale di Paolo.
Come qui, del resto, è questione della ‘nuova creazione’ in Cristo (“noi per mezzo di lui”), anche nel battesimo si tratta di un’incorporazione in una nuova forma di vita: […] “Voi tutti, infatti, che siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo e greco, schiavo e libero, uomo e donna; infatti voi tutti siete ‘uno’ in Cristo (Gal 3,26-28) […] “Per mezzo del battesimo noi siamo stati sepolti con lui nella morte, e come Cristo fu risuscitato dai morti, così anche noi dobbiamo vivere da uomini nuovi” (Rm 6,3s.).
Tutto questo significa: battesimo là e nuova creazione in Cristo qui sono per Paolo un’unica e medesima realtà.
[…] Se non si ricorre a paralleli stoici o filoniani indimostrabili e si presta attenzione al contesto immediato, a quello più ampio e al Sitz im Leben, la deduzione conclusiva è molto interessante: contenutisticamente si tratta in questa formula – per quanto attiene alla cristologia – della nuova creazione di coloro che aderiscono a Cristo. Tema è il Nuovo Essere dei cristiani in Cristo.

[…] Un quarto argomento: la cristologia dell’esaltazione. Nell’esegesi si assume troppo poco seriamente il fatto che in questo passo si parla del Kyrios Gesù Cristo.
In Paolo il Kyrios non è mai una figura protologica (che avrebbe potuto primordialmente collaborare alla creazione del mondo), è sempre una figura escatologica.
Il Kyrios non è altri che quel Gesù Cristo innalzato da Dio, il quale in forza della sua risurrezione (Rm 1,3s.) è stato insediato da Dio in potenza. Kyrios Gesù – Gesù è il Signore – deve professare ciascuno, secondo l’inno di Filippesi, dopo che Gesù è stato innalzato da Dio (Fil 2,11).
Kyrios Gesù potrebbe essere stata una delle affermazioni estatiche, ispirate dallo Spirito in un’assemblea cultuale, proprio come anche 1 Cor l’ha conservata (12,3).

Questo però significa, viceversa, che la professione di fede nel Kyrios e l’esperienza dello Spirito si appartengono. In forza della risurrezione ed esaltazione Cristo vive ora nel modo di essere di Dio, che è il modo di essere dello Spirito (1 Cor 6,11; 15,45). Nel modo di essere dello Spirito, tuttavia, Cristo non è più legato a spazio e tempo, ma è universalmente presente. Ora Paolo può dire: “Noi abbiamo lo Spirito di Cristo” (1 Cor 2,16). Ora può scrivere: “Il Signore è lo Spirito, e dove opera lo Spirito del Signore, lì c’è la libertà” (2 Cor 3,17). In altri termini, se Paolo in 1 Cor 8,6b parla del Kyrios Gesù Cristo, allora pensa molto ovviamente al Signore risorto presente qui e adesso nel modo dello Spirito.

Ma come intendere la frase “per mezzo di lui è tutto e noi siamo per mezzo di lui”?
Possiamo rispondere: a partire dalla presenza pneumatica e universale di Cristo, non più legata a spazio e tempo. L’aut-aut “cosmologia o soteriologia” è qui una falsa alternativa. Si tratta qui di una soteriologia universale includente l’intera creazione; l’ambito di dominio del Kyrios esaltato non è più limitato.
In altri termini, si tratta della mediazione della nuova creazione in una prospettiva universale e onnicomprensiva, cui le locuzioni con dia, usate in questa formula, alludono inequivocabilmente.
Dove infatti Paolo si serve di tali locuzioni con dia (ad es. 1 Ts 5,9; 1 Cor 15,57; Rm 5,1), si tratta sempre della mediazione del nuovo essere per i cristiani qui e adesso.

[ndr:
1 Ts 5,9: “ottenere la salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo” (σωτηρίας διὰ τοῦ κυρίου ἡμῶν Ἰησοῦ Χριστοῦ);
1 Cor 15,57: “siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo” (τὸ νῖκος διὰ τοῦ κυρίου ἡμῶν Ἰησοῦ Χριστοῦ);
Rm 5,1: “siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo” (εἰρήνην ἔχομεν πρὸς τὸν θεὸν διὰ τοῦ κυρίου ἡμῶν Ἰησοῦ Χριστοῦ);
Rm 5,11: “per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione” (διὰ τοῦ κυρίου ἡμῶν Ἰησοῦ Χριστοῦ, δι’ οὗ νῦν τὴν καταλλαγὴν ἐλάβομεν)
Rm 5,21: “come regnò il peccato nella morte, così regni anche la grazia… per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore (ἡ χάρις βασιλεύσῃ διὰ δικαιοσύνης εἰς ζωὴν αἰώνιον διὰ Ἰησοῦ Χριστοῦ τοῦ κυρίου ἡμῶν)

La formula cristologica di 1 Cor 8,6b non va perciò intesa in senso cosmologico-protologico, ma escatologico-presenziale, soteriologico-universale.
Seguendo questa spiegazione, si può riconoscere in questa affermazione un’abile struttura cronologica: Dio, il Padre, è passato e futuro, inizio e fine, origine e scopo finale, creatore (ek) e perfezionatore (eis) di mondo e uomo. Cristo, invece, è presenza, centro e vita, sovrano presente e liberante sulla terra, che come mediatore (dia) di una “nuova creazione” (2 Cor 5,17) e di un nuovo patto (2 Cor 3,6) può essere anche il Signore di tutti gli attuali “dèi e signori” regnanti.

Il ta panta teologico potrebbe, di conseguenza, andar riferito all’originaria creazione del mondo; il ta panta cristologico, invece (come solitamente in Paolo) alle realtà dominanti del presente. Il Kyrios di 1 Cor 8,6b va riferito, quindi, soprattutto ai kyrioi e theoi di 1 Cor 8,5! Il Kyrios Gesù, cioè, è il Signore di tutti i signori e di tutti gli dèi, che attualmente dominano su cielo, terra e uomini.

[…] Il senso di 1 Cor 8,6 è pertanto il seguente: poiché per Paolo solo il Kyrios esaltato è il Signore sopra tutti gli dèi e sopra l’intera creazione, giacché solo l’Esaltato rende possibile la nuova vita nel suo ambito di dominio, per i cristiani né gli dèi pagani né la carne ad essi sacrificata giocano un qualche ruolo [qui Kuschel si riallaccia alle argomentazioni iniziali centrate sul contesto letterario, che non ho riportato].
Nella sfera di signoria di questo Cristo regna fondamentalmente la libertà, ma una libertà che diviene concreta nel rispetto dei deboli. Libertà e rispetto sarebbero le conseguenze di questa esistenza escatologicamente nuova in Cristo. Creazione per mezzo di Dio Padre e nuova creazione per mezzo del Signore Gesù Cristo costituiscono così un’unità!

[…] Gesù Cristo qui è certamente il mediatore di Dio per edificare la nuova creazione, ma non è evidentemente il mediatore divino e pretemporale della creazione. In una parola, in qualità di innalzato da Dio, Cristo non è il mediatore cosmologico della creazione, ma il mediatore soteriologico della creazione.
[…] Si potrà dire con James Dunn che in 1 Cor 8,6 si sono certo riprese tradizioni sapienziali, ma le si è chiaramente trasformate. L’allusione alla Sapienza – questo è il corto circuito di molti esegeti – non implica necessariamente l’idea della preesistenza di Cristo […]»

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La lettura soteriologica, anziché cosmologica (e quindi non-preesistenziale) di 1 Cor 8,6b ha tra i suoi sostenitori anche lo specialista paolino Jerome Murphy O’Connor (religioso domenicano morto qualche anno fa), di cui riporto anche una breve citazione dal suo commento a 1 Cor per il NGCB e, più estesamente, vari passaggi di una più ampia trattazione su 1 Cor 8,6.

Jerome Murphy O’Connor, “La prima lettera ai Corinzi” in: R.E. Brown – J.A. Fitzmyer – R.E. Murphy, Nuovo Grande Commentario Biblico, Brescia, Queriniana, 1997, 1054: «L’interpretazione cosmologica è meno probabile dell’interpretazione soteriologica, che è più conforme all’uso paolino (cfr. Rm 11,36; 1 Cor 2,10-13; 12,4-6; 2 Cor 4,14-15; 5,18). Non c’è alcuna allusione alla preesistenza di Cristo».

Jerome Murphy O’Connor, Keys to 1 Corinthians, Oxford-New York, Oxford University Press, 2009, pp. 68, 73-75:

«Interpretations of 1 Cor 8:6 which find a cosmological meaning in the text ignore the methodological rule that parts of a text retain their intended meaning only within the framework of the whole. […]Since 1 Cor 8:6 is a baptismal acclamation, the hemeis cannot be interpreted as meaning the human race in general; it means Christians. The unified thrust of the verse, therefore, is exclusively soteriological.
In this perspective the meaning of the verse can be summarized in the following paraphrase: From God come all things which enable us to return to him. All these things are given through Christ and in him we go to the Father.
Taken in themselves some elements of 1 Cor 8:6 are susceptible of a cosmological meaning. Hence, it is not impossible a priori that Paul could have given the citation a cosmological dimension when he incorporated it into his discussion with the Corinthians. The question, then, is: Did he in fact do so?
[…]
We have been conditioned to think cosmologically and, in consequence, cannot rely on our first impression of the meaning of ta panta passages in which God appears as subject. The meaning assigned to ta panta
must be justified contextually. In this respect it is important to keep in mind a series of passages which refer ta panta to God in an exclusively soteriological sense, 1 Cor 2:10-13; 12:4-6; 2 Cor 4:14-15; 5:18; Rom 8:28, 31-2 (see also 1 Cor 9:22-3; 2 Cor 12:19).
[…]
It is understandable that some commentators should tend to give primacy to the cosmological aspect. Not only is it the more striking and unusual, but it appears to offer an unusual insight into the person of Christ. The first impression has been well articulated by Dunn, 'it seems to lift early christology on to a wholly new plane—where pre-existence and a role in creation are clearly attributed to Christ... the lines of deity are being clearly sketched into this christology'.
As we shall see, Dunn in reality does not go anywhere as far along this line as Fee, who writes, 'Although Paul does not here call Christ God, the formula is so constructed that only the most obdurate would deny its Trinitarian implications... the designation "Lord," which in the OT belongs to the one God, is the proper designation of the divine Son.'
The methodological error of those who insist on the 'natural meaning' of 1 Cor 8:6 is well spelt out by Dunn, Parting of the Ways, 199-200. From a Pauline perspective this conclusion is unacceptable.
For Paul Christ is accorded the title 'Lord' as a reward (Phil 2:11); it is not his by nature. Furthermore, the power of lordship is given to Christ for a specific purpose, and when it is accomplished, that power will be surrendered (1 Cor 15:20-8). Finally, the sonship of Christ is not his by nature, but is consequent on the resurrection (Rom 1:3-4; 14:9; 1 Thess 1:10) and is the fruit of obedience (2 Cor 1:19-20).
When read in the light of these texts, 1 Cor 8:6 cannot be understood as a statement of the divinity of Christ, unless we are to assume that Paul subscribed to completely contradictory understandings of who Christ was.
This, in consequence, implies that 'pre-existence' cannot be understood simplistically as meaning that Christ was coexistent with the Father from all eternity. Col 1:16 would seem to militate against this conclusion. This verse, however, comes from the Colossian hymn, which Paul quotes only in order to
correct it. He accepts its statements, not because they are true, but because they provide him with highly effective ad hominem arguments against his opponents.
Dunn, who shares my view that Paul never thought of Christ in terms of divinity, stands alone in his effort to determine in what possible sense Christ can be said to be 'pre-existent'. Christ is presented as the instrument of creation, a role that Jewish tradition attributed to Wisdom and to the Word. These 'pre-existents', however, were never seen as threats to monotheism. The Word of God denotes what we would call the rationality of God's dealings with humankind, just as Wisdom denotes their wisdom.'
They were ways of speaking about God's self-revelation. Hence when Christ is identified with Wisdom (1 Cor 1:24, 30), or with the Word, this means not so much that Christ as Jesus of Nazareth had preexisted as such, but that preexistent Wisdom was now to be recognized in and as Christ'.
This may appear overly subtle and convoluted, but only an approach along these lines can satisfy all the data that Paul provides.
Paul's concern with the present rather than the past is underlined by the shift from 'all things' to 'we' in both members of 8:6. In theory 'all things' can reach all the way back into the immensity of the past, but in practice 'we' focuses ta panta on the present. The power displayed in the creation of all things interests Paul only in so far as it now has an impact on the members of the community Creation is evoked, not in or for itself, but because of the inconceivable power therein displayed. Believers are to understand that power of the same magnitude is at work in their redemption.
Despite the intensity of the discussion, it is surprising that greater importance has not been given to the teaching of Deutero-Isaiah, who displays the same intimate association of creation and redemption as 1 Cor 8:6, e.g. 'Thus says the Lord, your Redeemer, who forms you in the womb: I am the Lord who makes all things' (Isa 44:24).’
Some scholars rightly translate the verbs here in the present tense, 'because the prophet here presents the first creation as an on-going work in the present redemption of Israel' (Z. Stuhlmueller).
The ancients were interested in the creation of the physical world only as an explanation for the appearance of the human race or a particular people. As regards the Jews, creation is clearly subordinate to their redemption. 'Because of what Yahweh does redemptively for and in Israel, he is Israel's creator.' (Ibid.). The finality of creation is redemption. The power that brought their world into being is the same power that saves them. This is not the place to go into further detail. It is sufficient to note that the perspective of Deutero-Isaiah provides an illuminating precedent for the smoothness of the shift from cosmology to soteriology in 1 Cor 8:6. Even though two dimensions may be distinguished, creative redemption is the single movement demanded by the verbs of motion».

Edited by JohannesWeiss - 24/3/2016, 04:49
 
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JohannesWeiss
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7. Col 1,15-20

15 Egli è immagine (εἰκὼν) del Dio invisibile, primogenito (πρωτότοκος) di tutta la creazione,
16 perché in lui (ἐν αὐτῷ) furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potenze. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui (δι’ αὐτοῦ) e in vista di lui (εἰς αὐτὸν).
17 Egli è prima di tutte le cose (πρὸ πάντων) e tutte in lui (ἐν αὐτῷ) sussistono.
18 Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è principio (ἀρχή), primogenito (πρωτότοκος) di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose (ἵνα γένηται ἐν πᾶσιν αὐτὸς πρωτεύων).
19 È piaciuto infatti [a Dio] che abiti in lui tutta la pienezza (πᾶν τὸ πλήρωμα κατοικῆσαι)
20 e che per mezzo di lui (δι’ αὐτοῦ) e in vista di lui (εἰς αὐτόν) siano riconciliate tutte le cose,
avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli.


Qui ritengo che sia effettivamente presente l’idea della preesistenza di Cristo, specificamente dell’identità tra Cristo e la Sapienza di Dio mediatrice della creazione, ovvero la creatura primogenita* nella quale e attraverso la quale Dio ha creato tutte le altre cose.

In numerose pubblicazioni, Dunn ha messo un po’ in discussione che il nostro inno intenda esprimere propriamente la preesistenza di Cristo, facendo ampie e senz’altro sensate considerazioni sul fatto che per gli ebrei del tempo, più che un’entità divina autonoma, la Sapienza era un modo personificato di parlare della sapienza di Dio quale si manifesta nell’ordine del cosmo e, in modo particolare, nella Torah.
Per cui, come la Torah è l’espressione più eccellente della sapienza divina, ma non certo un’entità preesistente, analogamente il senso di Col 1,15-17 è che la Sapienza con cui Dio ha ordinato il cosmo si è resa perfettamente visibile in Cristo.

Io penso che tutto questo sia fondamentalmente corretto e che descriva bene la “logica” che ha portato l’autore dell’inno a identificare Gesù con la Sapienza preesistente di Dio, ovvero: poiché Cristo risorto/esaltato ha ottenuto il primato su tutte le cose [cf. 1,18c] ed è quindi il vertice a cui tendeva la creazione [cf. 1,16: εἰς αὐτὸν], dal momento che la creazione è il dispiegamento della sapienza divina, allora si può dire che Cristo è la manifestazione piena della Sapienza, e quindi – abbreviando – Cristo è la Sapienza.

Resta il fatto che l’autore dell’inno, per un motivo o per l’altro, non ha fatto tanti giri di parole, ma ha applicato direttamente la forma “abbreviata” dell’identificazione tra Cristo e la personificazione della sapienza di Dio dispiegata nel cosmo, attribuendo espressamente a lui il ruolo di mediatore, e quindi la preesistenza, della Sapienza.
E alla fine, dopo tutte le giuste precisazioni del caso, di questo va preso atto; anche perché se è verosimile che il modo sfumato in cui Dunn spiega l’identificazione rispondesse effettivamente al pensiero dell’autore dell’inno, non è detto che coloro che lo leggevano o lo cantavano ne avessero una comprensione altrettanto sottile (a maggior ragione se erano “gentili comuni” piuttosto che ebrei, proseliti o acculturati gentili timorati di Dio**).

Per queste ragioni ritengo corretto vedere in Col 1,15-20 una chiara (e aggiungerei: la prima così chiara) attestazione della preesistenza di Cristo. E lo stesso Dunn alla fine non rifiuta del tutto tale affermazione, pur continuando a qualificarne il senso esatto:
“We can hardly fail to speak of Christ’s preexistence expressed in this passage. But once again is the preexistence of God, of the divine Wisdom by means of which God created and sustains the universe. It is the pre-existence of the divine fullness whereby God’s presence fills the universe and which is now embodied (incarnate?) in Christ, above all in his cross and resurrection”.

* πρωτότοκος potrebbe essere inteso anche come ciò che ha precedenza sulla creazione stando “fuori dalla serie”, ma poiché il termine al v. 18 indica il primo di una serie – coloro che risorgono – è giusto intenderlo nello stesso modo anche al v. 15, appunto come il “primo-genito”; cfr. Pr 8,22: Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all'origine. Da questo punto di vista, non si può certo dire che gli ariani fossero dei bischeri a far leva su Col 1,15.

** @ Talità Da questo punto di vista c’è del buono negli argomenti – spesso criticati – di Casey, secondo cui la presenza crescente e infine dominante dei gentili nelle comunità cristiane fu un fattore importante per l’evoluzione (finale) della cristologia. Casey riconosce benissimo che inni come Fil 2,6-11 e Col 1,15-20 sono scritti in tutto e per tutto con categorie giudaiche e la devozione a Cristo che essi esprimono non fuoriesce affatto dal monoteismo giudaico.
E tuttavia:
“the figure portrayed… is very nearly of divine status. What is required to turn him into a full deity? Nothing more, or less, than sympathetic Gentile perception… To understand the high position of Jesus in their compositions we should look primarily to Adam and Wisdom speculation rather than to deification of people in the Greco-Roman world. The chief importance of the latter is that, as Gentiles took on so much Jewish culture, christological growth would fit naturally into the unconscious pattern already established by the deification of Heracles, Augustus and others… All we need is a conflict situation which will make Jews object to Jesus’ position, leaving Gentile perception dominant in the churches. Once only Gentile perception is exercised, the deity of Jesus is inevitable. Since he is already regarded as pre-existent, incarnation in the strictest sense will come with deity. This is the story which will unfold as we pass through other Christian writers to the Johannine community”
(M. Casey, From Jewish Prophet to Gentile God, Cambridge, James Clarke, 1991, pp. 115 e 117).
 
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JohannesWeiss
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Conclusione

E dopo questo tour de force, è giunto il momento di tirare le fila (… e, se non stacco un po’, temo pure le cuoia…).

1 Cor 15,47 non c’entra assolutamente nulla con la preesistenza, in quanto tutto il discorso verte sulla risurrezione dei morti, e “l’uomo dal cielo” si riferisce inequivocabilmente al Cristo Risorto in quanto “secondo Adamo” che ha inaugurato questo nuovo modo di esistenza pneumatico-celeste.

Anche voler leggere la preesistenza in 2 Cor 8,9 è un’esegesi arbitraria, che importa da altrove una nozione estranea al contesto del discorso paolino e per nulla suggerita dal versetto stesso, in cui si tratta semplicemente della dialettica virtuosa tra impoverimento materiale/sofferenza e arricchimento spirituale, che Cristo ha attuato per primo a beneficio di tutti i credenti, e che adesso i Corinzi, in quanto arricchiti di doni grazie a Cristo, devono prolungare a loro volta sganciando i schei.

1 Cor 10,4 è un chiaro caso di esegesi tipologica della scrittura. La roccia “era” realmente Cristo esattamente quanto l’attraversamento del mare da parte dei padri poteva essere un reale battesimo: cioè tipologicamente, e nulla più. Voler argomentare l’idea di preesistenza appellandosi ad un testo del genere è un’operazione decisamente esagerata, anzi disperata.

E’ sicuramente un po’ più comprensibile che si voglia leggere la preesistenza in Gal 4,4 e Rm 8,3: tuttavia questo dipende dalla interferenza delle successive formule d’invio giovanee, che ci fa dimenticare che questo è prima di tutto un tipico motivo profetico che non implica in nessun modo la preesistenza dell’inviato. E una volta tolte le lenti giovannee, ci si accorge in effetti che in entrambi i testi non c’è nulla che richieda l’idea di preesistenza.

Quanto infine al testo che sembrava costituire la più forte attestazione della preesistenza (insieme a Fil 2,6-11 e Col 1,15-20), cioè 1 Cor 8,6, si sono viste le ragioni – sia contestuali che lessicali – per cui la mediazione di Cristo nella seconda parte del versetto va compresa come mediazione soteriologica/escatologica e non cosmologica/protologica. Qui si tratta non della mediazione della Sapienza preesistente, bensì della sovranità del Kyrios esaltato e della sua mediazione rispetto alla nuova creazione.

Cosa resta dunque di quella cristologia paolina della preesistenza che siamo abituati a considerare così ovvia? Poco davvero.
Giusto un paio di inni non-paolini: Fil 2,6-11 (pre-paolino) e Col 1,15-20 (non paolino, sia che si ritenga autentica la lettera ai Colossesi, sia che – con i più – la si consideri deutero-paolina). Nell’inno di Colossesi a mio avviso la preesistenza è chiaramente attestata, mentre in quello di Filippesi ciò è possibile, ma non è così evidente, essendo la lettura adamica un’alternativa plausibile (almeno per me).

A questo punto, però, dopo quanto si è mostrato attraverso l’esegesi dei testi, emerge una conclusione inaspettata, ossia: alla luce della sostanziale assenza dell’idea di preesistenza nell’epistolario paolino e a fronte invece dell’importanza rivestita dalla cristologia di Adamo, si può ritenere che, quand’anche Fil 2,6-11 fosse stato originariamente composto avendo in mente la preesistenza di Cristo, Paolo non lo avrebbe probabilmente letto così (dato che o non conosceva tale idea o in ogni caso non gli interesseva), bensì appunto in ottica adamica.

Pertanto, l’unica possibilità relativamente “solida” che rimane di affermare che Paolo concepiva Cristo come un essere preesistente è considerare Colossesi una lettera autentica (magari scritta per suo conto da un segretario) anziché, come solitamente si propende, vedervi la prima delle deutero-paoline. Ma anche se si optasse per l’autenticità, bisognerebbe comunque evitare di parlare di una cristologia della preesistenza in Paolo, per due ragioni:

A) Col 1,15-20 sarebbe pur sempre un inno che (l’ipotetico) Paolo avrebbe scelto per qualche ragione di utilizzare: ciò evidentemente implicherebbe che egli lo trovasse accettabile e che rispondesse bene alle esigenze della sua lettera, ma non è detto che egli fosse d’accordo al 100% con ogni sua parte. Capita a tutti di citare cose con cui si è sostanzialmente d’accordo, ma che – se fossimo noi a scriverle – magari formuleremmo in modo un po’ diverso in questo o quel punto.
E non è detto che uno voglia o riesca ad aggiustare o riscrivere ciò che gli pare espresso "così così", specialmente nel caso di un componimento innico che ha una sua compiutezza formale. E per quanto l’idea del ruolo di Cristo come Sapienza creatrice sia oggettivamente importante nell’inno, essa non è però tutto l’inno, e in effetti nella seconda parte (vv. 18-20) non appare affatto, mentre ci sono altri concetti che Paolo avrebbe potuto gradire.

B) Ma se anche (l’ipotetico) Paolo fosse stato completamente d’accordo con l’identificazione operata dall’inno tra Cristo e la Sapienza creatrice, dal momento che tale idea non gioca alcun ruolo in tutto il resto dell’epistolario paolino (abbiamo infatti visto che 1 Cor 8,6b non è da leggere in senso cosmologico), si dovrebbe comunque concludere che si tratta di uno sviluppo tardivo della riflessione di Paolo (e di per sé è perfettamente concepibile e normale che l’ultimo Paolo possa aver maturato nuove convinzioni rispetto a quanto pensava e scriveva anni addietro nelle sue “lettere maggiori”).

Con tutto questo non mi illudo certo di aver convinto qualcuno.
Se non sono riusciti a cambiare la communis opinio né l’ottimo studio di Kuschel né un interprete di Paolo straordinariamente autorevole come Dunn, che insiste imperterrito a picchiare su questo tasto da quasi 40 anni, come potrebbe mai riuscirci questa povera discussione?
In effetti credo che tale conclusione non arriverà mai ad imporsi. Per una questione affettiva.
Siamo troppo affezionati a quel fighissimo paio d’occhiali giovannei.
Abbiamo già dovuto sopportare la frustrazione di non poterli più indossare quando parliamo del Gesù storico: diamine, lasciateceli mettere almeno con Paolo!
Nel caso di Gesù siamo stati costretti a deporli: non c’era alternativa, l’evidenza contraria era schiacciante.
Ma con Paolo, tutto sommato, ce la si fa abbastanza bene ad aggirarla. Perché se anche è vero che il modo migliore di leggere 1 Cor 8,6; Gal 4,4; Rm 8,3 non implica la preesistenza, non si può però dire che si faccia violenza ai testi a volercela vedere (diversamente che in 1 Cor 15,47; 2 Cor 8,9 e 2 Cor 10,4).
E allora, se non è impossibile leggerli così, perché dovremmo andare per il sottile e farci tanti problemi?
I concetti di preesistenza e di incarnazione sono troppo importanti per la nostra identità cristiana.
E a noi non basta che siano canonicamente attestati nel corpus giovanneo.
Sì, d’accordo, sappiamo benissimo che dal punto di vista della rivelazione è assolutamente indifferente che una dottrina appaia in un testo tardivo piuttosto che in uno antico. Lo sappiamo perfettamente, ma non ci basta lo stesso.
Abbiamo bisogno di credere che per lo meno Paolo avesse già sostanzialmente chiara questa idea per noi così fondamentale.
E’ troppo poco che ai suoi occhi Gesù avesse ricevuto “il nome che è al di sopra di ogni altro nome” (su questo Paolo era sicuramente al 100% d’accordo con l’inno di Filippesi). Troppo poco che egli lo acclamasse come unico Signore accanto all’unico Dio (1 Cor 8,6). Troppo poco! Vogliamo di più!
E allora teniamoci pure addosso i nostri fichissimi sunglasses giovannei. Non ci faranno leggere correttamente Paolo… amen! Ma ci guidano pur sempre alla verità tutta intera. No?

Questa discussione avrà comunque raggiunto il suo scopo se riuscirà a convincere qualcuno di voi che è per lo meno problematico parlare di una cristologia della preesistenza in Paolo.

Edited by JohannesWeiss - 24/3/2016, 06:49
 
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Meglio spegnersi di colpo che bruciare lentamente

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CITAZIONE (JohannesWeiss @ 24/3/2016, 04:59) 
E dopo questo tour de force, è giunto il momento di tirare le fila (… e, se non stacco un po’, temo pure le cuoia…).

Complimenti per l'esposizione semplicemente disarmante :o:, ma non vorrei che fosse la tua ultima opera :D
Si impara tantissimo da questo forum. Leggerò tutto con attenzione e tornerò sull'argomento tra 5 o 6 mesi
quando forse sarò pronto :2029.gif:

Saluti
Astro
 
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view post Posted on 30/3/2016, 14:59     +2   +1   -1
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CITAZIONE (JohannesWeiss @ 15/3/2016, 19:07) 
Fil 2,6-11 è un inno di difficile interpretazione, e la traduzione della CEI 1978 sopra riportata può apparire discutibile in vari punti. Per farcene una primissima idea basta già confrontare il diverso modo con cui viene reso il v. 6 nella nuova traduzione CEI 2008: "egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio".
In particolare, essere nella condizione di Dio non è la stessa cosa che essere di natura divina, così come essere come Dio non è la stessa cosa che essere uguale con/a Dio, specialmente se tale "tesoro geloso / privilegio" (harpagmos) viene inteso non come qualcosa che Cristo possedeva già ma che non volle trattenere gelosamente per sé, bensì come qualcosa che Cristo non possedeva ma che non volle comunque considerare un bene da estorcere o rapinare - un senso questo (οὐχ ἁρπαγμὸν ἡγήσατο τὸ εῖναι ἴσα θεῷ = non considerò l'essere come Dio un bottino da rapinare) non adottato da nessuna delle due versioni CEI, ma comunque perfettamente accettabile sul piano grammaticale.
Per farla breve, nel solo v. 6 abbiamo due o tre espressioni altamente controverse tra gli esegeti quanto alla corretta interpretazione:
1. μορφὴ θεοῦ: natura divina? condizione/sfera/modo di essere di Dio? forma esteriore percepibile di Dio? gloria di Dio? immagine di Dio?;
2. οὐχ ἁρπαγμὸν ἡγήσατο: non considerò "X non-posseduto" qualcosa da rubare? non considerò "X posseduto" alla stregua di un furto o comunque qualcosa da tenere gelosamente per sé?;
3. τὸ εῖναι ἴσα θεῷ: l'essere uguale a Dio? l'essere come Dio?

A questo proposito, sul quale si sprecano le congetture, ho sempre considerato assai soddisfacente l’autorevole analisi filologica di Hoover circa il termine “harpagmos” (Roy W. Hoover, “The Harpagmos Enigma: A Philological Solution” Harvard Theological Review / Volume 64 / Issue 01 / January 1971, pp 95-119). Va osservato che la sua proposta di traduzione “qualcosa di cui approfittarsi/trarre vantaggio“, non a caso assai diffusa tra gli interpreti, è stata criticata una ventina d’anni dopo da O’Neill ("Hoover on Harpagmos Reviewed, with a Modest Proposal Concerning Philippians 2:6," HTR81 (1988) , 445-49) secondo il quale la proposta di Hoover non può considerarsi conclusiva e va mantenuta la legittima opzione traduttiva “qualcosa di cui appropriarsi/rapinare/estorcere con violenza” (come proposto da Weiss). Gli studiosi seguono ora Hoover (direi la maggioranza), ora citano O’Neill (e.g. Dunn). Tuttavia, avendo cercato di approfondire, ci tengo a fare un’osservazione. Nelle sue conclusioni, Hoover afferma che <<in every instance which I have esamine this idiomatic expression refers to something already present and at one’s disposal.>> ed al tempo stesso che << Neither in this idiomatic phrase nor in any other usage [...] or any of their compunds or cognates mean to retain something>>.
Ciò significa che sono da rigettare traduzioni come “tesoro geloso / trattenere” così come “estorcere/rapinare”: O’Neill, per mantenere aperta la possibilità di questa seconda traduzione è costretto a fare una proposta inaccettabile (modifiche di uno scriba) che infatti non viene accolta dagli esegeti.
Tuttavia, la proposta di traduzione di Hoover non implica che la cosa di cui approfittare/trarre vantaggio sia già posseduta (es. “natura divina”) e può ben essere un’opportunità (a disposizione) da cogliere/della quale approfittarsi. Con tale traduzione (secondo me assolutamente corretta) viene quindi mantenuta l’ambiguità circa il possesso (a tal proposito si veda M. Wade Martin “Harpagmos Revisited: a philological re-examinaton of New Testament’s most difficult word”, JBL 135 no.1 (2016): 175-194) e non è quindi possibile redimere tale questione attraverso il significato di harpagmos: va notato però che la possibilità del possesso non è esclusa, come implicherebbe la traduzione estorcere/rapinare, e secondo me è giustificata un’idea di pre-esistenza anche se non necessariamente la “piena divinità” che parrebbe raggiunta con la resurrezione nei vv. 9-11.

Ora, circa la lettura adamica dell’inno di Filippesi, riporto alcune critiche di Ehrman (che hanno il pregio di essere formulate in maniera crassa e semplice):

<<first, if Paul (or the author of the poem) really wanted his readers to make the connection between Jesus and Adam, he surely would have done so more explicitly. Even if he chose not to call Adam by name, or to call Jesus the second Adam, he could have made verbal allusions to the story of Adam (and Eve) more obvious. [...]
In particular, rather than saying that Christ was “in the form of God”, he would have said that Christ was “in the image of God”. That is the word used in Genesis, and it would have been quite simple for the author to use it here in the poem if he wanted his reader to think of Genesis. >> (B. Ehrman, “How Jesus become God”, HarperOne, 2014 pg. 138 )

La risposta di Dunn, sul piano filologico ed esegetico, è ben riassunta da Weiss :
“Come Adamo nella sua innocenza era stato creato ad immagine (εἰκών) di Dio (con il riflesso di gloria e l’incorruttibilità proprie di tale condizione), così Gesù era nella forma (μορφή) di Dio [NB: Dunn insiste che εἰκών e μορφή sono pressoché sinonimi - giudizio su cui gli esegeti sono abbastanza divisi -, e l’autore dell’inno può aver optato per μορφή in quanto meglio si prestava al contrasto con la μορφὴ δούλου del v. 7].”

Secondo Dunn l’utilizzo di tali sinonimi andrebbe inquadrato in un contesto di lettura adamica allusiva (anziché esplicita) dell’inno, che ha natura poetica. Traduco l’argomento di Dunn, come già riportato da Weiss:
<<un punto importante va chiarito. Che è la natura delle allusioni. Il fatto è che gran parte del dibattito circa l’esegesi di questo passaggio ha mostrato un’ insensibilità artistica o letteraria piuttosto grossolana... Le allusioni per loro natura non sono esplicite . Poeti o critici letterari che dovessero precisare ogni allusione o eco comprometterebbero la loro arte e priverebbero i loro lettori più percettivi del momento di illuminazione, dell'emozione del riconoscimento.>>
(J. Dunn, The Theology of Paul the Apostle, Grand Rapids, Eerdmans, 1998, 283-284).

A questo punto cerco di articolare meglio le crasse osservazioni di Ehrman con un paio di considerazioni di natura più tecnica. Riguardo al fatto che εἰκών e μορφή siano pressoché sinonimi non vi è unanimità di giudizio – tale utilizzo interscambiabile non è infatti così scontato (si veda ad es. D. Steenburg, "The Case against the Synonymity of Morphe and Eikon" JSNT 34 (1988) 77-86) quindi l’osservazione di Ehrman relativa ai termini inappropriati è decisamente sostenibile da un punto di vista filologico.
A tali dubbi interpretativi, si aggiunge la interessante critica di Hurtado alla presunta lettura adamica di tipo allusivo – critica che qui riporto integralmente:

<< Dobbiamo notare che l'unità semantica in questione in Filippesi 2: 6 non è “morphē” ma “morphē theou”.
La questione non è esclusivamente relativa alla portata generale della parola greca per "forma"; piuttosto, la questione è relativa al significato della specifica espressione greca per "forma di Dio".
Ciò che ci interessa sapere non è se le parole greche “morphē” ed “eikön” abbiano una sorta di legame concettuale generale, ma se i due termini siano mai stati usati in modo intercambiabile, in particolare in questo tipo di espressione. Le parole hanno spesso un insieme di possibili significati generali, ma i loro significati particolari appaiono nel loro utilizzo ed in relazione sintattica con altre parole, in frasi e periodi.
Quindi la domanda più precisa da affrontare è se l’espressione "forma di Dio" sia stata qui utilizzata come un modo di alludere alla descrizione di Genesi Adamo come creato "a immagine di Dio".
Come ho già indicato in una precedente discussione della questione, la risposta è piuttosto chiaramente negativa: nella traduzione greca dei relativi passaggi di Genesi, l'espressione “eikön theou” è costantemente utilizzata per esprimere lo speciale stato e significato di Adamo e dell'umanità (Genesi 1: 26-27; 5: 1; 9: 6), e nelle successive allusioni a questa idea e di questi testi a scritti greci di provenienza ebraica e protocristiana la stessa espressione è utilizzata in modo altrettanto coerente (e.g., Wisd. of Sol. 2:23; 7:26; Sirach 17:3; 1 Cor. 11:7; Col. 3:10).. Inoltre, gli scrittori del Nuovo Testamento usano costantemente il termine eikön quando sembrano appropriarsi dell'idea di "immagine" divina come un modo per indicare il significato di Gesù (2 Cor. 4: 4; Col 1,15), e quando creano un nesso evidente o un contrasto tra Gesù ed Adamo (ad esempio, 1 Cor 15:49;. 2 Cor 3,18). Al contrario, “morphē” non è mai usato altrove in qualsiasi allusione ad Adamo nel Nuovo Testamento, e “morphē theou” non viene utilizzato affatto nel Tanach greco / Antico Testamento o in qualsiasi altro testo ebraico o cristiano in cui possiamo identificare un'allusione ad Adamo.
Così il presunto utilizzo di “morphē theou” per collegare Gesù con Adamo in Fil 2: 6 sarebbe un caso singolare, senza alcuna analogia o precedente.
Come ho già affermato altrove, tale modo di fare un'allusione ad Adamo sarebbe "un modo particolarmente inetto". Affinché un’allusione ad un altro testo o tradizione orale possa funzionare - ovvero, affinché i lettori / ascoltatori possano afferrarla - si deve usare o adattare qualcosa di ciò a cui si allude in modo che sia sufficientemente identificabile da poter cogliere l’allusione.
In Fil2: 6-8, tuttavia, non vi è una singola parola proveniente dal testo della creazione di Genesi o dai racconti della tentazione, ad eccezione della parola "Dio". Che ben difficilmente può esser considerato un tentativo efficace di allusione>>
(L. Hurtado “How on Earth Did Jesus Become a God?” Eerdmans, 2005 pg. 98-99)

Ecco quindi corroborata l’osservazione di Ehrman secondo cui i riferimenti ad Adamo non sono così espliciti. [edit. 01/04/16: Parlando di allusioni nell'inno di Filippesi ritengo che in effetti ve ne siano, e che siano riconoscibili: i vv.9-11, dei quali finora non ci siamo occupati molto, sono un'allusione ed un riferimento a tradizioni bibliche giudaiche (ad es. Isaia 45:18-25, Salmi 97:9) che ci possiamo ragionevolmente aspettare fossero riconosciute dal lettore. Quindi l'inno è in grado di esprimere allusioni identificabili, al contrario dell'ipotetica allusione adamica].

Ora, trovandomi di fronte ai due argomenti (Dunn vs. Hurtado/Ehrman) mi trovo a propendere per l’argomento più verificabile tramite l’analisi dei testi, in quanto l’argomento poetico/allusivo è piuttosto arduo da verificare trattandosi di un unicum nel corpus biblico.
E questo a maggior ragione, sempre mia opinione, se l’inno fosse pre-paolino – in quanto non potremmo neppure presumere la lettura adamica presente in Paolo.
Per completezza, faccio presente che Hurtado – come ogni studioso onesto e sano di mente - ha parzialmente rivisto nel tempo le proprie convinzioni circa l’origine pre-paolina dell’inno, e pensa che ci sia in parte anche lo zampino di Paolo.

Per ora mi fermo qui!

Ciao,
Talità

Edited by Talità kum - 1/4/2016, 12:07
 
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Sant'Atanasio
view post Posted on 31/3/2016, 18:03     +1   -1




Bellissimo post, Talità. Quoto tutto. Solo una cosa

CITAZIONE (Talità kum @ 30/3/2016, 15:59) 
E secondo me è giustificata un’idea di pre-esistenza anche se non necessariamente la “piena divinità” che parrebbe raggiunta con la resurrezione nei vv. 9-11.

Questo come si conciglierebbe col monoteismo di Paolo e degli altri apostoli? Se la domanda è off topic la cancello, ma non mi sembra che lo sia, dato che qui si parla della cristologia originaria.

Su questo trovo estremamente convincente la lettura di Bauckam, Hurtado e altri, non tanto perché teologicamente confacente, ma perché rispetta il monoteismo, che non mi sembra sia mai stato abbandonato, neanche parzialmente, dai cristiani proto-ortodossi (escludendo quindi le eresie).

Se la domanda è off topic dimmelo che la cancello e magari ti scrivo in privato, grazie. :)

Edited by Sant'Atanasio - 1/4/2016, 12:32
 
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view post Posted on 1/4/2016, 10:44     +1   -1
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CITAZIONE (Sant'Atanasio @ 31/3/2016, 19:03) 
Questo come si conciglierebbe col monoteismo di Paolo e degli altri apostoli?

Su questo trovo estremamente convincente la lettura di Dunn e altri, non tanto perché teologicamente confacente, ma perché rispetta il monoteismo, che non mi sembra sia mai stato abbandonato, neanche parzialmente, dai cristiani proto-ortodossi (escludendo quindi le eresie).

Due problemi:

1) La domanda che poni è teologica. Le questioni "teologicamente confacenti "non dovrebbero influenzare eccessivamente l'analisi del testo (ed il motivo per il quale trovi in questo caso convincente Dunn, è lo stesso motivo per il quale a volte non condivido le sue analisi).

2) Parti come sempre dal pressuposto che la chiesa primtiva sia stata fin dal principio un "blocco" monolitico (tu fai riferimento a "Paolo e gli altri apostoli") e che esistesse una sorta di ortodossia (con la quale confrontare anacronistiche "eresie") che identificava Gesù Cristo con Dio creatore. Nessuno di nessuno, e tantomeno Hurtado, si sogna di pensare una cosa del genere.

[NOTA: poiché Sant'Atanasio, a fronte di questa mia risposta, ha ripetuto la stessa identica domanda - il suo ultimo post è stato cancellato]
[NOTA 2: Sant'Atanasio aprirà in questa sezione un nuovo thread relativo alla teologia di Paolo e degli apostoli ]


Ciao,
Talità

Edited by Talità kum - 1/4/2016, 22:08
 
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