Ciao, grazie per la risposta.
CITAZIONE
Per il punto 2 mi pare proprio che ci siano le espressioni di cui parli, perchè non dovrebbero esserci?
Specifico meglio la mia domanda.
Presumo che in TUTTE le lingue, antiche e moderne, si trovino espressioni che indicano benessere psicologico/mentale o morale.
Queste espressioni faranno riferimento a condizioni del tipo: essere sereni, stare bene (mentalmente o spiritualmente che dir si voglia), trovarsi in uno stato di benessere psicofisico, oppure solo psichico. Insomma: "essere felici&contenti" (anche distintamente, come giustamente osservi, dalle condizioni sociali, politiche, economiche).
In questo senso si leggeranno nella letteratura antica (dunque nelle lingue antiche) espressioni di diverso tipo che indicano benessere psicologico oppure i metodi per raggiungerlo, ad esempio: se l'uomo vorrà essere felice-contento dovrà fare così e cosà. (e qui penso a tutta la filosofia).
Ok. Ma io non intendevo questo.
Intendevo più specificamente espressioni linguistiche , o contesti, come:
"sentirsi di (fare)", "non sentirsi di (fare)", "avere voglia di (fare)", "non avere voglia di (fare)".
Mi viene in mente che nei racconti antichi si trovano sempre personaggi che per precisi motivi (motivi sempre evidenziati, fossero anche il banale "essere buoni o cattivi") fanno oppure non fanno una certa azione.
Mentre non mi viene in mente (ignoranza mia) se ci sono casi in cui un personaggio fa (o non fa) un'azione per il motivo che "ne aveva voglia" oppure "non ne aveva voglia".
Ora: questa è una precisa condizione umana.
Una precisa condizione psicologica.
Non è relativa al fatto che un'azione sia giusta o sbagliata in sè: è solo relativa alla disposizione mentale del soggetto.
Perciò chiedevo , nella domanda (1), anche la traduzione più fedele del testo: una cosa è odiare/detestare/non amare - cioè alla fin fine significa che si ritiene sbagliata un'azione e quindi non la si fa.
Altra cosa è ritenere giusta/buona un'azione e ugualmente non farla.
Motivo: non "ci si sente" di farla, non si è "dell'umore giusto", non "si ha voglia".
(Anzi ecco qua: potrei fare anche una ricerchina sul quando e in quale lingua nasce l'espressione "essere dell'umore giusto").
Pensando alla letteratura antica, religiosa e non, tale situazione si potrebbe verificare in due contesti:
- normale vita quotidiana o vita di grandi eroi. esempio: tale personaggio doveva fare una cosa, ma poi "non ne ebbe voglia", "non si sentì di farla", "non era dell'umore adatto". (Mi vien da ridere... esiste per caso un qualche condottiero che doveva fare una grande impresa ma rimandò al giorno dopo "perché non ne aveva voglia" ? Oppure uno che doveva raggiungere l'amante, ma "non oggi perché non sono dell'umore" ?)
- adempimenti religiosi: situazione in cui l'uomo conosce i riti, le azioni devozionali da farsi (e le ritiene buone&giuste) ma si verifica la condizione (umana) di non sentirsi psicologicamente o spiritualmente "aderente".
E qui torniamo al vangelo di Tommaso: mi sembrava di capire che il detto numero 6 volesse evidenziare tale condizione.
Nota. Per inquadrare ulteriormente il discorso, si può anche dire che - più o meno espliciti - ci sono due grandi filoni spirituali al riguardo: eseguire direttamente la pratica religiosa senza tante autoanalisi, oppure attendere che PRIMA si verifichi una tensione spirituale, un impulso "del cuore".
Si presume cioè in quest'ultimo caso una sorta di percorso preventivo che deve fare l'uomo: individuare e/o coltivare in sè stesso un determinato valore umano, un'espressione di umanità che parte da lui, un'impulso di libertà.
Il primo filone punterebbe invece più alla pratica acritica per raggiungere dal senso opposto determinate condizioni spirituali.
Da questi due filoni nascono intere teologie, religioni, o fratture dottrinali nelle religioni.
Ma comunque in questo topic volevo solo individuare delle semplici espressioni linguistiche, se c'erano.
La cosa più interessante sarebbe poi il raffronto, qualitativo e quantitativo, tra ebraico-aramaico e greco-latino.